Ricevo e volentieri posto questo intervento sull'intervento dell'economista Bini Smaghi, fiorentino di nobile famiglia, laureato in economia in Belgio e dottorato a Chicago, attualmente membro del consiglio di amministrazione della Morgan Stanley, autore di diversi libri tra cui quello che abbiamo letto in B&B&B.
<Ieri sul
Corriere della Sera un articolo di Lorenzo Bini Smaghi,
importante economista, in passato membro del direttorio della BCE, si scaglia
contro coloro che pensano si possa ridurre il debito pubblico attraverso
operazioni straordinarie, accusandoli di proporre soluzioni non
realistiche. Vediamo le argomentazioni e
proviamo a verificarne la forza logica e fattuale.
La prima
argomentazione è “il costo di una
eventuale ristrutturazione sarebbe pagato dagli italiani, in particolare i meno
abbienti”. Bini Smaghi arriva a questa conclusione dopo aver constatato che
il 70% del debito pubblico è in mano a residenti, cioè a imprese e cittadini
italiani e quindi qualsiasi perdita di valore del debito pubblico per effetto
della ristrutturazione sarebbe sostenuto per oltre due terzi dagli italiani.
Bini
Smaghi dimentica però che oggi il 100% degli oneri per interessi e rimborso del
capitale è a carico degli italiani. Quindi una ristrutturazione sposta il 30%
degli oneri dagli italiani agli stranieri. Vi è poi la questione se le perdite
sui titoli di stato pesino di più sui ricchi o sui poveri. Non è ovvio come
Bini Smaghi arrivi alla sorprendente conclusione che i titoli di stato siano
posseduti in gran parte dai cittadini meno abbienti visto che tutte le ricerche
della Banca d’Italia mostrano che la ricchezza finanziaria è concentrata nel
10% più ricco della popolazione. Forse Bini Smaghi voleva dire che in caso di
ristrutturazione i ricchi più attenti e più informati venderebbero i loro
titoli in anticipo evitando di subire le perdite lasciando quindi le perdite
solo ai meno informati e meno abbienti.
L’economista
ipotizza quindi che i poveri, diventati magicamente ricchi, possano acquistare
tutti i titoli messi in vendita dai ricchi così da essere poi comodamente
tosati al momento della ristrutturazione. L’ipotesi si commenta da sola.
La
seconda argomentazione è quella dell’impatto
sulla stabilità finanziaria. Poiché le banche possiedono 400 miliardi di
titoli, qualsiasi perdita indotta dalla ristrutturazione del debito dovrebbe
essere rimborsata immettendo nuovo capitale. Capitale questo che dovrebbe
essere fornito dalla Troika e richiederebbe quindi una messa sotto tutela
dell’Italia sul modello greco.
In questa
argomentazione in apparenza logica ci sono due assunzioni che potrebbero non
essere così forti come sembrano. La prima.
E’ vero che le banche andrebbero ricapitalizzate ma, come nel caso greco,
sarebbero anche nazionalizzate e quindi potrebbero essere successivamente
vendute rientrando degli esborsi. In
altre parole la ristrutturazione del debito si traduce in un esproprio degli
azionisti privati delle banche ma non necessariamente in una perdita per lo
Stato. La seconda assunzione che il
denaro per ricapitalizzare le banche debba venire dall’Europa è anch’essa
discutibile. Lo Stato Italiano potrebbe emettere dei Nuovi Titoli di Stato post
ristrutturazione e conferirli alle banche in sede di ricapitalizzazione. Queste
sarebbero obbligate ad accettarli (anche se le loro controparti internazionali
potrebbero ritenere questi strumenti non sufficientemente sicuri per garantire
l’integrità del loro patrimonio con ripercussioni sull’accesso delle nostre
banche ai mercati finanziari).
Il che ci
porta alla terza linea di argomentazione
di Bini Smaghi che la ristrutturazione del debito pubblico italiano porterebbe
ad una immediata chiusura dei mercati internazionali per le aziende e le
istituzioni finanziarie italiane.
