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mercoledì 23 agosto 2017

Della riduzione dell’orario di lavoro: la proposta di André Gorz


Leggendo il libro di André Gorz, “Metamorfosi del lavoro”, del 1988, avevamo riportato brevemente la sua proposta di riduzione della durata del lavoro, come soluzione strutturale alle modifiche in via di dispiegamento delle modalità di produzione. Si tratta di un libro di quasi trenta anni fa, ma molti temi affrontati sono tuttora attuali.

Tra questi il tema della riduzione dell’orario di lavoro.


L’orizzonte del filosofo francese era molto ampio, la riduzione, con le modalità che vedremo, dell’orario di lavoro, e la sua flessibilizzazione nell’arco della vita, sono in realtà una strada per fuoriuscire dall’alienazione che è intrinsecamente incorporata nella forma di lavoro subordinato e dalla sua organizzazione “militarizzata” (come si troverà a riassumere alcuni anni dopo Bruno Trentin, commentando il libro). Ma è anche un modo per sfuggire alla logica economizzante, ovvero all’irrazionalità che scaturisce paradossalmente dallo sforzo di razionalizzare ogni parte della vita, senza rispettarne l’indisponibilità a diventare mera merce, ovvero ad essere ridotta, gli uni per gli altri, alla dimensione oggettuale. Si tratta, per Gorz, di trovare il percorso per invertire, gradualmente, l’espansione della logica economica e la mercatizzazione (come si trovava a dire Polanyi).


Lo scheletro della proposta è di ridurre progressivamente la necessità di prestare lavoro subalterno, man mano che aumenta l’efficienza economica complessiva, garantendo, attraverso un “secondo assegno” via via crescente, la stabilità del reddito. Le ore non lavorate sarebbero equivalenti ad un permesso remunerato e sarebbero pagate da una cassa comune alimentata da una speciale tassa sull’incremento di produttività media sociale (una cosa che potrebbe assomigliare alla “tassa sui robot”, di cui si parla, ma equalizzata per evitare gli effetti non voluti a svantaggio dell’innovazione) e da tasse di scopo sui consumi di lusso (che producono un’elevata dispersione di ricchezza sociale) o dannosi per l’ambiente. Per evitare che l’applicazione non uniforme della tassa possa danneggiare seriamente i settori aperti alla competizione internazionale, dovrebbero essere previste delle deduzioni (per le merci esportate).

Non si tratta affatto di una proposta di “reddito garantito” (perché si svilupperebbe solo verso gli effettivi lavoratori dipendenti), ma può essere associata a forme di “lavoro di ultima istanza” (per una discussione delle due diverse proposte vedi qui).

La “politica del tempo” che dunque propone ha lo scopo di ripartire le economie di tempo di lavoro che sono rese possibili dagli incrementi di produttività (ovvero dall’introduzione di nuove tecnologie) non secondo gli usuali criteri di razionalità economica, ma secondo principi di giustizia. Le economie di produttività medie sono, infatti, frutto del lavoro dell’intera società, non della iniziativa imprenditoriale di questo o quello. Se è la società che insieme crea le condizioni (in parte in modo inafferrabile, come parte di un mutamento di clima, di modalità organizzative, delle norme sociali, delle reciproche aspettative e dei significati taciti) perché una data impresa sia più produttiva nel territorio “a”, anziché “b”, allora il compito della politica “è distribuirle a livello della società intera, in modo che ogni donna e ogni uomo possano beneficiarne” (p.209).
Ci sono diverse implicazioni da valutare, la riduzione uguale per tutti (e non solo per i settori che incrementano la produttività, che altrimenti sarebbe veicolo di ulteriore ineguaglianza) del tempo di lavoro effettivo implica una ridistribuzione della mano d’opera tra i settori. Incrementa, cioè una tendenza già in essere: i settori che aumentano la propria efficienza e produttività potranno ridurre (anche se meno di quanto farebbero altrimenti) la propria manodopera, a parità di output prodotto, ovvero di mercato di assorbimento; quelli in cui ristagna dovranno aumentare la manodopera più rapidamente. L’effetto sulla dinamica salariale, a parità degli altri fattori, sarà quindi positiva per entrambi.

