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domenica 13 luglio 2014

Bernardo Secchi, “La città dei ricchi e la città dei poveri”

  
Bernardo Secchi è un ormai anziano professore di Urbanistica che insegna a Venezia, per chi è della mia generazione resta legato al riavvicinamento tra urbanistica ed architettura degli anni ottanta-novanta, ed alla riclassificazione del discorso urbanistico fuori della compromissione (ai suoi occhi) con la sociologia, l’economia, la politica e la teoria delle decisioni pubbliche. Il suo, in quegli anni, era un programma di ricerca, ed una battaglia culturale che –nel rispetto- mi vedeva dissenziente. L’urbanistica che si occupa principalmente del bello, e del “buon disegno”, del progetto urbano e via dicendo, pur nell’estrema importanza di tali questioni, mi pareva “far fantoccini” (come disse Michelangelo delle sue sculture). Non era al centro della mia attenzione, forse non a caso, alla fine neppure ciò ho fatto.

In ogni caso l’ipotesi di lavoro di Bernardo era molto potente, e molto funzionale ai tempi. Come è ovvio ciò si può dire in diverse accezioni, ed il tempo consente di dirlo in modo più equanime. Dunque dirò che era funzionale alla fine della fase espansiva delle trasformazioni urbane, alla lunga onda della ricostruzione e poi dell’espansione edilizia del dopoguerra. Dunque era funzionale ad una società che riteneva di potersi stabilizzare ed una classe media che sentiva il bisogno di una adeguata rappresentazione del proprio status.

Però gli anni passano, e oggi sembra quella influente ipotesi essere una “Nottola di Minerva”. E in questo senso mi par interessante l’ultimo libro di Secchi: “La Città dei ricchi e la città dei poveri”. Oggi il professore di Venezia riconosce che il tema delle disuguaglianze coinvolge le modalità di costruzione del territorio. Anzi, che essa, l’urbanistica di cui cercava l’indipendenza e la capacità di un suo sapere proprio, “ha forti e precise responsabilità nell’aggravarsi delle disuguaglianze”.
Partendo da questa ammissione, che ai miei orecchi sona anche come autocritica, Bernardo individua correttamente una <nuova questione urbana> e gli attribuisce niente di meno che di essere una causa “non secondaria” della “crisi che oggi attraversano le principali economie del pianeta”. Sarò sincero, ho sempre considerato importante l’urbanistica –avendovi anche dedicato alcuni anni- ma fatico a metterla così al centro. Alla fine permane una distanza tra la mia sensibilità e la sua.

Bernardo Secchi
Tuttavia molti in questo testo sono i punti di convergenza, l’illustre professore (e professionista di grandissimo successo) veneziano vede oggi le disuguaglianze sociali come una delle questioni più rilevanti della <questione urbana> che tenta di definire.
Per farlo si sforza di allargare il nostro sguardo sul carattere pluridimensionale delle nozioni e delle situazioni esistenziali che chiamiamo <ricchezza> ed, al converso, <povertà>. Incide in questa direzione la proiezione di senso che viene attribuito allo spazio ed alla forma urbana come luogo di distinzione e di creazione di identità.
Oltre a tale dimensione sociale, e antropologica, intervengono tre principali assi, lungo i quali si posiziona oggi per Secchi la <questione urbana>: le forme evidenti di “ingiustizia spaziale”; la diversa reazione o vulnerabilità di gruppi e territori ai cambiamenti climatici; il tema rimosso della accessibilità e mobilità come parte dei diritti di cittadinanza (p.6).

L’autore vola veloce su temi importanti, evocandone i titoli più che trattarli, come la fine del modello fordista, con la centralità del lavoro stabile, conforme alle regole, de-individualizzato (come dice) e la corrispondente struttura della società con la centralità di ceti medi in cerca di espressione. Vede che questa struttura sta cambiando (evoca Bauman, Beck, Rifkin) e coinvolge il tema del rapporto tra capitale e lavoro. Cioè quello tra capitale e modalità di produzione sociale (direi). Il suo elenco include la crescente individualizzazione, la destrutturazione della società, la consapevolezza della scarsità delle risorse ambientali, le crescenti paure e quindi le domande di sicurezza, il progresso tecnologico ed un meno chiaro “cambiamento delle regole dell’interazione sociale”, la necessità di istruzione.
Tutte queste cose, un poco in ordine sparso, confluiscono nel definire nuove immagini, scenari, politiche e progetti. A portare in luce attori sociali, conflitti, linee di confine.

Quindi propone una tesi in qualche modo forte. “lo spazio, grande prodotto sociale costruito e modellato nel tempo, non è infinitamente malleabile, non è infinitamente disponibile ai cambiamenti dell’economia, delle istituzioni e della politica. Non solo perché vi frappone la resistenza della propria inerzia, ma anche perché in qualche misura costruisce la traiettoria lungo la quale questi stessi cambiamenti possono avvenire” (p.13). In parole diverse, e se capisco l’anziano urbanista, qui è in questione l’orgogliosa affermazione della centralità della costituzione materiale e della struttura delle combinazioni e delle relazioni fisiche, sull’articolazione dei poteri che determinano i funzionamenti che normalmente riassumiamo nelle etichette “economia” e “politica”. E’ in questione una sorta di codeterminazione, naturalmente; ma anche l’affermazione di un primato.
Allora, per comprendere il pensiero di Secchi bisogna partire, come detto, dall’allargamento che compie del concetto di “ricco” (e, al converso, di “povero”). Perché non si tratta di conto in banca o di flusso reddituale, ma anche di disporre di altre forme di capitale: il “capitale sociale”, “culturale” e “spaziale”. Il “capitale culturale” è proprio di chi dispone di uno status attribuitogli da una riconosciuta competenza in una comunità di discorso rilevante. Questa gli consente di valorizzare la propria posizione o rendita.
Ma è ricco anche chi dispone di “capitale sociale”, cioè è immerso in una rete di relazioni entro le quali è riconosciuto e rispettato.
Infine ricco è chi “vive in parti della città e del territorio che ne facilitano l’inserimento nella vita sociale, culturale, professionale e politica” (p.16). Dunque chi ha “capitale spaziale” dispone di un bene che gli consente di aumentare gli altri tre. In questo senso abbiamo un indizio dell’articolazione di ciò che Bernardo vede come un primato.

