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venerdì 26 maggio 2017

Le lotte operaie alla Fiat negli anni settanta: il lavoro e la questione del potere


Sulla rivista della Dedalo “Inchiesta”, n.195/2017 (qui sul sito “OndeCorte”), è stata pubblicata un’intervista a Luciano Pregnolato sulle lotte degli operai della Fiat durante gli anni settanta; il titolo è “Lotte operaie alla Fiat negli anni ’70, il ’77 e Claudio Sabattini”.


Di questo racconto cercheremo di prendere l’esperienza, e cercare attraverso di essa di traguardare in particolare l’umanità per come si costituisce nella socialità e nella passione, ma anche nelle difficoltà e nelle tensioni, attraverso il lavoro, in un luogo di addensamento come la fabbrica fordista. Anzi, la più importante fabbrica fordista italiana. Luogo in cui, all’epoca dei fatti, lavoravano 60.000 dipendenti in un’unica sede (Mirafiori) in un enorme stabilimento di oltre 2.000.000 di mq, con 20 km di linee ferroviarie interne, che è il più grande d’Europa.

Oggi non esistono fabbriche che raggruppano, in un solo luogo, tanti lavoratori. Oggi FCA alle “carrozzerie” di Mirafiori (dove si fa la macchina) impiega più o meno 5.000 addetti, tra i quali 1.500 tra “Presse” e “Costruzioni stampi”, mentre 20.000 sono impiegati nell’indotto che negli anni è stato decentrato. Ad esempio fanali e sistemi di scarico sono prodotti dalla Marelli (sempre dello stesso gruppo industriale) che occupa 1.500 lavoratori, la Itca si occupa di stampaggio (uno dei vecchi reparti della fabbrica negli anni settanta) e impiega 400 addetti. Poi ci sono qualcosa come 4.000 impiegati a vario grado del gruppo. Oggi a Mirafiori si produce solo l’Alfa Romeo MiTo (ca. 80.000 esemplari all’anno programmati; negli anni settanta, con 60.000 addetti se ne producevano 800.000).
A Mirafiori poi si insediano oggi in “Officina ‘82” anche attività direzionali e amministrative, informatiche, di accounting e di audit (in un’area dismessa dove venti anni fa era il magazzino ricambi, ora esternalizzato nella nuova organizzazione logistica); vi lavorano 1.500 addetti, ma solo impiegati, quadri e dirigenti. Ma ci sono anche sedi di altri marchi (come “Abarth” e “New Holland”) ed altri servizi.

E’ chiaro che quindi il mondo è cambiato; ma proprio per questo è utile guardare al mondo che era. Quello in cui ad esempio è vissuto mio padre, dirigente (prima impiegato e poi quadro) all’Alfa Romeo in tutti gli anni sessanta-novanta, prima ad Arese e poi a Pomigliano d’Arco.

Luciano Pregnolato, che fa questo racconto, è stato un sindacalista della Fiom a Torino, della cosiddetta “V Lega”, area carrozzerie della Fiat di Mirafiori. È dunque un testimone diretto sul campo. Il campo, deve essere chiaro, è quello della “lotta di classe”.
Esiste all’epoca una tensione politica, attraverso gli eventi e le poste concrete, anzi proprio attraverso la dinamica dei corpi e degli spazi, che trascende il singolo, pur importante, stabilimento ed anche le intenzionalità individuali degli attori: il sentimento collettivo di essere entro una lotta che trascende e incorpora quelle di tutti. La lotta tra strutture che organizzano la vita stessa, oltre che il lavoro. Precisamente lotta tra una struttura organizzata dal principio della proprietà ed una, che si vuole costruire e far prevalere; organizzata dal principio della socialità.

Il “cespuglio” di problemi che la questione del lavoro apre può proprio essere traguardata anche rimemorando queste vecchie lotte perché attraverso le parole del testimone sembra intravedere (anche, certo, attraverso la memoria riflessa personale e familiare), nel produrre insieme, la traccia di un ‘essere uomo’ degno. La vita nel microcosmo della fabbrica, nella successione delle generazioni e nella dialettica delle voci (anche faticosa, come si legge), strappa in qualche modo il velo che mostra un vivere oltre il solo piacere e consumo individuale; un essere per l’altro concreto fatto di reciproco interesse e passione comune. La condivisione di questo essere.