Se la proposta prevedesse la riduzione della durata media del lavoro (poi vedremo come calcolata) di quattro ore ad intervalli di quattro anni (40, 36, 32, 28, etc…), sorgerebbe inoltre una necessità di programmazione, organizzazione del lavoro, formazione, che dovrebbe essere assunta dall’insieme delle organizzazioni sociali del lavoro insieme alle forze industriali e imprenditoriali coinvolte. In qualche modo, come scrive “si tratta della messa in moto di tutta la società in vista di una scadenza”.
Nell’insieme, in particolare man mano che il programma prende spazio, la riduzione generalizzata del tempo di lavoro in senso economico (che crea valore d’uso, in vista di uno scambio, nella sfera pubblica e secondo un tempo razionalizzato e misurabile) libera quindi tempi per lo sviluppo umano, il “lavoro di cura” volontario, o “per sé”. Ma, insieme, rende possibile che una quota maggiore della popolazione sia gradualmente coinvolta nelle forme di lavoro organizzato, ottenendo il corrispondente vantaggio di professionalizzazione.

Ma garantisce anche una migliore qualità del lavoro stesso, per effetto della maggiore ricchezza e complessità delle esperienze di vita che le persone potrebbero compiere e per effetto della maggiore intensità spendibile nelle ore di lavoro, in qualche modo scelte. Inoltre, l’incremento del costo del lavoro (nella sua componente diretta, che è invariata, ma in quella indiretta creata dall’impatto fiscale) porta a maggiori investimenti per aumentare ulteriormente la produttività. In questo modo si creerebbero le condizioni di un reciproco inseguimento (man mano che aumenta la produttività, aumenta anche la sua media, e quindi la tassazione, che alza i costi del lavoro e spinge a maggiori investimenti), con un meccanismo esattamente opposto a quello in auge.



La proposta va inserita dunque in un contesto generale di fuoriuscita dalla logica dell’austerità deflattiva e della competizione selvaggia.

Ora, qui non si parla affatto di ridurre l’orario settimanale a 36 ore, poi a 32, e via via a 20 ore o meno. Si tratta piuttosto di ridurre le 1.600 ore annuali, o le 8.000 ore ogni cinque anni, ripartendo su base giornaliera, settimanale, mensile, annuale, un tempo liberato e remunerato che in modo non dissimile in fondo dalle attuali ferie pagate dovrà essere concordato secondo le reciproche esigenze; ma sarà un diritto individuale protetto dalla legge. Si tratta quindi di avere un plafond di ore di permessi retribuiti (dallo Stato e non dall’impresa) che si possano riscattare di volta in volta, per avere un giorno settimanale libero, un orario più corto, una settimana libera, un anno sabbatico.

In un certo senso, si tratta di rovesciare come un guanto una tendenza che è già all’opera, e che è intrinseca nel nuovo ambiente tecnologico nel quale si svolgono la maggior parte dei lavori: la flessibilità. Prendere in pugno questa tendenza e, “rendendola oggetto di trattative e di lotte collettiva [cioè riconoscendola paradossalmente come diritto], farne la sorgente di una nuova libertà” (p.214).

Dal punto di vista macroeconomico, riflette Gorz, l’idea dovrebbe essere, con la riduzione dell’orario di lavoro complessivo al crescere della produttività media, di far sì che il potere di acquisto delle famiglie, che è la domanda delle imprese, sia progressivamente sganciata “dal volume di lavoro che la società produce”. Si tratta, dunque, di una utopia del tutto diversa dall’industrialismo nel quale è cresciuta la cultura della sinistra storica: una utopia della società del tempo liberato, come dice.
Il presupposto è la progressiva automazione e meccanizzazione delle modalità di produzione non solo delle merci, ma di buona parte dei servizi.

Ma la decisione di ridurre l’orario medio, pur scaturendo anche da valutazioni di tendenza, deve essere politica. Deve imporre un calendario ex ante. Ovvero deve essere lo scopo che la società si dà, ed alla quale il sistema si deve adeguare nel tempo definito. Tutte le forme di regolazione (ad esempio ambientali, sociali, di sicurezza, etc.) sono state introdotte così.

E nella microgestione necessaria di questo nuovo pacchetto di diritti (al tempo liberato flessibile), si svilupperebbe anche quella attenzione sociale, quelle azioni collettive (ad esempio sindacali), ed iniziative popolari che si metterebbe in continuità con la tradizione mobilitazione per le ferie pagate, i permessi, i congedi di maternità, l’erogazione di servizi, formazione, che vivificherebbe le capacità di riflessione, autoorganizzazione a livello delle imprese, proposta, …



Porrebbe, in sostanza il grande tema, lasciato in sostanza cadere negli anni settanta, della organizzazione del tempo e della produzione entro i luoghi di lavoro produttivi. Il tema del potere, che è connesso con quello del lavoro e della sua dignità

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