Pagine

lunedì 29 maggio 2017

Brishen Rogers, Il reddito di base e la questione del potere del lavoro


In un forum del Boston Review sul “reddito di base per una società giusta” leggiamo l’intervento di Brishen Rogers e (in un altro post) quello di Annette Bernhardt. Nel pezzo di Bernhardt viene chiarito, nel contesto statunitense, come il “reddito di base” si presti a letture molto diverse, di segno anzi radicalmente opposto.
Rogers, che è professore associato di diritto alla Temple University, evidenzia come molto spesso il “reddito di base” sia proposto da punti di vista libertariani, anche agitando prematuramente e strumentalmente allarmi sulla fine del lavoro, mentre andrebbe inserito in un contesto di presa di potere dal basso del mondo del lavoro, sfidato e destabilizzato da nuove tecnologie il cui principale effetto non è di eliminare il lavoro, ma di deprezzarlo e renderlo servile (si veda anche questo intervento di Patrick Diamond).

Michelangelo Buonarroti

Gli esempi che porta sono quelli noti: Amazon ed il suo esercito di 45.000 robot, che a dire della società consentono di avere bisogno in media di un solo minuto di lavoro umano per collo consegnato. Agli uomini resta solo di sovrintendere alla selezione e del confezionamento finale, tutti gli spostamenti sono robotizzati.
In una insistente letteratura, che abbiamo più volte riportato (ad esempio il libro di Brynjolfsson e Mac Afee “La nuova rivoluzione delle macchine”), viene raccontato che questi esempi saranno generalizzati ed estesi, fino a che il lavoro umano diventerà un ricordo. Persino Obama, nel discorso di addio, ha evocato lo spettro dell’eliminazione del lavoro e della classe media (ma gli esempi sono molteplici).

Questa è, per molti, la sfida che giustifica l’idea del reddito di base, lo Stato dovrebbe fornire regolari sovvenzioni, sufficienti ai bisogni primari, come diritto di residenza. Un reddito, quindi, incondizionato (piuttosto diverso da quello proposto dal M5S o dal Sel in Italia) che sarebbe, secondo i proponenti, funzionale a “recidere il legame tra lavoro e benessere, garantendo la sicurezza del reddito a tutti coloro che sono ammissibili e forse anche ad attenuare la crescente disuguaglianza”.
I vantaggi potenziali sono che il tempo liberato dal ricatto implicito di dover lavorare per vivere potrebbe quindi essere impiegato per il servizio volontario alla comunità, o per fornire “lavoro di cura” (o anche quello che Gorz chiama “lavoro per sé”). Ma anche, essendo incondizionato, per avviare attività economiche rischiose, o impegnarsi nell’istruzione di qualunque cosa si voglia.

Si tratta, dunque, di un’idea affascinante e l’autore non ne disprezza le potenzialità, ma propone al contempo di comprenderne le virtù come i rischi, e di focalizzare meglio le giustificazioni. La minaccia imminente di una diffusa ed irresistibile disoccupazione tecnologica non è, a suo parere, tra queste. L’argomento è molto tradizionale: la scomparsa del lavoro è stata predetta ogni volta che la tecnologia ha sembrato accelerare nei suoi effetti sulla società (basti ricordare le rivolte di Ludd, ma anche molte delle crisi successive). Questa è, ad esempio, la tesi spesso portata avanti da David Autor, non ci sono le prove che la produttività effettivamente acceleri (in questo paper, ad esempio, ne ricostruisce la storia ed evidenzia come sia difficile evidenziare la sostituzione e l’apertura di nuovi ruoli che segue ad una sostituzione di lavoro in un settore meccanizzato. Propone quindi l’ipotesi, già avanzata nel 2013, che la polarizzazione si arresterà e che comunque in caso di avanzamento delle sostituzioni si aprirebbero al limite problemi di abbondanza, di gran lunga preferibili).



Secondo Rogers comunque il problema resta: “la tecnologia ha trasformato il lavoro in modi che hanno a che fare con l’economia politica e non con le risorse della distribuzione”, uno dei motivi ad esempio per cui i lavoratori di Amazon spendono così poco lavoro per ogni pacchetto è che lo fanno altri, cui esternalizza molte consegne. Un altro è che lavorano furiosamente (e sono pagati pochissimo).


Michelangelo Buonarroti

Si tratta di tecniche antiche, ma le tecnologie dell’informazione le rendono più facili e redditizie, ad esempio racconta l’autore che con l’analisi in diretta dei codici a barre scansionati, appositi algoritmi di calcolo monitorizzano costantemente tutta la filiera in modo semplice ed automatico. Anche qui poco lavoro umano. L’effetto complessivo più importante della tecnologia è quindi di tenere pressato verso il basso il costo del lavoro attraverso il potenziamento del rapporto di soggezione e potere dell’impresa verso il lavoro.

