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martedì 19 agosto 2014

Circa Lorenzo Bini Smaghi, "Ridurre il debito: attenti ai falsi miti"

Ricevo e volentieri posto questo intervento sull'intervento dell'economista Bini Smaghi, fiorentino di nobile famiglia, laureato in economia in Belgio e dottorato a Chicago, attualmente membro del consiglio di amministrazione della Morgan Stanley, autore di diversi libri tra cui quello che abbiamo letto in B&B&B
Per altri commenti al pezzo di Smaghi, si può leggere Formiche e Italia Oggi.

Lorenzo Bini-Smaghi

<Ieri sul Corriere della Sera un articolo di Lorenzo Bini Smaghi, importante economista, in passato membro del direttorio della BCE, si scaglia contro coloro che pensano si possa ridurre il debito pubblico attraverso operazioni straordinarie, accusandoli di proporre soluzioni non realistiche.  Vediamo le argomentazioni e proviamo a verificarne la forza logica e fattuale.


La prima argomentazione è “il costo di una eventuale ristrutturazione sarebbe pagato dagli italiani, in particolare i meno abbienti”. Bini Smaghi arriva a questa conclusione dopo aver constatato che il 70% del debito pubblico è in mano a residenti, cioè a imprese e cittadini italiani e quindi qualsiasi perdita di valore del debito pubblico per effetto della ristrutturazione sarebbe sostenuto per oltre due terzi dagli italiani.
Bini Smaghi dimentica però che oggi il 100% degli oneri per interessi e rimborso del capitale è a carico degli italiani. Quindi una ristrutturazione sposta il 30% degli oneri dagli italiani agli stranieri. Vi è poi la questione se le perdite sui titoli di stato pesino di più sui ricchi o sui poveri. Non è ovvio come Bini Smaghi arrivi alla sorprendente conclusione che i titoli di stato siano posseduti in gran parte dai cittadini meno abbienti visto che tutte le ricerche della Banca d’Italia mostrano che la ricchezza finanziaria è concentrata nel 10% più ricco della popolazione. Forse Bini Smaghi voleva dire che in caso di ristrutturazione i ricchi più attenti e più informati venderebbero i loro titoli in anticipo evitando di subire le perdite lasciando quindi le perdite solo ai meno informati e meno abbienti.
L’economista ipotizza quindi che i poveri, diventati magicamente ricchi, possano acquistare tutti i titoli messi in vendita dai ricchi così da essere poi comodamente tosati al momento della ristrutturazione. L’ipotesi si commenta da sola.

La seconda argomentazione è quella dell’impatto sulla stabilità finanziaria. Poiché le banche possiedono 400 miliardi di titoli, qualsiasi perdita indotta dalla ristrutturazione del debito dovrebbe essere rimborsata immettendo nuovo capitale. Capitale questo che dovrebbe essere fornito dalla Troika e richiederebbe quindi una messa sotto tutela dell’Italia sul modello greco.
In questa argomentazione in apparenza logica ci sono due assunzioni che potrebbero non essere così forti come sembrano. La prima. E’ vero che le banche andrebbero ricapitalizzate ma, come nel caso greco, sarebbero anche nazionalizzate e quindi potrebbero essere successivamente vendute  rientrando degli esborsi. In altre parole la ristrutturazione del debito si traduce in un esproprio degli azionisti privati delle banche ma non necessariamente in una perdita per lo Stato. La seconda assunzione che il denaro per ricapitalizzare le banche debba venire dall’Europa è anch’essa discutibile. Lo Stato Italiano potrebbe emettere dei Nuovi Titoli di Stato post ristrutturazione e conferirli alle banche in sede di ricapitalizzazione. Queste sarebbero obbligate ad accettarli (anche se le loro controparti internazionali potrebbero ritenere questi strumenti non sufficientemente sicuri per garantire l’integrità del loro patrimonio con ripercussioni sull’accesso delle nostre banche ai mercati finanziari).

