Bernardo
Secchi è un ormai anziano professore di Urbanistica che
insegna a Venezia, per chi è della mia generazione resta legato al
riavvicinamento tra urbanistica ed architettura degli anni ottanta-novanta, ed
alla riclassificazione del discorso urbanistico fuori della compromissione (ai
suoi occhi) con la sociologia, l’economia, la politica e la teoria delle
decisioni pubbliche. Il suo, in quegli anni, era un programma di ricerca, ed
una battaglia culturale che –nel rispetto- mi vedeva dissenziente. L’urbanistica
che si occupa principalmente del bello, e del “buon disegno”, del progetto
urbano e via dicendo, pur nell’estrema importanza di tali questioni, mi pareva “far
fantoccini” (come disse Michelangelo delle sue sculture). Non era al centro della
mia attenzione, forse non a caso, alla fine neppure ciò ho fatto.
In ogni caso l’ipotesi di lavoro di
Bernardo era molto potente, e molto funzionale ai tempi. Come è ovvio ciò si
può dire in diverse accezioni, ed il tempo consente di dirlo in modo più
equanime. Dunque dirò che era funzionale alla fine della fase espansiva delle
trasformazioni urbane, alla lunga onda della ricostruzione e poi dell’espansione
edilizia del dopoguerra. Dunque era funzionale ad una società che riteneva di
potersi stabilizzare ed una classe media che sentiva il bisogno di una adeguata
rappresentazione del proprio status.
Però gli anni passano, e oggi sembra
quella influente ipotesi essere una “Nottola di Minerva”. E in questo senso mi
par interessante l’ultimo libro di Secchi: “La
Città dei ricchi e la città dei poveri”. Oggi il professore di Venezia
riconosce che il tema delle disuguaglianze coinvolge le modalità di costruzione
del territorio. Anzi, che essa, l’urbanistica di cui cercava l’indipendenza e
la capacità di un suo sapere proprio, “ha forti e precise responsabilità nell’aggravarsi
delle disuguaglianze”.
Partendo da questa ammissione, che ai
miei orecchi sona anche come autocritica, Bernardo individua correttamente una
<nuova questione urbana> e gli
attribuisce niente di meno che di essere una causa “non secondaria” della “crisi
che oggi attraversano le principali economie del pianeta”. Sarò sincero, ho
sempre considerato importante l’urbanistica –avendovi anche dedicato alcuni
anni- ma fatico a metterla così al centro. Alla fine permane una distanza tra
la mia sensibilità e la sua.
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| Bernardo Secchi |
Tuttavia molti in questo testo sono i
punti di convergenza, l’illustre professore (e professionista di grandissimo
successo) veneziano vede oggi le disuguaglianze sociali come una delle
questioni più rilevanti della <questione urbana> che tenta di definire.
Per farlo si sforza di allargare il
nostro sguardo sul carattere pluridimensionale delle nozioni e delle situazioni
esistenziali che chiamiamo <ricchezza> ed, al converso, <povertà>.
Incide in questa direzione la proiezione di senso che viene attribuito allo
spazio ed alla forma urbana come luogo di distinzione e di creazione di identità.
Oltre a tale dimensione sociale, e
antropologica, intervengono tre principali assi, lungo i quali si posiziona oggi per Secchi la <questione
urbana>: le forme evidenti di “ingiustizia spaziale”; la
diversa reazione o vulnerabilità di gruppi e territori ai cambiamenti
climatici; il tema rimosso della accessibilità e mobilità come parte dei
diritti di cittadinanza (p.6).
L’autore vola veloce su temi importanti,
evocandone i titoli più che trattarli, come la fine del modello fordista, con
la centralità del lavoro stabile, conforme alle regole, de-individualizzato
(come dice) e la corrispondente struttura della società con la centralità di
ceti medi in cerca di espressione. Vede che questa struttura sta cambiando
(evoca Bauman, Beck, Rifkin) e coinvolge il tema del rapporto tra capitale e
lavoro. Cioè quello tra capitale e modalità di produzione sociale (direi). Il
suo elenco include la crescente individualizzazione, la destrutturazione della
società, la consapevolezza della scarsità delle risorse ambientali, le
crescenti paure e quindi le domande di sicurezza, il progresso tecnologico ed un
meno chiaro “cambiamento delle regole dell’interazione sociale”, la necessità
di istruzione.
Tutte queste cose, un poco in ordine
sparso, confluiscono nel definire nuove immagini, scenari, politiche e
progetti. A portare in luce attori sociali, conflitti, linee di confine.
Quindi propone una tesi in qualche modo
forte. “lo spazio, grande prodotto
sociale costruito e modellato nel tempo, non è infinitamente malleabile, non è
infinitamente disponibile ai cambiamenti dell’economia, delle istituzioni e
della politica. Non solo perché vi frappone la resistenza della propria
inerzia, ma anche perché in qualche misura costruisce la traiettoria lungo la
quale questi stessi cambiamenti possono avvenire” (p.13). In parole
diverse, e se capisco l’anziano urbanista, qui è in questione l’orgogliosa
affermazione della centralità della costituzione materiale e della struttura
delle combinazioni e delle relazioni fisiche, sull’articolazione dei poteri che
determinano i funzionamenti che normalmente riassumiamo nelle etichette “economia”
e “politica”. E’ in questione una sorta di codeterminazione, naturalmente; ma
anche l’affermazione di un primato.
Allora, per comprendere il pensiero di Secchi
bisogna partire, come detto, dall’allargamento che compie del concetto di “ricco”
(e, al converso, di “povero”). Perché non si tratta di conto in banca o di
flusso reddituale, ma anche di disporre di altre forme di capitale: il “capitale
sociale”, “culturale” e “spaziale”. Il “capitale culturale” è proprio di chi
dispone di uno status attribuitogli da una riconosciuta competenza in una
comunità di discorso rilevante. Questa gli consente di valorizzare la propria
posizione o rendita.
