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domenica 18 dicembre 2016

Sabino Cassese, “Territori e potere. Un nuovo ruolo per gli Stati?”


Sabino Cassese è un signore di ottantuno anni, che nella sua vita ha assunto posizioni di grande responsabilità e prestigio, con una lunga carriera accademica prima e di giudice costituzionale dopo è stato anche ministro della funzione pubblica con Ciampi. Non è certo la prima volta che questo giurista, esperto di diritto amministrativo, interviene nel difficile tema dello Stato e della governance internazionale (che, comunque, non è il suo tema). Nel 2002 ha scritto, ad esempio “La crisi dello Stato”, cui faremo qualche riferimento, e nel 2006 “Oltre lo Stato” nel quale partiva dalla premessa dell’irreversibile “espansione globale dell’economia” per precludere in radice qualsiasi altra risposta che non sia l’adattamento; nel 2009 pubblica quindi “Il diritto globale” e nel 2013 “Chi governa il mondo?”.
Tutti questi testi sono catturati entro lo stesso frame interpretativo: l’interconnessione economica è un irresistibile ed irreversibile processo naturale e globalmente vantaggioso, gli Stati Nazionali sono residui storici che devono necessariamente adattarsi a questo nuovo ambiente che li trascende.
Messa in questo modo la missione di un intellettuale progressivo e consapevole è per lui chiara: guardare la realtà per come è, sulla linea di una consapevole secolarizzazione e modernizzazione (ovvero del dispiegarsi dell’universalismo che è destino della specie), e trovare soluzioni tecniche adeguate. Anche a costo di qualche danno collaterale.


Nel campo di questa auto assunta battaglia di civiltà questo piccolo libro è un’arma. Come tale non va molto per il sottile. È un documento leggero, non critico (anche se dotato di ampio corredo di note), di semplice lettura, agile e tagliente, sottomesso ad uno schema lineare, un libro pieno di presunti “fatti” e di semplici conseguenze.

Peccato che sia del tutto falso.

Ma partiamo dai “fatti”: il libro è pieno di elencazioni, alcune vere ma non inquadrate e misurate, alcune false, alcune irrilevanti. Queste affermazioni di esistenza non concludenti, però, fondano la linea pseudo argomentativa che l’autore sostiene. Ad esempio, a pag. 72 si sostiene la tesi forte che la fondazione dell’idea stessa di “Nazione” sull’integrità territoriale sia alla fine. Infatti le frontiere stesse stanno venendo meno, e con esse la loro capacità di, cito, “organizzare lo spazio, configurare il mondo, operare come dispositivo di inclusione ed esclusione”. In questo libro del 2016 (non del 2005) si legge un’affermazione netta e generale come “ma territorio e confini si indeboliscono”, specificamente malgrado la loro formale indicazione nella Carta delle Nazioni Unite come inviolabili elementi della integrità territoriale dello Stato. Dunque nella linea argomentativa proposta, riassumo, c’è una Carta che vale in tutto il mondo, che riconosce un’integrità fondata sul territorio che è però contraddetta da un fatto. Da un semplice fatto: “ma territorio e confini si indeboliscono”.
Uno legge e resta sorpreso, e segue quindi le buone pratiche accademiche alle quali è stato abituato, non trovando adeguate spiegazioni ed argomentazioni va alla nota al testo. Ci si aspetta da un così prestigioso accademico, infatti, un corposo riferimento critico… e trova una sola citazione, di un libro del 2015, che parla della territorialità dell’Unione Europea. Dell’Unione Europea. Dove, certamente, i confini si indeboliscono, almeno dal Trattato di Schengen in poi, ma dove, peraltro, questo sta per essere rimesso in questione. Lasciamo questa questione dei Trend (poi la riprendiamo): non stavamo parlando del Mondo? La frase, di cui è annotazione la nota, non era sul mondo?

