In un forum del Boston
Review sul “reddito di base per una
società giusta” leggiamo l’intervento
di Brishen Rogers e (in un altro post) quello di Annette Bernhardt. Nel pezzo
di Bernhardt viene chiarito, nel contesto statunitense, come il “reddito di
base” si presti a letture molto diverse, di segno anzi radicalmente opposto.
Rogers, che è professore associato di diritto alla
Temple University, evidenzia come molto spesso il “reddito di base” sia
proposto da punti di vista libertariani, anche agitando prematuramente e
strumentalmente allarmi sulla fine del lavoro, mentre andrebbe inserito in un
contesto di presa di potere dal basso del mondo del lavoro, sfidato e
destabilizzato da nuove tecnologie il cui principale effetto non è di eliminare
il lavoro, ma di deprezzarlo e renderlo servile (si veda anche questo
intervento di Patrick Diamond).
Michelangelo Buonarroti |
Gli esempi che porta sono quelli noti: Amazon ed il
suo esercito di 45.000 robot, che a dire della società consentono di avere
bisogno in media di un solo minuto di lavoro umano per collo consegnato. Agli uomini
resta solo di sovrintendere alla selezione e del confezionamento finale, tutti
gli spostamenti sono robotizzati.
In una insistente letteratura, che abbiamo più volte
riportato (ad esempio il libro di Brynjolfsson e Mac Afee “La
nuova rivoluzione delle macchine”), viene raccontato che questi esempi
saranno generalizzati ed estesi, fino a che il lavoro umano diventerà un
ricordo. Persino Obama, nel discorso di addio, ha evocato lo spettro dell’eliminazione
del lavoro e della classe media (ma gli esempi sono molteplici).
Questa è, per molti, la sfida che giustifica l’idea
del reddito di base, lo Stato
dovrebbe fornire regolari sovvenzioni, sufficienti ai bisogni primari, come
diritto di residenza. Un reddito, quindi, incondizionato
(piuttosto diverso da quello proposto
dal M5S o dal Sel in Italia) che sarebbe, secondo i proponenti, funzionale a “recidere il legame tra lavoro e benessere,
garantendo la sicurezza del reddito a tutti coloro che sono ammissibili e forse
anche ad attenuare la crescente disuguaglianza”.
I vantaggi potenziali sono che il tempo liberato dal
ricatto implicito di dover lavorare per vivere potrebbe quindi essere impiegato
per il servizio volontario alla comunità, o per fornire “lavoro di cura” (o
anche quello che Gorz chiama “lavoro per sé”). Ma anche, essendo
incondizionato, per avviare attività economiche rischiose, o impegnarsi nell’istruzione
di qualunque cosa si voglia.
Si tratta, dunque, di un’idea affascinante e l’autore
non ne disprezza le potenzialità, ma propone al contempo di comprenderne le
virtù come i rischi, e di focalizzare meglio le giustificazioni. La minaccia
imminente di una diffusa ed irresistibile disoccupazione tecnologica non è, a
suo parere, tra queste. L’argomento è molto tradizionale: la scomparsa del
lavoro è stata predetta ogni volta che la tecnologia ha sembrato accelerare nei
suoi effetti sulla società (basti ricordare le rivolte di Ludd, ma anche molte
delle crisi successive). Questa è, ad esempio, la tesi spesso portata avanti da
David Autor, non ci sono le prove che la produttività effettivamente acceleri
(in questo paper, ad
esempio, ne ricostruisce la storia ed evidenzia come sia difficile evidenziare la
sostituzione e l’apertura di nuovi ruoli che segue ad una sostituzione di
lavoro in un settore meccanizzato. Propone quindi l’ipotesi, già avanzata nel
2013, che la polarizzazione si arresterà e che comunque in caso di avanzamento
delle sostituzioni si aprirebbero al limite problemi di abbondanza, di gran
lunga preferibili).