Guardare la cosa da questo lato spiega perché molti dei sostenitori del “reddito di base” sono in effetti dei libertari che, in sostanza, sono in cerca di un modo che non metta in discussione il sistema, ed i profitti estratti da rapporti di lavoro enormemente sbilanciati, ma scarichi sulla parte pubblica i costi della conservazione del consenso. Non sono in realtà preoccupati per i beni pubblici messi a rischio, come i diritti di capitale e lavoro ed il loro bilanciamento, la capacità di organizzazione dei lavoratori, la definizione di un “buon lavoro” (con tutta l’enorme difficoltà di definizione del tema).

Per soffermarsi sul punto bisogna considerare che, come si può dire, il lavoro è anche una fondamentale fonte di identità sociale (nella struttura di reciproco riconoscimento e come forma della cooperazione che implica necessariamente), ma che d’altra parte esso può essere, e normalmente è, al contempo uno dei più importanti luoghi elettivi della manifestazione del potere e della gerarchia, quindi anche dell’alienazione che la separazione dell’uomo dalle ragioni della sua azione può portare con sé (alienazione qui vale più o meno come estraneazione, sentirsi e divenire estranei a sé). O, ancora, che è nello stesso momento il modo attraverso il quale l’uomo si appropria in qualche modo della natura, facendola utile (con tutta la tensione e il problema che questo termine porta con sé). Questi fatti molteplici ed anche contraddittori, rendono nel loro insieme la circostanza che lavorare è comunque partecipare ad una sorta di missione che è sempre, al suo meglio, missione comune (pur nella necessaria divisione delle funzioni e dei ruoli).
Nel lavorare, anche se non solo, l’uomo manifesta quindi il suo essere sociale; l’essere fatto nella cooperazione, anche nel senso dello sviluppo della struttura della personalità e della stessa capacità di linguaggio.

Tutto questo nodo problematico è in qualche modo aggirato dal “reddito minimo”, inteso in senso libertario, quando pensa di curare semplicemente gli effetti e dissolvere con ciò le cause; ignorando l’esigenza di garantire, come dice Rogers, la democrazia sociale, quindi la limitazione dello strapotere aziendale e la garanzia di uno standard di vita dignitoso (cosa che non è questione solo di accesso ai consumi, dunque di reddito, ma è questione anche di socializzazione non ridotta e di potere, insieme a rispetto).

Per affrontare queste questioni occorre quindi molto di più di un reddito, bisogna avere un settore pubblico rinnovato e sistemi diversi di contrattazione collettiva; secondo come la vede Rogers: “in effetti, senza tali riforme, un reddito di base potrebbe fare più male che bene”.

Per affrontare quindi, come dice, “a testa alta” questi problemi nella loro complessità, la sinistra ha bisogno di una nuova visione di cosa sia un “buon” lavoro e di quale sia il suo posto in una società che è cambiata drasticamente. Una riflessione che l’autore propone di compiere intorno ai concetti e le pratiche della tecnologia, del lavoro, del benessere.

È chiaro che ogni lavoro è cambiato moltissimo da quaranta anni fa ad oggi. Una volta anche i camionisti (a lungo raggio, quelli sindacalizzati) avevano una potente associazione di riferimento e godevano quindi di salari da classe media, ma anche di margini di autonomia che sfruttavano per raggiungere tale potere. Oggi possono essere monitorati ogni istante, i dispositivi sui camion controllano ogni parametro costantemente, e spingono al limite ogni prestazione.
Anche se, come detto, gli annunci sulla morte del lavoro sono prematuri è vero che “lo sviluppo tecnologico sta comunque alterando quindi l'economia politica del mercato del lavoro in modo profondo”. 

Molte piattaforme, come Uber, mettono in piedi quella che è in sostanza “un'organizzazione economica di portata globale basata in gran parte su un contratto in cui l'impresa si esime da ogni rapporto di lavoro verso i suoi lavoratori e quindi da eventuali obblighi verso di loro”. Ormai sono algoritmi impersonali che decidono se spostare lavoratori, mandarli a casa, o ridefinire i parametri in funzione dell’andamento, attimo per attimo, del business. La stessa cosa avviene verso i fornitori, dove catene come Wall Mart, McDonald e la stessa Amazon esercitano un enorme squilibrio di potere verso i propri affiliati, o “partner”.

Certo, ci sono guadagni di efficienza, ma come dice, “la linea tra innovazione e sfruttamento è molto poco chiara”. Né ci si può aspettare che la definisca l’azienda che tende a catturarli tutti per sé (da cui, ormai dovrebbe essere chiaro non gocciolano al resto della società).

In sostanza “i lavoratori hanno sempre meno mezzi per esercitare il potere per conto proprio”.

Questo è il contesto nel quale si cala il “reddito minimo”, anche in forma universale. E che cosa può fare? Certamente proteggerebbe in qualche modo dalle conseguenze peggiori della disoccupazione e magari metterebbe in condizione di non accettare salari troppo bassi (inferiori o molto vicini al sussidio). Ma “potrebbe fare ben poco per ridurre il potere delle multinazionali, che è una funzione non solo della ricchezza, ma della capacità delle imprese di strutturare rapporti di lavoro”, per questo ci vogliono istituzioni compensative pubbliche.