Dunque il primo fatto non è tale, almeno non nei termini proposti, non dimostra nulla. Ma c’è un altro senso in cui il venire meno delle frontiere si materializza, per Cassese: “le comunicazioni superano i territori e non possono essere tenute completamente sotto controllo degli Stati (internet), alcuni beni e servizi circolano liberamente grazie al mutuo riconoscimento. Il potere di regolazione si distacca da un singolo territorio”. Tutte cose vere, ma tutte cose sempre avvenute, a gradi diversi nelle precedenti fasi di mondializzazione (ad esempio in quella coloniale, che poi rifarà capolino sott’occhio nominata chiaramente e non guardata insieme) anche di più, per esempio il telegrafo è una rivoluzione anche superiore rispetto alla situazione ex ante. È questo comunque un fatto? Si. Ma in effetti cosa significa, quanto è nuovo, quale è la sua incidenza? Non c’è alcuno sforzo di pensarlo. Nessuno di argomentarlo.
Pensare è faticoso, si sa. Meglio allora declamare; abbiamo di seguito quindi il richiamo a presunti confini fattisi “porosi” e “mobili”, sulla base di due soli esempi limitati e sull’altro fatto che il turismo è cresciuto (miliardi di viaggiatori), circostanza vera ma del tutto non attinente all’oggetto. Poi, magari, il turismo è cresciuto in tutto il secolo scorso a causa dell’aumento di ricchezza, e non dell’indebolimento dei confini, o no?
E sul fatto che il commercio internazionale dal 1950 al 2000 “è cresciuto di 22 volte”. Circostanza impressionante vero? Ma se guardiamo, ad esempio, a qualcosa di più specifico come le esportazioni in percentuale al PIL (non è, infatti, cresciuto anche lui?) vediamo qualcosa di meno trionfale: nel 1979 erano al 20% del PIL e nel 2008 al 30% (poi sono scese). Dunque troviamo un incremento del 50%, non di 22 volte. Ma si sa la mondializzazione è un irresistibile destino, inutile guardare i fatti. In Italia, poi, nel 1979 era al 24% e al 2008 al 28% per poi ricadere allo stesso livello (e da allora abbiamo perso qualcosa come il 25% della produzione industriale). Qui neppure una nota, ma l’economia (neppure quella internazionale) non è la sua materia. Lo perdoniamo.
L’esempio seguente parla di confini “scomparsi”. E qui l’unica citazione è nel caso, assolutamente tipico e caratteristico delle dinamiche mondiali dunque pertinente in un argomento di geografia comparata, dell’ISIS.
E quindi di confini “spostati”, per i quali è citata l’Ucraina, e gli USA con le sue zone cuscinetto per l’immigrazione (che non sono confini, ma solo regolazioni amministrative). Oppure quelli avanzati in mare, in quanto in alcuni casi, sempre per ridurre l’immigrazione (ma qui si glissa sul tema) la guardia costiera controlla anche acque internazionali. Che poi lo abbia sempre fatto, in particolare in USA che vedono l’oceano antistante come proprio, non è rilevante.
E poi abbiamo ovviamente l’Unione Europea. Non poteva mancare questo caso tipicissimo. Qui Cassese riprende la nota e descrive Schengen.

Secondo campo di “fatti”, la popolazione residente. Scopriamo che “nel 1960 le persone che vivevano in un Paese diverso da quello di nascita erano 77 milioni; nel 1990 erano 150; nel 2013 232 milioni; nel 2015 244 milioni (più del 3% della popolazione mondiale, di cui 136 nei paesi sviluppati” (p.78). Chiaro no? Ma da allora, 1960, la popolazione mondiale è forse, magari, cresciuta? Dato che il professore è così gentile da darci la percentuale di arrivo, potrebbe darci quella di partenza? Magari così il numero acquista un senso.
Bene: nel 1960 vivevano sul pianeta 2,7 miliardi di persone, io, ad esempio, no; nel 1990, 5,2 miliardi, i miei figli ancora no; nel 2013 arrivano ad oltre 7 miliardi. La percentuale è rispettivamente quindi: 2,7%, 2,9% e 3,3%. Una crescita c’è, ed andrebbe disaggregata (che, ad esempio, le guerre possono influenzarla) ma non è certo quella che i numeri incompleti, e dunque falsi, del professore mostrerebbero. Tra l’altro farei notare che Cassese si rende conto che la cosa ha senso solo in termini relativi, dato che ha dato l’ultima percentuale, ma nasconde le prime perché no gli convengono; gli rovinano l’effetto. Come dicevo questo testo è un’arma.