Secondo Rogers comunque il problema resta: “la
tecnologia ha trasformato il lavoro in modi che hanno a che fare con l’economia
politica e non con le risorse della distribuzione”, uno dei motivi ad esempio per
cui i lavoratori di Amazon spendono così poco lavoro per ogni pacchetto è che
lo fanno altri, cui esternalizza molte consegne. Un altro è che lavorano
furiosamente (e sono pagati pochissimo).
Michelangelo Buonarroti |
Si tratta di tecniche antiche, ma le tecnologie dell’informazione
le rendono più facili e redditizie, ad esempio racconta l’autore che con l’analisi
in diretta dei codici a barre scansionati, appositi algoritmi di calcolo
monitorizzano costantemente tutta la filiera in modo semplice ed automatico.
Anche qui poco lavoro umano. L’effetto complessivo più importante della
tecnologia è quindi di tenere pressato verso il basso il costo del lavoro
attraverso il potenziamento del rapporto di soggezione e potere dell’impresa
verso il lavoro.
Guardare la cosa da questo lato spiega perché molti
dei sostenitori del “reddito di base” sono in effetti dei libertari che, in
sostanza, sono in cerca di un modo che non metta in discussione il sistema, ed
i profitti estratti da rapporti di lavoro enormemente sbilanciati, ma scarichi
sulla parte pubblica i costi della conservazione del consenso. Non sono in
realtà preoccupati per i beni pubblici messi a rischio, come i diritti di
capitale e lavoro ed il loro bilanciamento, la capacità di organizzazione dei
lavoratori, la definizione di un “buon lavoro” (con tutta l’enorme difficoltà
di definizione del tema).
Per soffermarsi sul punto bisogna considerare che,
come si può dire, il lavoro è anche
una fondamentale fonte di identità sociale (nella struttura di reciproco
riconoscimento e come forma della cooperazione che implica necessariamente), ma
che d’altra parte esso può essere, e normalmente è, al contempo uno dei più importanti luoghi elettivi della
manifestazione del potere e della gerarchia, quindi anche dell’alienazione che
la separazione dell’uomo dalle ragioni della sua azione può portare con sé
(alienazione qui vale più o meno come estraneazione,
sentirsi e divenire estranei a sé). O, ancora, che è nello stesso momento il
modo attraverso il quale l’uomo si appropria in qualche modo della natura,
facendola utile (con tutta la tensione
e il problema che questo termine porta con sé). Questi fatti molteplici ed
anche contraddittori, rendono nel loro insieme la circostanza che lavorare è comunque
partecipare ad una sorta di missione che è sempre, al suo meglio, missione comune (pur nella necessaria divisione
delle funzioni e dei ruoli).
Nel lavorare, anche se non solo, l’uomo manifesta quindi
il suo essere sociale; l’essere fatto nella cooperazione, anche nel senso dello
sviluppo della struttura della personalità e della stessa capacità di
linguaggio.
Tutto questo nodo problematico è in qualche modo aggirato
dal “reddito minimo”, inteso in senso libertario, quando pensa di curare semplicemente gli effetti e dissolvere con ciò le cause; ignorando l’esigenza di garantire, come
dice Rogers, la democrazia sociale, quindi la limitazione dello strapotere
aziendale e la garanzia di uno standard di vita dignitoso (cosa che non è
questione solo di accesso ai consumi, dunque di reddito, ma è questione anche di
socializzazione non ridotta e di potere, insieme a rispetto).
Per affrontare queste questioni occorre quindi molto
di più di un reddito, bisogna avere un settore pubblico rinnovato e sistemi
diversi di contrattazione collettiva; secondo come la vede Rogers: “in effetti, senza tali riforme, un reddito
di base potrebbe fare più male che bene”.