Oggi che la piattaforma produttiva del capitalismo favorisce vite separate, la sola ricerca individuale della felicità e del godimento, scegliendo in qualche modo dallo scaffale posto alla nostra altezza ciò che vogliamo, ma che al contempo potenzia la sua capacità ubiqua di sorvegliare, estrarre e riconfezionare, mercificare tutto, possiamo trarre da questa esperienza il lontano miraggio di un altro vivere? Di responsabilità, com-passione, dovere, essere insieme per gli altri nella produzione di ciò che ha valore, di ciò che è fatto dalle mani, dalla mente, dalla voce, dallo sguardo. Che si incrociano?

Non bisogna mai tirare troppo i testi, come le esperienze, che hanno un senso misurato su di sé, ma mi pare che queste domande potrebbero essere lasciate galleggiare utilmente.

Luciano Pregnolato ci racconta quindi che la vicenda della grande battaglia per “la mezz’ora” condotta con successo nel 1977 si inserisce tra quelli che chiama “due grandi spartiacque”: il biennio 1968-69 e il 1980, quando la Fiat, usando anche la mobilitazione contro il terrorismo, determinò la sconfitta epocale del sindacato di fabbrica. Tra le due date cresce il potere contrattuale delle organizzazioni dei lavoratori, o meglio, dei lavoratori in quanto organizzati.

Il potere è l’autentica posta di questa vicenda, in tutte le sue espressioni, ma un potere che passa e si costituisce proprio nei rapporti, nelle relazioni e nelle strutture organizzative degli uni e degli altri, nella dinamica dei desideri e dei bisogni ed intorno ai veicoli di senso tramandati (il più importante dei quali è la “lotta di classe”). Si consolida, sempre fragile, ed al termine è revocato, nelle strutture come nelle parole attraverso due dialettiche anche aspre: quella tra i lavoratori ed il sindacato, che riesce a rappresentarli in quanto vi è in rapporto profondo, e quella tra il sindacato e la proprietà. La rottura della prima interrompe anche il canale di potere che rendeva possibile l’altra.


Claudio Sabattini

La vicenda è raccontata a partire dall’arrivo, come responsabile di segreteria per il settore auto di Claudio Sabattini, quando Bruno Trentin lasciò in favore di Pio Galli. La fabbrica nella quale si svolge la scena è un luogo insano e pericoloso, era migliorata dagli anni sessanta, quando le condizioni di lavoro e l’ambiente “era considerato un inferno”, ma non abbastanza. Con gli accordi del 1969, che seguono ad un periodo di aspre lotte, viene istituita la mensa aziendale (che la Olivetti di Adriano aveva da decenni, dal 1936), l’indennità di trasferimento e la diaria di attesa per gli spostamenti da Torino a Rivalta, ma anche accordi per la perequazione delle paghe, la rotazione su tre turni (si lavorava 45 ore settimanali), infine categorie e profili professionali, incentivi di rendimento, regolamentazione delle linee di montaggio a trazione meccanizzata, l’introduzione dei delegati di linea e del ‘tabellone’.
I delegati di linea rivestono una particolare importanza strategica, perché creano con il loro numero e la loro pervasiva presenza quel rapporto di fiducia, ed in primo luogo conoscenza, che istituisce la base di forza del sindacato.

A seguito di questa dura lotta, e dell’accordo strappato, la Fiat fu costretta a garantire rotazioni a garanzia della sicurezza nei luoghi di lavoro più insalubri ed a creare le condizioni perché gli operai esprimano una capacità di controllo sui tempi di lavoro. Dal 1969 nascono i “Consigli di Fabbrica” (anche se con differenze e tensioni mai del tutto risolte erano in Olivetti dagli anni cinquanta), poi potenziati nel 1971, quando diventano 500.
Dal 1972 la fabbrica risponde a queste mobilitazioni con l’introduzione dei primi robot che effettuavano la prima saldatura (quella finale era condotta a mano). Le innovazioni tecnologiche vengono introdotte per garantire “maggiore flessibilità” (la rigidità è una fonte di potere). Nel 1975 viene introdotto il “Digitron”, con carrelli minitrailer e magazzini automatici, e realizzata un’isola di produzione a lato delle linee di montaggio, in modo da non rendere più necessario lavorare con le braccia alzate.


Queste innovazioni tecnologiche, introdotte per rendere più fluida la produzione e aggirare i nodi di conflittualità mutano il modo di lavorare e rendono meno pesante il lavoro. Sono dunque un progresso sotto alcuni profili, ma non cambiavano la natura della linea di montaggio, come dice Pregnolato “non mutavano la natura del rapporto tra queste fasi produttive e il processo complessivo che rimaneva un processo a catena, un processo vincolato”, p.84. Ovvero un processo vincolato dalla struttura meccanica della produzione, dai tempi e ritmi eterodiretti dall’infrastruttura tecnica (e dalla sua programmazione). Ci sarà, su questo punto, un interessante dialogo con Luciano Lama che viene riportato nel testo.