Poi abbiamo il tema, più nel suo campo, della “sovranità”. Per il professore ormai questa è “condivisa”; che significa condividere quel che si definisce “un potere finale, di ultima istanza, quello da cui derivano gli altri poteri” (p.84)? Dissolverla, a tutta evidenza.
Cassese si impegna, intanto, a delegittimarla subito, qualificandola come una “ipocrisia”, attraverso un libro di Krasner del 1999, poi cerca a creare confusione in concetto, identificando gli accordi internazionali (che sono sempre stati fatti, dai tempi di Westfalia) come elementi che strutturalmente la negano, in quanto a questi gli Stati “si sono sottoposti” e quindi “li condizionano”. Vediamo meglio il punto: “la sovranità statale è condivisa (e quindi non è più, in senso proprio, sovrana) in quanto i poteri statali vengono ridefiniti, divisi, allocati, con un’assunzione comune di responsabilità” (p.87).

Questo argomento sembra forte, ma pensiamoci un attimo: una sovranità statuale viene chiamata a fine, sulla base di un’argomentazione assiale per la quale ciò che viene a fine è per ciò stesso delegittimato solo perché non si conforma all’ideale di potenza del tutto autonoma ed autoreferente. Perché, cioè, si fonda anche sul riconoscimento reciproco e quindi sul reciproco assumersi responsabilità. Cosa è mai stato il Trattato di Westfalia? Cosa tutti i successivi? Non erano insieme istituzione e limitazione della sovranità. Non è tale il trattato istitutivo delle Nazioni Unite, o quello di Bretton Woods? Abbiamo, dunque, la fine dello Stato da secoli?
C’è una strana logica, una sorta di retrogusto amaro in questo argomento. Nel 1914 Emile Durkheim scrive un pampleth, “La Germania al di sopra di tutto” in cui ricostruisce la posizione di Treitschke, amico di Bismark ed ammiratore di Guglielmo II, propagandista ed intellettuale di punta della politica imperialista prussiana. Il punto centrale è la natura dello Stato, che per il teorico prussiano è l’unico ed il vero sovrano, libero nella sua capacità di determinare al di là di ogni possibile vincolo morale, di ogni pattuizione, di ogni consenso. Lo Stato è indipendente ed assoluto. Non può ammettere nessuna forza al di sopra di sé. Neppure quelle che da sé si dà con i Trattati.
Essi, infatti, sono comunque sotto il suo arbitrio, possono essere denunciati in qualsiasi momento. Se non fosse così, l’entità che si trovasse limitata nel suo potere sovrano (incluso quello di dare la guerra) perderebbe il carattere di Stato. In sostanza “lo Stato è potenza” (Der Staat ist Macht) ed appartiene esclusivamente a se stesso. È quindi tale solo quando e nella misura in cui è forte.
La conseguenza logica sembra riverberarsi anche su queste pagine (dato che la premessa implicita è analoga), cito Durkheim: “del piccolo Stato che egli chiama, con una parola intraducibile, la Kleinstaaterei, parla generalmente con disprezzo. ‘Nell’immagine del piccolo stato, egli dice, c’è qualcosa che muove al riso. In sé, la debolezza non ha niente di ridicolo, ma non è più lo stesso quando ostenta atteggiamenti di forza’. Poiché l’idea di Stato evoca quella della potenza, uno Stato debole è una contraddizione incarnata” (D. p.25). Dunque i piccoli stati devono sparire per essere “ingoiati” dagli stati più grandi. È chiaro che, dunque, per Treitschke lo Stato ha l’unico dovere di farsi largo nel mondo. Superando ogni sentimentalismo, ogni umanità, ogni remora.

