Sul
suo blog Carlo Formenti ha pubblicato[1] una recensione del testo
spagnolo “La base material de la nación en Marx y Engels” di Carlos
Barros. In questo testo proverò a ricostruire il suo argomento ed aggiungere
qualche altro spunto. In particolare, dalla rilettura di un saggio di Lelio
Basso su “La natura dialettica dello Stato secondo Marx”, contenuto in un libro
autori vari del 1977, “Stato e teorie marxiste”[2]. Non si tratta, dunque, di
trattare l’enorme tema del concetto di Stato (o, e non è ovviamente la stessa
cosa, di nazione) nel marxismo, e neppure in Marx o Engels, ma di aggiungere
una semplice glossa ad un passaggio.
Infatti,
Carlo conclude il suo pezzo scrivendo:
“Se già ai tempi di
Marx era impossibile fissare criteri universalmente validi per rispondere alla
domanda su quali lotte nazionali sostenere, oggi l’impresa è ben più ardua: è
giusto sostenere l’irredentismo catalano anche se assume i connotati di un
“separatismo dei ricchi” (6); è giusto appoggiare le rivendicazioni di
tibetani, uiguri e abitanti di Hong Kong contro il governo centrale della Cina
Popolare, anche se è alimentato e sostenuto dall’imperialismo occidentale e ha
caratteri esplicitamente antisocialisti? E ancora: ha senso attribuire un
significato progressivo all’integrazione europea in nome dell’accelerazione
dello sviluppo economico, anche se il costo di tale sviluppo è la
subordinazione e l’impoverimento delle nazioni (e delle classi subalterne!)
mediterranee da parte della Germania? È giusto considerare ideologicamente
regressivo il carattere patriottico delle rivoluzioni bolivariane dell’America
Latina? Rispondere a ognuna di queste domande richiede di svolgere un’analisi
concreta di tutti i fattori economici, socioculturali, storici e geopolitici
implicati in ogni singola situazione, dopodiché l’unico fattore di cui tenere
conto - in ultima istanza - per dare loro risposta resta a mio avviso
quello della valutazione degli interessi di classe in campo; certamente non
quello dello sviluppo delle forze produttive” (corsivo mio).
Condivido
completamente questa conclusione, ma proprio questo segna la distanza non solo
dagli autori di metà ottocento citati da Barros, quanto anche da Basso almeno su
un punto cruciale. Se con ciò si volesse dire che, allora, non si può essere
marxisti senza aderirvi me ne farò una ragione.
Del
resto “De omnibus dubitandum” era un motto preferito da Marx.
Quel che conta non è essere fedeli seguaci di questo o quello, ciò che conta è stare consapevolmente nel proprio tempo, apprendendolo anche nel pensiero, e mettersi nelle condizioni di agire in esso.
Nel
Marx di Barros, descritto da Carlo, c’è piena consapevolezza che ogni concreta
società ha una base nazionale; si costituisce in un concreto percorso sociale e
culturale e sotto l’egemonia della classe direttiva, che in Europa è stata a
partire dall’illuminismo la borghesia. Ci sono dunque ‘condizioni nazionali di
produzione’ di natura storica (ovvero economica, naturale, sociale e politica)
che sovraintendono alla costruzione della nazione come “totalità concreta”.
Basso, come vedremo, porrà l’enfasi sulla circostanza che ogni Stato (sia nazionale sia
plurinazionale) è sempre campo di scontro anziché unità organica. Quindi c’è
un nodo di grande complessità e delicatezza nel momento in cui, parlando non di
“Stato” bensì di “nazione”, questa viene rivendicata come intreccio concreto di
vincoli la cui esistenza unisce tutti gli individui (creando un “noi”
sovraordinato, almeno ad un certo livello, agli altri “noi” e quindi “loro”[3]). Si determina, quindi, un
nesso “social-nazionale” che è fatto di materia complessa ma reale (interessi,
relazioni, storia e memoria) e in ultima istanza a base economica. La glossa
che Carlo produce, sulla scorta della sua lettura di Lukacs[4], a questo “ultima” è significativa:
“Nella sua opera matura, Lukacs pone ad esempio l’accento sull’aggettivo ‘ultima’,
nel senso che, dal suo punto di vista, la determinazione dei complessi
sovrastrutturali (politica, cultura, diritto, ideologie, ecc.) sì fa sempre più
indiretta e meno cogente a mano a mano che progredisce lo sviluppo dell‘essere
sociale”. Rilevante è comprendere, precisamente, cosa è “lo sviluppo
dell’essere sociale” in questa economia di discorso.