E’
possibile che questo avvenga ma per quanto? Il servizio del debito pubblico
italiano dopo la ristrutturazione sarebbe certamente più facile e quindi il
debito stesso sarebbe più solido. E’ bene considerare che la ristrutturazione
del debito è un evento “fisiologico” nel capitalismo a livello di singola
impresa quando l’eccesso di debito metta in discussione la sostenibilità nel
tempo dell’azienda non rendendo possibile il normale ciclo di investimenti per
carenza di liquidità. Ma anche a livello di interi paesi la ristrutturazione
del debito pubblico non è un evento “anomalo” visto che, secondo una ricerca
del Fondo Monetario Internazionale, negli ultimi 30 anni nel mondo vi sono
state ben 229 ristrutturazioni del debito pubblico in vari paesi. Alcuni di
questi hanno addirittura operato numerose ristrutturazioni del debito. Senza
scomodare l’Argentina non risulta che le imprese Turche non abbiano accesso ai
mercati dei capitali, eppure la Turchia ha ristrutturato il debito due volte in
questi 30 anni.
Bini
Smaghi tocca poi il punto fondamentale del sostegno della BCE durante la
transizione. E’ chiaro ai suoi occhi – e noi lo condividiamo – che il sostegno
di liquidità della BCE alle banche italiane è condizione necessaria per
mantenere integro il sistema di pagamenti e gestire in modo ordinato le conseguenze
della ristrutturazione del debito. L’economista pensa però che la BCE lo
condizionerebbe a severe misure macro economiche di risanamento tali da
determinare un commissariamento de facto dell’Italia.
Sarà, ma
abbiamo alcuni dubbi. L’Italia una volta liberata del peso del debito pubblico,
sarebbe uno dei paesi più virtuosi in Europa. Il paese con avanzo primario più
alto, il paese con il sistema pensionistico in maggiore equilibrio e, liberato
dal peso degli interessi sul debito, il paese con 30 o 40 miliardi di euro da
investire per ridurre le tasse e recuperare competitività per le imprese.
Non si
vuole qui sostenere che la ristrutturazione di un debito pubblico grande come
quello italiano sia auspicabile né che sarebbe senza conseguenze, tutt’altro.
Nell’ipotesi di sostituire tutti i titoli pubblici di durata superiore ai 12
mesi, con nuovi titoli di scadenza allungata di dieci, venti o trenta anni e
cedola indicizzata alla variazione del prodotto interno, le perdite per i
possessori dei titoli sarebbero ingenti. Le banche e assicurazioni italiane
fallirebbero e sarebbero nazionalizzate. Alcune banche e assicurazioni
internazionali potrebbero fallire. Molti patrimoni finanziari ne sarebbero
devastati mentre i patrimoni investiti in immobili ne sarebbero in larga parte
immuni, mentre questi ultimi oggi sempre di più sono chiamati a sostenere gli
oneri del debito pubblico attraverso le varie IMU, Tasi, ecc.
La
questione della ristrutturazione del debito pubblico si rivela quindi per
quello che è. Una questione di rapporti tra creditori e debitori. Nazionali e
internazionali. Una questione di trasferimento di ricchezza, che oggi scorre
dai contribuenti ai creditori e che, nel caso della ristrutturazione del debito
scorrerebbe in senso inverso. Non indolore per alcuni. Migliorativa per altri.
Bini
Smaghi chiude dicendo che se è vero che la Grecia non aveva alternative alla
ristrutturazione del debito pubblico –poiché superiore al 150% del PIL –
l’Italia che è “solo” al 135% ha ancora alternative e può evitare la
ristrutturazione e quindi dovrebbe farlo. Ciò che Bini Smaghi non vede o non
può dire, è che un paese in stagnazione ventennale alle prese con una
deflazione non è in grado di sostenere a lungo un peso del debito pubblico che
cresce in termini reali. Senza un’inflazione sostenuta al 3-5% non sarà facile
sostenere un debito pubblico “monstre” come quello italiano. E quindi ben venga
la discussione sui pro e contro di una ristrutturazione del debito.>

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