Ma è ricco anche chi dispone di “capitale
sociale”, cioè è immerso in una rete di relazioni entro le quali è riconosciuto
e rispettato.
Infine ricco è chi “vive in parti della città e del territorio che ne facilitano l’inserimento
nella vita sociale, culturale, professionale e politica” (p.16). Dunque chi
ha “capitale spaziale” dispone di un bene che gli consente di aumentare gli
altri tre. In questo senso abbiamo un indizio dell’articolazione di ciò che
Bernardo vede come un primato.
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| progetto Secchi-Viganò |
Al converso, “povero” non è solo chi non
ha soldi, ma anche chi non ha accesso, è escluso, periferico, stigmatizzato,
ignorato, invisibile.
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| Vele di Secondigliano (NA) |
Di qui la centralità, sempre
riconosciuta nel discorso urbanistico, della prossimità, della comunicazione,
della connessione. E anche la questione della sicurezza, delle separazioni
difensive, del rinchiudersi, del ritagliarsi.
Nel discorso urbanistico ottocentesco e
primo-novecentesco (superata la “questione del lusso” settecentesca e quella “delle
abitazioni” primo ottocentesca, concentrata apparentemente sulla salubrità, in
realtà sulla riproduzione sociale, come la precedente era sul potere e sulla riproduzione
del capitale) la <Questione Urbana> era articolazione della distinzione,
dei quartieri borghesi e dei luoghi pubblici (o semipubblici) nei quali
rappresentare e formare la nuova classe egemone: teatri, parchi, ippodromi,
caffè. Luogo archetipico, ma non unico, la trasformazione urbana di Haussmann
(su questo scrissi un vecchio articolo che magari metto in un prossimo post).
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| Renoir - Parigi |
Nella pratica della formazione del
territorio contemporaneo si registrano fenomeni di introversione e ripiegamento
in un sociale difensivo e nella ricerca di una nuova omogeneità (di classe)
ostile alle differenze. Si tratta delle “gates communities” negli USA, dei “condominos
fechados” in Brasile, e via dicendo. Non sono fenomeni marginali, i numeri che
Secchi riporta sono impressionanti: negli Stati Uniti vi vivono da 10 a 16
milioni di abitanti, i più ricchi. Una cifra che assomiglia in modo
impressionante allo 0,1% che si è appropriato del 60% della nuova ricchezza
creata nell’ultimo quinquennio secondo molte ricerche. Si tratta di aree
recintate e protette, nelle quali vigono esigenti regolamenti e in cui si entra
solo per cooptazione tra eguali.
Come giustamente sottolinea Secchi, sono
la “negazione della città”, la immagine fisica e la piena rappresentazione di
una sotto-società che si separa e non intende condividere il proprio raggiunto
status. Non si percepisce e non vuole essere individuata come parte del “noi” più
ampio. Forse si legge come aristocrazia, certamente è la base sociale di una
oligarchia dominante.
Poi ci sono i “poveri”, che si
accatastano nei quartieri deprivati, nelle sacche residuali e nelle enclave
escluse dai flussi dominanti; che si concentrano, per un effetto che è sia
prossemico, sia materiale, in luoghi nei quali è povero e sfilacciato anche il “capitale
sociale” disponibile e quello “culturale”. In luoghi in cui il “capitale
spaziale” è assente o sotto assedio (p.48).
In mezzo c’è la “città diffusa” (p.38).
Una “città” iperindividualizzata, nella quale si vive entro il proprio piccolo
mondo e si difende il proprio privato. La vecchia “classe media” sotto assedio
e spaventata si rifugia qui: in particolare la classe media autonoma, dell’atomizzazione
di cui parlava ad esempio Bonomi.
Come reagisce, o deve reagire, il
discorso urbanistico nell’articolare questa nuova <Questione Urbana>?
Secchi propone una soluzione tradizionale: proporre meccanismi e dispositivi spaziali
di integrazione, di “percolazione” tra gruppi e ceti. Mettere in contatto. Potenziare
i servizi di base universalisti per consentire di accumulare “capitale
culturale” e “sociale”. Tentare anche di riflettere sulla città fatta di
frammenti autoreferenti (il discorso che fa risalire a Barthes e Foucault,
p.58) dotati di proprie grammatiche non comunicanti, richiamando la forza dell’utopia
democratica viva in tutta la tradizione urbanistica migliore.
Quindi, e su questo non posso che
concordare, spingere nel progetto urbano sullo sforzo di creare “capitale
spaziale” e metterlo a disposizione; lavorare su redistribuzione (anche e
soprattutto dei tre “capitali”) e sull’integrazione sociale che ne dovrebbe essere
il prodotto. Richiamare in questa chiave il tema della mobilità, ma anche –aggiungo-
dell’accesso all’energia e alla natura.
Garantire, insomma, porosità,
permeabilità ed accessibilità (le vecchie parole d’ordine dell’indimenticato
Kevin Linch) ritornando a riflettere sulla struttura spaziale, sulla dimensione
del collettivo. Lavorare per ridurre le disuguaglianze spaziali.
Anche
questo è un compito che apre al futuro.






Porto un esempio di una provincia che avrebbe potuto mantenere una ricchezza sociale. Piacenza e provincia, uno scellerato, dannoso progetto di sviluppo di logistica ha cambiato completamente le prospettive del luogo. Pochi soggetti predatori hanno trasformato in predatori anche gli schiavi lavoratori. Nel caso di cambiamento economico in cui la logistica non serve più almeno questa logistica citroveremmo un territorio distrutto nella sua socialità con un grandissimo rischio di spopolamento.
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