Per affrontare quindi, come dice, “a testa alta”
questi problemi nella loro complessità, la sinistra ha bisogno di una nuova
visione di cosa sia un “buon” lavoro e di quale sia il suo posto in una società
che è cambiata drasticamente. Una riflessione che l’autore propone di compiere
intorno ai concetti e le pratiche della tecnologia, del lavoro, del benessere.
È chiaro che ogni lavoro è cambiato moltissimo da
quaranta anni fa ad oggi. Una volta anche i camionisti (a lungo raggio, quelli
sindacalizzati) avevano una potente associazione di riferimento e godevano
quindi di salari da classe media, ma anche di margini di autonomia che
sfruttavano per raggiungere tale potere. Oggi possono essere monitorati ogni
istante, i dispositivi sui camion controllano ogni parametro costantemente, e
spingono al limite ogni prestazione.
Anche se, come detto, gli annunci sulla morte del
lavoro sono prematuri è vero che “lo sviluppo tecnologico sta comunque
alterando quindi l'economia politica del mercato del lavoro in modo profondo”.
Molte piattaforme, come Uber, mettono in piedi quella
che è in sostanza “un'organizzazione economica di portata globale basata in
gran parte su un contratto in cui l'impresa si esime da ogni rapporto di lavoro
verso i suoi lavoratori e quindi da eventuali obblighi verso di loro”. Ormai sono
algoritmi impersonali che decidono se spostare lavoratori, mandarli a casa, o
ridefinire i parametri in funzione dell’andamento, attimo per attimo, del
business. La stessa cosa avviene verso i fornitori, dove catene come Wall Mart,
McDonald e la stessa Amazon esercitano un enorme squilibrio di potere verso i
propri affiliati, o “partner”.
Certo, ci sono guadagni di efficienza, ma come dice, “la
linea tra innovazione e sfruttamento è molto poco chiara”. Né ci si può
aspettare che la definisca l’azienda che tende a catturarli tutti per sé (da
cui, ormai dovrebbe essere chiaro non
gocciolano al resto della società).
In sostanza “i lavoratori hanno sempre meno mezzi per
esercitare il potere per conto proprio”.
Questo è il contesto nel quale si cala il “reddito
minimo”, anche in forma universale. E che cosa può fare? Certamente proteggerebbe
in qualche modo dalle conseguenze peggiori della disoccupazione e magari
metterebbe in condizione di non accettare salari troppo bassi (inferiori o
molto vicini al sussidio). Ma “potrebbe fare ben poco per ridurre il potere
delle multinazionali, che è una funzione non solo della ricchezza, ma della
capacità delle imprese di strutturare rapporti di lavoro”, per questo ci
vogliono istituzioni compensative pubbliche.
Una questione che si può porre anche così: “le prestazioni in denaro e gli stipendi
ragionevoli, non sono moralmente equivalenti”, infatti il mercato del
lavoro è una “istituzione sociale” governata in parte da norme di reciprocità e
di rispetto reciproco (Robert Solow). È anche quindi questione di
rispetto, e attraverso la cifra che si riceve passa anche la comunicazione sul
grado di rispetto che si riceve. Nessun trasferimento pubblico può surrogare a
questa essenziale funzione della distribuzione di ricchezza entro il processo
di valorizzazione.
Il punto è che se non si modifica la regolamentazione
generale del mondo del lavoro e si riequilibrano i rapporti sociali connessi, l’impatto
del reddito di base “potrebbe essere disastroso”, chi restasse escluso, ad
esempio, sarebbe catturato in un’area di lavoro “umile”. Inoltre non
risolverebbe il problema molto grave dell’accesso all’istruzione di qualità,
all’assistenza sanitaria, agli alloggi e trasporti, al capitale spaziale
(secondo la definizione
di Bernardo Secchi). Anzi l’erogazione del reddito potrebbe peggiorare le cose.
