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sabato 16 agosto 2014

La “finanza su trampoli” e lo sviluppo locale: alcuni appunti.


Nel post precedente provavo a chiedermi cosa perde per strada la nostra economia disincarnata che, in alcuni anche intenzionalmente, sottrae qualsiasi possibilità di successo e di esistenza all’azione collettiva. Nega, per semplice applicazione di coerenza logica, la possibilità che oltre all’affermazione del più forte ci sia spazio ad un’azione di governo volta a risarcire e riequilbrare.
Da oltre trenta anni siamo in questo racconto: per liberare lo spazio alla competizione, nuovo ambiente naturale e destino dei nostri tempi, bisogna per quanto possa essere duro rimuovere ogni ostacolo, abbattere ogni argine, eliminare ogni debolezza (ed i deboli con essa). Una voce austera (e vagamente padronale) ci ricorda in ogni occasione che Non Ci Sono Alternative (TINA).


La faccia più facilmente visibile di questa logica ci arriva con il mercantilismo, con la logica dell’esportatore, di chi ricerca i clienti per i propri prodotti nei mercati aperti mondiali verso i quali non ha alcuna responsabilità; partendo soprattutto da una produzione che è determinata sistematicamente nel territorio più “accogliente”, in quello che offre maggiori vantaggi a breve termine e verso il quale è attivato un rapporto esclusivamente strumentale.
Non è sempre stato così. Di norma, sino a pochi anni fa, la produzione avveniva entro territori amici, nei quali permanevano forti rapporti e reciproca protezione. Un’attività imprenditoriale, infatti, prevede investimenti pluriennali e determina rapporti forti e consolidati con la comunità locale, alla cui forza e capacità ci si rivolge per determinarla in produzione; ed alla quale in genere ci si rivolge come mercato di sbocco primario. Questo storico modello, sul quale l’Italia ha costruito buona parte delle proprie fortune negli anni del boom e seguenti (non credo sia il caso ricordare tutta la ricerca sui “distretti”, la ricerca di Bagnasco, o l’esempio –su cui tra breve faremo un post specifico- della “comunità” di Olivetti), aveva una sua capacità di tenuta e una forza intrinseca che in parte gli veniva proprio da queste relazioni. Da questa responsabilità.

Questo modello si ancorava, però, anche ad una finanza locale che ormai non c’è più da tempo: una finanza fatta di rapporti e conoscenza, di Casse di Risparmio, di Banche Rurali, di piccole banche locali e anche di filiali di banche nazionali comunque radicate. Nel corso degli anni novanta (e del finire degli ottanta) tutto questo è stato spazzato via da un processo di fusione e aggregazione che ha lasciato sul campo solo poche decine di attori internazionali che operano guardando più verso la BCE ed i “mercati” che verso i territori dai quali peraltro traggono la raccolta.
La finanza, non solo quella “ombra” (dei Fondi di Investimento, delle Società Veicolo di vario genere, ai vari intermediatori più o meno visibili ma comunque non regolati), si è ormai “alzata su trampoli” (informatici) e corre in cerca di utilizzi rapidi, frettolosi, in sostanza violenti ed irresponsabili, rifuggendo dai vecchi utilizzi “freddi” (noiosi, pazienti, cumulativi, capaci di essere attenti e seminali).

Le conseguenze, se vogliamo guardare la cosa dal punto di vista locale (termine che si può applicare alla scala nazionale, regionale o territoriale), sono gravissime e ancora poco osservate. Una finanza che si muove spostando colossali flussi indifferentemente sull’intera scala planetaria, ha un atteggiamento da “predone” con le risorse territoriali (in questo termine includiamo anche la forza lavoro e i consumatori locali, cioè il reddito disponibile). È sempre alla ricerca di una oasi non abbastanza sfruttata, di una enclave nella quale una risorsa, una domanda “interna”, possa essere ancora spremuta un poco; appena la trova piomba, con la sua enorme capacità, e la colonizza.

I greci, quando creavano una colonia (io vivo in una di esse) restavano e ne facevano una base indipendente dalla quale rafforzare la propria presenza. Queste, invece, sono più campi di lavoro, assomigliano alle stazioni di caccia che gli europei aprirono nella prima parte della colonizzazione del nuovo mondo; punteggiate di fortini e senza insediamenti stabili.
I “nomadi” che amano costruirli sanno che tanto le loro basi sono altrove (o meglio non sono), ciò che conta è mettere quante più pelli possibili, nel minor tempo possibile, sui veloci carri.

Come funziona questa dinamica nei confronti dei territori locali? Per comprenderlo dobbiamo uscire dalla rappresentazione istintiva del denaro come “cosa”, come merce scarsa. Questa implicita idea trattiene nelle sue mani buona parte del dibattito, ma è radicalmente errata, esso è invece generato nel rapporto di credito (quindi non viene “usato”, ma “creato” a partire dalle operazioni di credito/debito), ma non “dal nulla” come spesso si dice: è generato propriamente dalla promessa di restituzione del debitore. Il denaro, creato originariamente dalle promesse di restituzione (cioè dal debito), è in sostanza una tecnologia sociale potentissima che rappresenta e determina un rapporto di dominazione. Rappresenta sostanzialmente il lavoro del debitore che tramite esso (ricevendolo) si impegna a servirlo.
Ci torneremo, ma questo cosa comporta nella pratica? E come è legato con l’immensa espansione monetaria “calda” generata continuamente dalle Banche Centrali (Americana, Inglese e Giapponese, ma anche Cinese) e alla quale viene chiamata anche la BCE?