Ci saranno poi, nella trattazione di Cassese, alcuni altri “fatti”, che riguardano strettamente l’Unione Europea (pp. 112-121) ma li rimandiamo.

Dunque lo Stato è spinto da questo “nuovo ambiente” (p. 40) ad adattarsi alla globalizzazione. Ma cosa è la “globalizzazione” per Sabino Cassese (36-7), in sintesi: “è, al tempo stesso, denazionalizzazione delle istituzioni statali e un processo cumulativo di espansione del commercio, delle comunicazioni, dei media, dei flussi migratori, del crimine, del terrorismo e persino della moda”.
Ad un livello globale questo comporta quindi: “lo sviluppo tramite connessione reciproche”, “un'organizzazione fluida”, “tecniche di decisione congiunta”, “assenza di separazione tra livello globale e nazionale”, minore sviluppo del corpo esecutivo a causa del fatto che “la global polity poggia, in larga misura, sull'attuazione nazionale attraverso la c.d. indirect rule” e su “un'amministrazione ed un diritto amministrativo con basi costituzionali deboli”, quindi la crescita di una rule of law globale e, “infine, il controllo dell'economia sullo Stato, che sostituisce il controllo dello Stato sull'economia”.

Si tratta di un meraviglioso elenco di disfunzioni e problemi che trasuda ideologia come un agnello sulla graticola trasuderebbe grasso.

Ma cominciamo dalla coda: 
1- che cosa sarebbe questa “economia”, che controlla una cosa concreta e storicamente data (anche se “a strati”) come gli Stati (nazionali)? Che cosa è, infine, “l’'economia”? Da Cassese è pensata come una sorta di macroattore sovrano, un poco ‘come se’ fosse l'alias del popolo. Una sorta di sua essenza, di distillato di ciò che questo ha di più radicalmente proprio. Solo così si può giustificare l'implicita pretesa di validità normativa di giustezza di questa frase, il chiederci di riconoscerla come fondazione di una giustizia. Altrimenti si potrebbe, con una metafisica ancora più profonda, fondarla su una pretesa di validità normativa di esistenza, ovvero di realtà. L'essere, cioè, questa frase “reale” la renderebbe automaticamente fonte di giustezza, in quanto espressione di una fondamentale razionalità del mondo per come è. 
Cosa possiamo dire:
a)     questa frase è falsa. Non esiste una cosa come “l'economia”. Esistono invece molteplici strati di relazioni e funzionamenti, intrisi di potere, soggezione e sfruttamento, capaci di creare alla loro confluenza effetti di creazione di ciò che noi chiamiamo “economico”. Ovvero di sistemi mediati dal codice “denaro” (che è il più astratto ed il meno capito dei nostri codici di comunicazione non linguistica) ovvero sistemi in cui relazioni tra uomini sono tradotte in relazioni di debito-credito rese anonime. 
b)     Sostenere che questo montaggio di processi e funzionamenti “controlla” lo Stato (che è un insieme di procedure e organizzazioni stratificato e fondamentalmente tenuto insieme dal potere attraverso la comunicazione linguistica, a vario grado formalizzata, cfr “Fatti e Norme”), equivale a dire che la relazione di sottomissione di uomini attraverso medium non linguistici controlla quella di relazione tramite medium linguistici.

Cioè Kratos controlla logos.