Il problema di fondo è che la politica del “reddito
garantito” è altamente ambigua, come dice Rogers, è compatibile sia con un
programma neoliberale sia con forme socialdemocratiche e persino socialiste. Si
va da Milton Friedman a Philippe van Parjis (che comunque vuole con questo
sostituire il welfare). In generale non è comunque una cura per “i mali morali
dei mercati liberali”, in primis quello di equivocare il lavoro come merce,
mentre è parte della vita (critica di Polanyi).
Il migliore argomento per difendere l’idea di una
distribuzione del reddito secondaria è per l’autore che la produzione è alla
fine sempre il risultato congiunto degli sforzi di molti, e per lo più del
lascito di inventiva e passione depositato nelle nostre culture e tradizioni. Dunque
è, almeno in parte, derivante dallo sfruttamento di beni comuni non
completamente disponibili. Lo sfruttamento e l’appropriazione privata genera
quindi il diritto ad una sorta di dividendo sociale di natura risarcitoria. Inoltre
come dicono Elizabeth Anderson e Philip Pettit “una società giusta deve
garantire che nessun gruppo di cittadini sia subordinato a un altro. La
povertà estrema provoca subordinazione in quanto ci costringe a chiedere
l'elemosina o a lavorare in posti di lavoro terribili”. Il reddito di base
non è quindi un sostituto del welfare, ma si assicura comunque che nessuno sia
danneggiato “cadendo attraverso le fessure”.
L’eradicamento
della subordinazione non giustificata richiede anche molto di più: deve garantire procedure di decisione legittime ed inclusive
e, al contempo, rende necessario investire insieme sui servizi umani,
assistenza all’infanzia, agli anziani, sanitaria, servizi di salute mentale,
cioè su tutti quei fattori di base che aumentano potere ed indipendenza,
fornendo le precondizioni per accumulare capitale relazionale, sociale e
culturale. Il loro potenziamento creerebbe anche molto buon lavoro, sotto forma
del necessario “lavoro di cura”, che è intrinsecamente valido e in parte
estratto dal mondo reificante del lavoro subordinato e salariato, in quanto ha
contemporaneamente il carattere del dono
(si veda su questo Gorz).
Ciò significa che il programma andrebbe accoppiato, e non
disgiunto, alla garanzia che “il governo
resterà come datore di lavoro di ultima istanza, come William Darity e Darrick
Hamilton hanno sostenuto”. Qui ci sono enormi spazi: WPA e opere pubbliche,
ma anche il retrofit delle case per l'efficienza energetica, o la costruzione e
la riparazione di parchi e scuole locali, o la formazione di lavoratori
disoccupati per i lavori nella cura dei bambini, nell'istruzione, nell'assistenza
agli anziani, o nell’assistenza sanitaria. Alcuni sottoinsiemi di progetti
potrebbero essere identificati attraverso il bilancio partecipativo o di altri
processi deliberativi e realizzati in collaborazione con i governi o le
organizzazioni locali.
Se la disoccupazione tecnologica, in qualche fase (è
sempre questione di velocità relativa) diventa significativa, propone Rogers,
allora il reddito di base incondizionato potrebbe essere una soluzione di
rapida implementazione (mentre per creare lavoro buono ci vuole tempo), ma va
progettato con attenzione quanto ai requisiti di accesso. Come potrebbe essere
implementato gradualmente e per categorie particolarmente svantaggiate.
Tuttavia il fulcro della riforma che è necessaria, e
Rogers individua, dovrebbe essere l’incoraggiamento della contrattazione
collettiva dei lavoratori, quindi l’incremento dei loro fattori di forza.
Dal punto di vista americano, questo sembra
significare transitare verso modelli europei (scandinavi per la precisione), che
si stanno anche essi spostando in questa direzione (anche se in un solo caso e
per ora con una limitata sperimentazione estesa a 2.000 persone sorteggiate) ma
è per l’autore l’unica direzione giusta.
E il “reddito minimo” non basta: non ci sono soluzioni
semplici a problemi complessi.
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