Questo “denaro” messo in campo dalle Banche Centrali è, in realtà, un debito. Al di là dei particolari tecnici si tratta dell’acquisto di Titoli (pubblici o privati) che rappresentano l’accensione di una operazione di finanziamento a fronte della quale sono attivi dei rendimenti, una restituzione, sono connessi (legati, asserviti) dei debitori. Abbiamo, quindi, un costante flusso di cercatori di occasioni, in cerca di nuovi debitori per creare il relativo denaro (cioè il rapporto di dominazione che li induca a lavorare per restituirlo), che vorticosamente si muovono tra i territori ad accendere nuove operazioni finanziarie “speculative”. In realtà si tratta di una sorta di dipendenza, come vedremo.

In sostanza all’accensione di una nuova operazione finanziaria viene acceso un contratto di finanziamento che attiva contabilmente un flusso di denaro, prima non esistente (perché non esisteva il suo presupposto, l’impegno a servirlo da parte di un debitore), lo trasferisce al debitore e simmetricamente accende una posizione contabile negativa nell’istituto emittente. Tutto molto semplice, si tratta di due catene credito/debito connesse. Man mano che il debito è restituito va a cancellare la posizione contabile negativa e dunque “scompare” (salvo la parte che resta come parcella dell’istituto). Resterebbe un problema: nel frattempo (e può significare per i dieci anni di un contratto di mutuo) l’emittente si trova con un debito ed un credito. Il primo per l’accensione della posizione contabile negativa, il secondo per il contratto di restituzione con il beneficiario del finanziamento. Ma in caso non sia restituito ha un rischio da gestire. Dunque non ne può accendere in numero illimitato.
Questo problema è stato risolto dalle Banche Centrali e dalla Finanza Ombra. È la grande innovazione degli anni novanta: i titoli sono reimpacchettati e venduti (o depositati che è lo stesso) e quindi sono immediatamente “chiusi”; se ne possono aprire altri. In questo senso la finanza apre debiti locali e li distribuisce. Alla lunga questo ha reso instabile il sistema e creato eccesso di debito insostenibile.

Ma torniamo agli impatti sul territorio: il capitale di debito cerca di trovare un’occasione di investimento, ovvero cerca essenzialmente qualcuno che possa pagare, nel tempo, le rate del finanziamento. Se non lo trova non esiste.
Le conseguenze sono importanti e vanno osservate con attenzione, il processo di finanziamento produce due effetti simmetrici e di segno opposto:
-          Genera immediate risorse economiche che entrano nel circuito locale, tramite i beni e servizi che sono necessari per realizzare l’investimento e/o i consumi e gli ulteriori investimenti (ma finanziati “per cassa”) che i percettori dei flussi eventualmente compiono;
-          estrae nel tempo flussi di valore creati dal lavoro, che vanno a remunerare il contratto di debito.

Produce, in altre parole, un beneficio immediato e un danno nel tempo più graduale.

Ora, fa molta differenza, senza arrivare alle radicali proposte di Martin Wolf, se il finanziatore è una Banca Locale (che impiegherà sul territorio i proventi delle sue parcelle, e tenderà a riaprire nuovi contratti di finanziamento in sostituzione), o un Fondo di Investimento Speculativo, più o meno connesso con un Istituto in grado di depositare in una Banca Centrale i Titoli o con una Banca di Affari che è in grado di “confezionarli” e rivenderli ai risparmiatori tedeschi.
Nel primo caso, la dinamica è molto più lenta (infatti questo genere di banche, non abbastanza “lunghe” non hanno retto al nuovo ambiente), ma è anche più costante. Nel secondo la potenziale espansione è più forte (tipicamente si punta su operazioni più grandi), ma non c’è alcuna ricircolazione locale dei flussi estratti dal reddito locale.

Questa tecnologia opera quindi estraendo valore locale e creando le condizioni relazionali ed i canali tecnici per trasferirlo ai risparmiatori internazionali (cioè ai “mercati”). In un certo senso, in modo abbreviato, si potrebbe dire che i lavoratori locali indebitati si trovano a farlo per i “mercati”. Senza accorgercene (ma alcuni lo sanno benissimo); ci troviamo a lavorare per il pensionato di Dusserdorf che ha acquistato una parte di un pacchetto di derivati (anche lui senza saperlo) ed in esso ha “investito” i propri risparmi. Dall’altro lato, infatti, questi ha “comprato” un contratto che prevede, in cambio del suo prezzo pagato immediatamente, di ricevere una piccola parte della nostra rata di mutuo che il nostro intermediario ha nel frattempo riconfezionato e rivenduto.