Una questione che si può porre anche così: “le prestazioni in denaro e gli stipendi ragionevoli, non sono moralmente equivalenti”, infatti il mercato del lavoro è una “istituzione sociale” governata in parte da norme di reciprocità e di rispetto reciproco (Robert Solow). È anche quindi questione di rispetto, e attraverso la cifra che si riceve passa anche la comunicazione sul grado di rispetto che si riceve. Nessun trasferimento pubblico può surrogare a questa essenziale funzione della distribuzione di ricchezza entro il processo di valorizzazione.
Il punto è che se non si modifica la regolamentazione generale del mondo del lavoro e si riequilibrano i rapporti sociali connessi, l’impatto del reddito di base “potrebbe essere disastroso”, chi restasse escluso, ad esempio, sarebbe catturato in un’area di lavoro “umile”. Inoltre non risolverebbe il problema molto grave dell’accesso all’istruzione di qualità, all’assistenza sanitaria, agli alloggi e trasporti, al capitale spaziale (secondo la definizione di Bernardo Secchi). Anzi l’erogazione del reddito potrebbe peggiorare le cose.

Il problema di fondo è che la politica del “reddito garantito” è altamente ambigua, come dice Rogers, è compatibile sia con un programma neoliberale sia con forme socialdemocratiche e persino socialiste. Si va da Milton Friedman a Philippe van Parjis (che comunque vuole con questo sostituire il welfare). In generale non è comunque una cura per “i mali morali dei mercati liberali”, in primis quello di equivocare il lavoro come merce, mentre è parte della vita (critica di Polanyi).

Il migliore argomento per difendere l’idea di una distribuzione del reddito secondaria è per l’autore che la produzione è alla fine sempre il risultato congiunto degli sforzi di molti, e per lo più del lascito di inventiva e passione depositato nelle nostre culture e tradizioni. Dunque è, almeno in parte, derivante dallo sfruttamento di beni comuni non completamente disponibili. Lo sfruttamento e l’appropriazione privata genera quindi il diritto ad una sorta di dividendo sociale di natura risarcitoria. Inoltre come dicono Elizabeth Anderson e Philip Pettit “una società giusta deve garantire che nessun gruppo di cittadini sia subordinato a un altro. La povertà estrema provoca subordinazione in quanto ci costringe a chiedere l'elemosina o a lavorare in posti di lavoro terribili”. Il reddito di base non è quindi un sostituto del welfare, ma si assicura comunque che nessuno sia danneggiato “cadendo attraverso le fessure”.

L’eradicamento della subordinazione non giustificata richiede anche molto di più: deve garantire procedure di decisione legittime ed inclusive e, al contempo, rende necessario investire insieme sui servizi umani, assistenza all’infanzia, agli anziani, sanitaria, servizi di salute mentale, cioè su tutti quei fattori di base che aumentano potere ed indipendenza, fornendo le precondizioni per accumulare capitale relazionale, sociale e culturale. Il loro potenziamento creerebbe anche molto buon lavoro, sotto forma del necessario “lavoro di cura”, che è intrinsecamente valido e in parte estratto dal mondo reificante del lavoro subordinato e salariato, in quanto ha contemporaneamente il carattere del dono (si veda su questo Gorz).

Ciò significa che il programma andrebbe accoppiato, e non disgiunto, alla garanzia che “il governo resterà come datore di lavoro di ultima istanza, come William Darity e Darrick Hamilton hanno sostenuto”. Qui ci sono enormi spazi: WPA e opere pubbliche, ma anche il retrofit delle case per l'efficienza energetica, o la costruzione e la riparazione di parchi e scuole locali, o la formazione di lavoratori disoccupati per i lavori nella cura dei bambini, nell'istruzione, nell'assistenza agli anziani, o nell’assistenza sanitaria. Alcuni sottoinsiemi di progetti potrebbero essere identificati attraverso il bilancio partecipativo o di altri processi deliberativi e realizzati in collaborazione con i governi o le organizzazioni locali.

Se la disoccupazione tecnologica, in qualche fase (è sempre questione di velocità relativa) diventa significativa, propone Rogers, allora il reddito di base incondizionato potrebbe essere una soluzione di rapida implementazione (mentre per creare lavoro buono ci vuole tempo), ma va progettato con attenzione quanto ai requisiti di accesso. Come potrebbe essere implementato gradualmente e per categorie particolarmente svantaggiate.

Tuttavia il fulcro della riforma che è necessaria, e Rogers individua, dovrebbe essere l’incoraggiamento della contrattazione collettiva dei lavoratori, quindi l’incremento dei loro fattori di forza.

Dal punto di vista americano, questo sembra significare transitare verso modelli europei (scandinavi per la precisione), che si stanno anche essi spostando in questa direzione (anche se in un solo caso e per ora con una limitata sperimentazione estesa a 2.000 persone sorteggiate) ma è per l’autore l’unica direzione giusta.

E il “reddito minimo” non basta: non ci sono soluzioni semplici a problemi complessi.


Nessun commento:

Posta un commento