progetto Secchi-Viganò

Al converso, “povero” non è solo chi non ha soldi, ma anche chi non ha accesso, è escluso, periferico, stigmatizzato, ignorato, invisibile.

Vele di Secondigliano (NA)
Di qui la centralità, sempre riconosciuta nel discorso urbanistico, della prossimità, della comunicazione, della connessione. E anche la questione della sicurezza, delle separazioni difensive, del rinchiudersi, del ritagliarsi.

Nel discorso urbanistico ottocentesco e primo-novecentesco (superata la “questione del lusso” settecentesca e quella “delle abitazioni” primo ottocentesca, concentrata apparentemente sulla salubrità, in realtà sulla riproduzione sociale, come la precedente era sul potere e sulla riproduzione del capitale) la <Questione Urbana> era articolazione della distinzione, dei quartieri borghesi e dei luoghi pubblici (o semipubblici) nei quali rappresentare e formare la nuova classe egemone: teatri, parchi, ippodromi, caffè. Luogo archetipico, ma non unico, la trasformazione urbana di Haussmann (su questo scrissi un vecchio articolo che magari metto in un prossimo post).
Renoir - Parigi
Nella pratica della formazione del territorio contemporaneo si registrano fenomeni di introversione e ripiegamento in un sociale difensivo e nella ricerca di una nuova omogeneità (di classe) ostile alle differenze. Si tratta delle “gates communities” negli USA, dei “condominos fechados” in Brasile, e via dicendo. Non sono fenomeni marginali, i numeri che Secchi riporta sono impressionanti: negli Stati Uniti vi vivono da 10 a 16 milioni di abitanti, i più ricchi. Una cifra che assomiglia in modo impressionante allo 0,1% che si è appropriato del 60% della nuova ricchezza creata nell’ultimo quinquennio secondo molte ricerche. Si tratta di aree recintate e protette, nelle quali vigono esigenti regolamenti e in cui si entra solo per cooptazione tra eguali.
Come giustamente sottolinea Secchi, sono la “negazione della città”, la immagine fisica e la piena rappresentazione di una sotto-società che si separa e non intende condividere il proprio raggiunto status. Non si percepisce e non vuole essere individuata come parte del “noi” più ampio. Forse si legge come aristocrazia, certamente è la base sociale di una oligarchia dominante.

Poi ci sono i “poveri”, che si accatastano nei quartieri deprivati, nelle sacche residuali e nelle enclave escluse dai flussi dominanti; che si concentrano, per un effetto che è sia prossemico, sia materiale, in luoghi nei quali è povero e sfilacciato anche il “capitale sociale” disponibile e quello “culturale”. In luoghi in cui il “capitale spaziale” è assente o sotto assedio (p.48).

In mezzo c’è la “città diffusa” (p.38). Una “città” iperindividualizzata, nella quale si vive entro il proprio piccolo mondo e si difende il proprio privato. La vecchia “classe media” sotto assedio e spaventata si rifugia qui: in particolare la classe media autonoma, dell’atomizzazione di cui parlava ad esempio Bonomi.


Come reagisce, o deve reagire, il discorso urbanistico nell’articolare questa nuova <Questione Urbana>? Secchi propone una soluzione tradizionale: proporre meccanismi e dispositivi spaziali di integrazione, di “percolazione” tra gruppi e ceti. Mettere in contatto. Potenziare i servizi di base universalisti per consentire di accumulare “capitale culturale” e “sociale”. Tentare anche di riflettere sulla città fatta di frammenti autoreferenti (il discorso che fa risalire a Barthes e Foucault, p.58) dotati di proprie grammatiche non comunicanti, richiamando la forza dell’utopia democratica viva in tutta la tradizione urbanistica migliore.


Quindi, e su questo non posso che concordare, spingere nel progetto urbano sullo sforzo di creare “capitale spaziale” e metterlo a disposizione; lavorare su redistribuzione (anche e soprattutto dei tre “capitali”) e sull’integrazione sociale che ne dovrebbe essere il prodotto. Richiamare in questa chiave il tema della mobilità, ma anche –aggiungo- dell’accesso all’energia e alla natura.


Garantire, insomma, porosità, permeabilità ed accessibilità (le vecchie parole d’ordine dell’indimenticato Kevin Linch) ritornando a riflettere sulla struttura spaziale, sulla dimensione del collettivo. Lavorare per ridurre le disuguaglianze spaziali.

Anche questo è un compito che apre al futuro.


1 commento:

  1. Porto un esempio di una provincia che avrebbe potuto mantenere una ricchezza sociale. Piacenza e provincia, uno scellerato, dannoso progetto di sviluppo di logistica ha cambiato completamente le prospettive del luogo. Pochi soggetti predatori hanno trasformato in predatori anche gli schiavi lavoratori. Nel caso di cambiamento economico in cui la logistica non serve più almeno questa logistica citroveremmo un territorio distrutto nella sua socialità con un grandissimo rischio di spopolamento.

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