Questa potentissima tecnologia sociale, tramite la più antica del denaro ma grazie a questi perfezionamenti (peraltro concettualmente tutti già noti da secoli) resi a lor volta potentissimi dal linguaggio informatico e dalle reti di comunicazione che crea, mette in contatto e determina condizioni di dipendenza (certo reciproca) tra attori lontanissimi che non si conoscono e che non nutrono reciprocamente alcun rapporto e responsabilità.
Il punto è che l’impersonalità di questo rapporto, e la sua lunghezza, consente la cattura dei territori in una dinamica di dipendenza. Infatti, se un territorio non attrae sempre nuovi “capitali” (cioè, non crea le condizioni di crearli, attraverso sempre nuove ed appropriate procedure di rendimento) si svuota progressivamente, per effetto del “servizio” dei vecchi capitali in scadenza.
In certo senso, si inaridisce. Il reddito dei suoi attori sociali ed abitanti “evapora” e ricade, come pioggia, altrove.

A livello macro è esattamente quel che sta accadendo all’Italia da quando i flussi di rifinanziamento sono stati interrotti dal nord Europa (guardare ad esempio i saldi storici del sistema Target 2), e da quando anche il sistema finanziario nazionale (interconnesso più verso l’alto che verso il basso) ha ristretto progressivamente il flusso di credito.
Ogni credito non rinnovato, ogni saldo negativo, è altrettanto “denaro” che rifluisce e scompare. Il meccanismo illustrato rende chiaro che avere in queste condizioni un saldo negativo di credito, non trovare altre occasioni per indebitarsi, non avere “progetti”, significa perdere massa monetaria interna. Una carenza che ormai si calcola in centinaia di miliardi di euro.

Ora parliamo di territorio.

“L’attrazione dei capitali”, ma vale dire, la creazione di debito e dunque di capitale che lo rappresenta, è molto più facile per diverse ragioni tecniche pratiche da accendere su operazioni fondate su beni immobili e “reali” che su attività. In conseguenza sono primariamente le operazioni immobiliari (e quelle sulle risorse naturali) ad essere il primario bersaglio ricercato dai “predoni”.
Non è un caso che da una ventina d’anni il territorio sia cresciuto soprattutto per grandi tasselli (ipermercati, centri commerciali, aree specializzate, operazioni di ristrutturazione urbanistica, grandi bonifiche e riqualificazioni) inseriti sui territori senza alcuna autentica relazione con essi. Non si tratta di processi maturati dalle esigenze manifestate entro la dinamica locale, ma di “opportunità” che in essa atterrano.
Resta molto più difficile produrre lo stesso effetto per gli investimenti produttivi, per la intrinseca aleatorietà del profilo di rischio specifico. Fanno eccezione gli investimenti delle grandi multinazionali, o comunque delle aziende in grado di gestire un rapporto privilegiato con il flusso di credito. Ma questo aggrava l’instabilità del modello, perché la multinazionale non sente responsabilità verso il territorio nel quale spesso non vende neppure i prodotti, lo percepisce come un supporto e un cestino di opportunità da sfruttare. Se questo non è più rispondente, o trova occasioni migliori, se ne va con la stessa velocità con la quale è arrivata. Di qui le pratiche di marketing territoriali e le politiche di <cluster engineering> che costano in USA, come ci racconta Moretti, alle pubbliche amministrazioni americane qualcosa come 60 miliardi di dollari all’anno attraverso interventi sulla domanda (volti a convincere, con mirati incentivi, le aziende a localizzarsi); e sull’offerta (rivolti a rendere attraenti i territori per lavoratori di talento, nell’idea che la loro presenza attiri o stimoli le aziende a venire ed a essere create).

Per questo motivo, l’ultima “bolla” che ha trainato la crescita (quella interrotta nel 2008, ma anche quella in ripresa in questo momento negli USA) era trainata dall’espansione immobiliare. Sia quella delle famiglie (invitate pressantemente a sovraindebitarsi) sia quella degli altri “segmenti”, commerciale, terziario e industriale. L’unica eccezione recente era la bolla della “new economy”, in cui fino al 2001 una febbre di investimenti nelle attività di servizio e industriali anche vagamente connesse a internet ha attirato capitali (ovvero, ha creato espansione dei capitali circolanti, e dunque crescita, tramite l’espansione di debito rivenduto tramite il Nasdaq).

Ma cosa comporta ciò per i territori, dicevamo?
Almeno due cose, una crescita fisica del territorio per enclave, blocchetti, un’attrazione verso il distinto (che è uno dei meccanismi di attrazione tipici del marketing edilizio), il separato, il protetto. In parte non secondaria questa crescita dipende dal suo avvenire per “grandi operazioni”, nelle aree più dinamiche, in quelle che appunto “attraggono”. La perdita di “prossimità, comunicazione, connessione” (come ricorda Secchi) è quindi un primo effetto.



La seconda implicazione è che questo territorio (e di nuovo questo vale anche alla scala nazionale) dipende dal rinnovo del flusso di credito (alle famiglie come alle imprese) come un drogato dipende dal rinnovo della sua dose, che deve sempre alzare.

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