Il che ci porta alla terza linea di argomentazione di Bini Smaghi che la ristrutturazione del debito pubblico italiano porterebbe ad una immediata chiusura dei mercati internazionali per le aziende e le istituzioni finanziarie italiane.
E’ possibile che questo avvenga ma per quanto? Il servizio del debito pubblico italiano dopo la ristrutturazione sarebbe certamente più facile e quindi il debito stesso sarebbe più solido. E’ bene considerare che la ristrutturazione del debito è un evento “fisiologico” nel capitalismo a livello di singola impresa quando l’eccesso di debito metta in discussione la sostenibilità nel tempo dell’azienda non rendendo possibile il normale ciclo di investimenti per carenza di liquidità. Ma anche a livello di interi paesi la ristrutturazione del debito pubblico non è un evento “anomalo” visto che, secondo una ricerca del Fondo Monetario Internazionale, negli ultimi 30 anni nel mondo vi sono state ben 229 ristrutturazioni del debito pubblico in vari paesi. Alcuni di questi hanno addirittura operato numerose ristrutturazioni del debito. Senza scomodare l’Argentina non risulta che le imprese Turche non abbiano accesso ai mercati dei capitali, eppure la Turchia ha ristrutturato il debito due volte in questi 30 anni.

Bini Smaghi tocca poi il punto fondamentale del sostegno della BCE durante la transizione. E’ chiaro ai suoi occhi – e noi lo condividiamo – che il sostegno di liquidità della BCE alle banche italiane è condizione necessaria per mantenere integro il sistema di pagamenti e gestire in modo ordinato le conseguenze della ristrutturazione del debito. L’economista pensa però che la BCE lo condizionerebbe a severe misure macro economiche di risanamento tali da determinare un commissariamento de facto dell’Italia.
Sarà, ma abbiamo alcuni dubbi. L’Italia una volta liberata del peso del debito pubblico, sarebbe uno dei paesi più virtuosi in Europa. Il paese con avanzo primario più alto, il paese con il sistema pensionistico in maggiore equilibrio e, liberato dal peso degli interessi sul debito, il paese con 30 o 40 miliardi di euro da investire per ridurre le tasse e recuperare competitività per le imprese.

Non si vuole qui sostenere che la ristrutturazione di un debito pubblico grande come quello italiano sia auspicabile né che sarebbe senza conseguenze, tutt’altro. Nell’ipotesi di sostituire tutti i titoli pubblici di durata superiore ai 12 mesi, con nuovi titoli di scadenza allungata di dieci, venti o trenta anni e cedola indicizzata alla variazione del prodotto interno, le perdite per i possessori dei titoli sarebbero ingenti. Le banche e assicurazioni italiane fallirebbero e sarebbero nazionalizzate. Alcune banche e assicurazioni internazionali potrebbero fallire. Molti patrimoni finanziari ne sarebbero devastati mentre i patrimoni investiti in immobili ne sarebbero in larga parte immuni, mentre questi ultimi oggi sempre di più sono chiamati a sostenere gli oneri del debito pubblico attraverso le varie IMU, Tasi, ecc.

La questione della ristrutturazione del debito pubblico si rivela quindi per quello che è. Una questione di rapporti tra creditori e debitori. Nazionali e internazionali. Una questione di trasferimento di ricchezza, che oggi scorre dai contribuenti ai creditori e che, nel caso della ristrutturazione del debito scorrerebbe in senso inverso. Non indolore per alcuni. Migliorativa per altri.


Bini Smaghi chiude dicendo che se è vero che la Grecia non aveva alternative alla ristrutturazione del debito pubblico –poiché superiore al 150% del PIL – l’Italia che è “solo” al 135% ha ancora alternative e può evitare la ristrutturazione e quindi dovrebbe farlo. Ciò che Bini Smaghi non vede o non può dire, è che un paese in stagnazione ventennale alle prese con una deflazione non è in grado di sostenere a lungo un peso del debito pubblico che cresce in termini reali. Senza un’inflazione sostenuta al 3-5% non sarà facile sostenere un debito pubblico “monstre” come quello italiano. E quindi ben venga la discussione sui pro e contro di una ristrutturazione del debito.>

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