Quindi la proprietà introduce innovazioni di processo (come la cosiddetta “polmonatura”, ovvero l’esistenza di stock di riserva tra i segmenti delle linee) per impedire che uno sciopero limitato ad una interrompa automaticamente anche le altre a valle.

Un’altra innovazione, le cabine di verniciatura, nel 1978, fu oggetto di uno scontro tra i lavoratori e la proprietà perché l’introduzione delle tecnologie, che cambiavano i processi di fabbrica, non era stata discussa e concordata e perché la Fiat voleva interamente trattenere i relativi vantaggi di produttività, senza condividerne una parte con i lavoratori (introducendo premi e superminimi). Intorno a queste due rivendicazioni, racconta l’autore, “ci fu una discussione difficile”, sia nelle assemblee sia nei consigli di fabbrica. Si manifestò qui una dialettica tra generazioni di lavoratori, dove i giovani, che avevano maturato esperienze nei movimenti studenteschi, a volte anche universitari, alzavano il livello delle aspettative e rifiutavano i limiti interiorizzati dall’esperienza dei più anziani; il clima, insomma, si radicalizza.

L’anno precedente c’era stato uno scontro molto aspro nella vertenza del 7 luglio 1977, uno sciopero generale che ferma l’intera città di Torino e ci sono duri scontri con la polizia per tutto il pomeriggio. L’origine è la richiesta della società di ridurre i tempi di lavoro in quanto aveva riscontrato che in alcuni casi gli operai finivano prima e si riposavano. Si sta parlando di pochi minuti.
Il sindacato obietta che il controllo dei tempi di lavoro è una conquista degli anni passati e non può essere unilateralmente deciso dalla proprietà. La questione (che si pone in particolare nella lunga trattativa che impegna l’anno successivo) è davvero cruciale: chi controlla i tempi di lavoro? L’operaio è un soggetto o un utensile?

Su questa questione, seminale per la sensibilità socialista (tanto da essere oggetto dell’attenzione del giovane Marx, che sull’alienazione costruisce la pietra fondativa della sua posizione politica) matura in quegli anni una frattura con parte del mondo confederale e con il Pci, ne parla nei suoi termini anche Bruno Trentin in “La città del lavoro”. Il 3 maggio 1978 Pregnolato ricorda una chiacchierata con Luciano Lama che, in piena trattativa, dà ragione alla Fiat secondo l’assunto che se qualcuno riesce a guadagnare dieci minuti vuol dire che i tempi programmati sono troppo larghi. Bisogna asciugarli perché “sono sbagliati”. Come scrive Trentin, qui c’è un punto: perché sono gli spostamenti degli equilibri di potere nei luoghi di lavoro che contano. E questi non sono spesso, in quegli anni come adesso, “percepiti come tali dalle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio” (T., p.164). La rottura che segue alla perdita di questa sensibilità (che potrebbe anche rubricarsi come abbandono del senso della “lotta di classe”) smarrisce l’intera analisi tentata da Marx stesso dei rapporti di produzione, come dice Trentin “il carattere irriducibile della contraddizione tra capitale e lavoro e la stessa genesi dell’accumulazione capitalistica non risiedeva nella quantità di appropriazione di un ‘surplus’ rispetto alla remunerazione della forza lavoro ‘astratta’. Essi risiedevano prima di tutto nella separazione fra il lavoratore concreto e i suoi strumenti specifici (materiali e culturali) di produzione”.
Il conflitto che pone una questione di tempi, è in realtà questione quindi di potere. Cioè questione di essere soggetti e non oggetti, anche nelle condizioni del lavoro diretto (è anzi, come dice correttamente Pregnolato, questione del lavoro diretto, dell’organizzazione del lavoro, del superamento della linea), mette in causa, come dice Trentin “l’autorità esclusiva dell’imprenditore sull’organizzazione dei fattori produttivi e sulla prestazione del lavoro”. A questa pretesa, che alla sensibilità odierna appare ovvia, si oppone in quegli anni una volontà collettiva organizzata, che porta diverse esigenze e anche idee. Il punto centrale della ‘rivoluzione taylorista’ e quindi fordista, passivamente accettata come espressione di mera logica tecnica da parte importante del movimento dei lavoratori (in Urss come altrove), è il potere. È chi detiene il potere e quale sapere è pertinente, quello diffuso e incarnato nelle mani esperte e negli occhi educati dei lavoratori, o quello astratto e concentrato nella disciplina dei tecnici, degli ingegneri e delle loro macchine temporalizzanti. Il vecchio leader sindacale ne parla in alcune memorabili pagine (intorno alla pagina 100), quel che viene quindi espropriato da Taylor è il sapere.