L’interpretazione
dei testi prodotta dallo studioso spagnolo segnala una certa incertezza
terminologica nelle fonti (cosa per certi versi scontata, trattandosi di testi
lungo quaranta anni e di due autori diversi, se pure strettamente connessi)
quando utilizzano termini come “nazione”, “paese”, “popolo”, “patria”, e fanno
uso della coppia “Stato/Società Civile” (che appare come sinonimo di “nazione”).
Coppia che, in effetti, è presente nel corpus marxiano sin dalla lettura
giovanile di Hegel, per il quale è notoriamente centrale[5]. Questa coppia strutturale
slitta, nell’opera matura, in “Struttura/Sovrastruttura”, ma spostando
significativamente il focus. Secondo un’influente lettura soccorrerebbe in tal
senso il concetto di “autonomia relativa” tra società civile e le diverse
articolazioni dello Stato che Marx stesso proporrebbe in un passaggio de “Il
18 brumaio di Luigi Bonaparte”. In esso chiarirebbe che, pur essendo
ovviamente lo Stato capitalista in rapporto con la lotta di classe, questo abbia una “autonomia
relativa” nei confronti delle stesse classi dominanti che se ne servono. Precisamente,
anche delle stesse classi “politicamente dominanti”[6]. Rileggendo quindi questa interpretazione
di Poulantzas, connesso alla scuola althusseriana, lo Stato svolgerebbe
essenzialmente la funzione di organizzazione politica delle stesse classi
dominanti, e di disorganizzazione politica di quelle dominate, ma tutto ciò con
‘autonomia relativa’. Si tratterebbe del fatto che le strutture politiche,
giuridiche, ideologiche (che creano soggettività), sono connesse ma anche parzialmente autonome dall’economico. Non ne discenderebbero automaticamente e
non senza un qualche filtro, una specifica deviazione, una messa in forma. Lo snodo
specifico indicato è che nel momento in cui lo Stato (e le sue strutture
giuridiche ed organizzative) svolge la funzione d’ordine che gli è propria
(ovvero organizzazione e disorganizzazione), è tuttavia necessario che si
rappresenti come unitario. Qui la forma dello “Stato/nazione”, e quindi “Stato/popolo”
diventa preminente, e con essa un potenziale eccedente i meri interessi delle
classi politicamente dominanti (in altre parole questa struttura le costringe ad
una prospettiva più inclusiva e più di medio-lungo termine rispetto a quella che
il mero istinto di riproduzione ed accumulazione consiglierebbe).
A
parte l’analisi filologica del testo, che non soccorre adeguatamente la lettura
poulantziana, resterebbe da chiarire la dimensione “relativa” di questa
autonomia, e trovare un posto alla dialettica tra rappresentanza politica e
sovranità popolare, alla simmetria morfogenetica tra la struttura presunta paritaria
dello scambio mercantile (ideologizzato) e le forme giuridico-politiche delle
libertà ed eguaglianza formali. Oppure, quale conseguenza ed esito, le
forme della presunta e rivendicata separatezza tra “sfera dell’interesse generale”,
rappresentata dallo Stato nel suo complesso, e sfere degli ‘interessi
particolari’ che nella sua neutralità apparente questo parifica astrattamente.
Creando, in realtà, le condizioni perché il potere scaturente dallo scambio
mercantile dispieghi pienamente i suoi effetti. Di qui la proposta, es. in “Critica
del programma di Gotha”, del Marx maturo di superamento della diagnosticata
autonomizzazione dello Stato “politico-burocratico” rispetto al livello di base
dei bisogni, della produzione e della conoscenza, producendo quella che si può
leggere come una ricomposizione strutturale. Dunque, né l’estensione del mero
suffragio, o dell’accesso alla dimensione politico-burocratica, né, parimenti, l’ulteriore
espansione della macchina di controllo centrale (se pure cambiata di “padroni”)
è dirimente nella prospettiva marxiana; quanto, casomai, il superamento della
coppia “Stato/società civile”, ed in uno di quella “Struttura/sovratruttura”,
creando un’identità tra i luoghi e le forme della produzione collettiva e
quelle della decisione collettiva. Il tema, cioè, del superamento della
divisione sociale del lavoro. Il massimo livello utopico al vertice, però, di una
analitica complessa e spietata.