2- La seconda cosa da rimarcare è che per Cassese: “la global polity poggia, in larga misura, sull'attuazione nazionale attraverso la c.d. indirect rule”. Lo dice anche a pag. 40, gli Stati affrontano la frammentazione “usando uno strumento della tradizione coloniale britannica, la indirect rule”. In particola “l’Unione Europea governa indirettamente e lo stesso avviene nel caso dell’OMC” con questo mezzo. Diciamo che ce ne eravamo accorti (ad esempio, Mair, o Kjaer, e del resto lo aveva profetizzato anche Hayek) ma vediamo cosa è l'indirect rule: “Indirect rule è un sistema di governo usato dai britannici e dai francesi per controllare o loro imperi coloniali. In particolare in Africa ed in Asia, attraverso le strutture di potere locali preesistenti”. Dunque ha alcune caratteristiche che Cassese, tutto preso nella sua missione civilizzatrice e di progresso non reputa degne di un’osservazione o precisazione: è un sistema di governo imperiale e coloniale. Che perverte le forme di autogoverno locali, utilizzandole ai fini del proprio controllo esterno.
Wikipedia continua: “queste dipendenze sono state spesso chiamate ‘protettorati’ … che hanno operato con un piccolo numero di ‘consulenti’ in grado di governare effettivamente un grande numero di persone su aree estese”. Vogliamo un esempio aggiornato? Eccolo.
Riassumiamo:
- Per Cassese la globalizzazione è un fenomeno reale di interconnessione irresistibile;
- è caratterizzato dalla prevalenza dell' “indirect rule”, come stile di governo imperiale;
- e dal governo del kratos sul logos (dell’economico sul politico).

Resterebbe da capire chi è il colonialista.
Chi sono le colonie lo sappiamo, siamo noi.

Allora, secondo quel che Sabino Cassese dice l’Unione Europea governa attraverso le élite locali, esercitando una forma di governo indiretto mutuato dall’esperienza coloniale. Quale potrebbe essere la legittimazione per questo governo nascosto? Dopo un paio di ridicole paginette in cui riepiloga in due righi ognuno posizioni complesse sul “deficit democratico” (che nell’ultima pagina negherà, come sempre senza argomenti) richiamando Hoffmann, Cohen, Weiler, Habermas (solo con una citazione del 2011), Hartman, Meny (p.108), individua nell’Unione Europea una istituzione “a formazione progressiva”, ormai troppo grande per essere revocata, e diretta a qualche forma ibrida tra la confederazione e la federazione. Un organismo che ha un “primo e principale obiettivo” nell’evitare le guerre nell’area europea; che è più stretta degli Stati Uniti d’America, di questi più unita; nella quale sono attivi efficaci “euro partiti”; in cui è presente “un fortissimo welfare”; e una economia che “almeno nella fase iniziale ha mostrato una crescente omogeneità”. Un potere pubblico di grande successo, capace di dare pace e di offrirsi come “gigante regolatore” anche se “nano finanziario”, con un “potere redistributivo limitato”, ma grande potere di “determinare standard”, dotata di “una possente Unione Bancaria”.

Una lista di falsità ideologiche di assordante assurdità.


Lo stesso autore che riesce senza tremare a dire per due volte che la forma di governo che prevale nel mondo oggi, e nell’Unione Europea in particolare è la stessa che l’Impero inglese vittoriano impose alla recalcitrante India, suscitando alla fine la rivolta di Gandhi e Nerhu, elenca, come avrebbe fatto un Vicerè Inglese, o meglio un suo cortigiano indiano, la notizia che il dominio serve alla pace, che la felice terra è più unita degli USA, e che si unisce sempre di più, che lo schema hayekiano dell’inibizione strutturale della redistribuzione (che non possono più fare gli Stati Nazionali, impediti dal “controllo indiretto”, e non può fare la UE, per mancanza di volontà e risorse) è una caratteristica sulla quale nulla vale dire. Tanto abbiamo “un fortissimo welfare”.


Tutto questo scritto nel 2016.

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