La posta e il funzionamento della mondializzazione come dispositivo di disciplinamento potente del mondo del lavoro, e la sua trasformazione in mondo del consumo sempre più dipendente da strutture insostenibili (e quindi depotenzianti e decapacitanti) di debito e credito è dunque questa. La proprietà della Fiat lo capisce benissimo, e si capisce, alla luce di questa posta, anche la determinazione con la quale è portata avanti.


La vertenza del 1977 fu quindi, per la Fiat, l’ultima grande vertenza di gruppo ed affrontava i temi degli investimenti, dell’ambiente di lavoro, delle innovazioni tecnologiche, dei problemi organizzativi (ad esempio la programmazione di turni e mansioni), delle componenti del salario, della ricomposizione delle mansioni, della riduzione dell’orario di lavoro.

Conclusa con quella che dal suo punto è una sconfitta la Fiat capisce che andava riorganizzata una controffensiva: nella fabbrica e nel paese.

La marcia di 40.000, 1980

L’articolo è ovviamente ben più ricco di quanto queste povere note possano rendere, e attraversa quindi molti dei piani di frattura e delle lotte egemoniche anche entro il campo della sinistra di quegli anni, ed al termine si concentra sulla controffensiva e le sue modalità che la proprietà imbastì nel 1979-80. Vivendo noi ancora nel cono d’ombra di quella vicenda vale la pena parlarne: la vertenza del 1979 parte dalle nuove cabine di verniciatura e fu radicalizzata dai nuovi assunti (per effetto delle lotte precedenti erano stati assunti, dopo una lunga pausa, alcune migliaia di nuovi operai) che rifiutavano la mediazione dei più esperti. Questa lotta generazionale, e i legami di alcuni dei nuovi compagni con ambienti estremisti fuori della fabbrica (dove il movimento sindacale tutto si era scontrato, anche aspramente, con “i movimenti”, come molti ricorderanno) fu sfruttata dalla proprietà in cerca di rivalsa sul piano strategico (ovvero in cerca del recupero del potere). Romiti e Callieri usarono abilmente il tema delle possibili infiltrazioni terroristiche (che ovviamente c’erano) “per riprendersi il comando della fabbrica” e quindi tornare alla gestione unilaterale di tempi, luoghi e uomini.
La miccia fu l’accusa di terrorismo verso 61 lavoratori (che furono poi assolti dai tribunali) e la richiesta della società di licenziare alcune migliaia di lavoratori in qualità di “fiancheggiatori”. Sono vicende che ricordo personalmente; mio padre come ho detto in quegli anni era delegato sindacale dei dirigenti nello stabilimento di Pomigliano d’Arco dell’Alfa Romeo, e con la dovuta riservatezza, trasmetteva a casa anche a noi figli, appena maggiorenni, la tensione che si respirava nella fabbrica. In particolare ricordo il rifiuto della scorta a seguito delle minacce individuali giunte dalle Brigate Rosse attraverso volantini trovati nei luoghi di lavoro che, per la precisione delle identificazioni, non potevano che essere stati scritti da qualcuno interno. Tuttavia l’Alfa, allora nelle Partecipazioni Statali, non reagì con la programmata ed intenzionale determinazione della Fiat, anzi coinvolse in qualche misura i lavoratori nel tentativo di isolare gli estremisti.

La Fiat rifiutò questa logica e avviò 14.000 licenziamenti in 35 giorni, ovviamente scegliendo gli operai più attivi e tutti i delegati delle lotte, tutti i “compagni dell’Flm” (in Alfa ancora negli anni novanta i delegati sindacali non possono essere licenziati).

Anche se poi si giunse ad un accordo (che parte del sindacato giudicò favorevolmente) questa vicenda “sanciva l’espulsione del sindacato dalla fabbrica”.

Questa espulsione avvenne in sostanza perché tagliò le relazioni intime e la rete arteriosa che connetteva il sindacato, attraverso i suoi delegati di linea eletti dal basso, con il corpo dei lavoratori. Da allora il sindacato si ritira nelle relazioni istituzionali, perdendo il legame con i “consigli” (come lamenta anche Trentin), ed allontanandosi dai conflitti perde anche autorevolezza in entrambe le direzioni e capacità di formare le questioni nel corpo vivo dei problemi. Quello che Pregnolato chiama “il punto di caduta” della trattativa, viene quindi sganciato dalla formazione del consenso (che è al più ricercato affannosamente in seguito).


Una lezione che va molto oltre la singola, per quanto importante, vicenda.

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