Scendendo
da questi altissimi e rarefatti livelli di astrazione, la lettura che Carlo
Formenti compie del testo di Barros, si concentra sul problema pratico della
posizione da assumere nei confronti dei concreti conflitti che mobilitano le forme
nazionali e/o le relative ideologie e strutture organizzative nel farsi storico.
Qui l’osservazione del posizionamento dei due ‘padri’ non soccorre pienamente,
in quanto nel contesto del loro tempo accidentato si trovarono di fronte a
grandiosi processi di formazione di nuove entità statuali (inizialmente plurinazionali)
come l’Italia e la Germania; a movimenti irredentisti di popoli schiacciati e frammentati
come quelli irlandesi e polacchi, in primo luogo, ma anche magiari, serbi, slovacchi,
boemi, croati, rumeni e via dicendo sotto l’Impero Austro-Ungarico; al
colonialismo in primis verso le grandi potenze e nazioni (o imperi
plurinazionali) estremo-orientali indiana e cinese. L’obiettivo che ci si pone
determina il posizionamento. E qui i nostri si fecero attrarre dallo
schematismo che ritroveremo da ultimo ben espresso da Basso: dato che lo
sviluppo delle forze produttive favorisce la socializzazione (collocandosi
al livello della ‘società civile/struttura’) e si pone quindi in contrasto
strutturale con i rapporti di produzione giuridico/formali (che si
collocano al livello dello ‘Stato/sovrastruttura’) dunque in ultima analisi è a
questo che bisogna guardare qualsiasi sia il costo. Lo sviluppo delle
forze produttive, infatti, socializza e fortifica la classe operaia (che qui significa
lavoratrice), e avvicina la rivoluzione.
La
versione althusseriana di Poulantzas[7], o quella della costellazione
negriana, o la versione luxemburghiana di Basso alla fine frequentano questo
terreno. Dall’impiego della doppia coppia ‘Stato/società civile (nazione)’ e ‘sovrastruttura/struttura’
fanno dipendere, intorno al perno della lotta al riformismo letto come sussunzione
della società civile/struttura nello Stato/sovrastruttura, la diagnosi della
rivoluzione al punto più alto di sviluppo delle forze produttive e quindi la
prescrizione politica di spingerle, pur nei loro effetti dislocanti e
distruttivi.
Lelio
Basso si troverà a dire che alla fine, in quel del 1977 Marx è attuale più che
mai in quanto, cito: “l’immenso sviluppo delle forze produttive che la società
capitalistica ha provocato e la spinta socializzatrice che ne sprigionano,
in radicale contrasto con i rapporti capitalistici di produzione” è più vero
che nel 1860-70 quando furono diagnosticate. La socializzazione immanente allo
sviluppo delle forze produttive (che significa sia del sistema delle macchine[8], sia della crescita delle
forze-lavoro[9])
apre alla possibilità di “rapporti sociali più elevati” e, contemporaneamente,
a rapporti più coerenti con le possibilità dello sviluppo tecnico. Questo è il
conflitto fondamentale, che genera e determina una vasta gamma di
contraddizioni dialettiche le quali, nella forma di antagonismi laceranti e
irriducibili, “non possono non trovare eco anche all’interno dello Stato”. A parere
di Basso ne deriva che è un errore considerare scolasticamente lo Stato, in
quanto “borghese”, come blocco monolitico di potere, quando è, piuttosto, “una
sede permanente di contrastanti tendenze in lotta per il potere”. Ovvero, con
formula sintetica ed illuminante, “un rapporto dialettico con la base della
società”[10].
C’è
un doppio sfondo storico da considerare per comprendere questa frase dell’anziano
teorico e militante socialista[11]: pronunciato nel 1975 ha
sotto gli occhi il ciclo di lotte crescenti nelle fabbriche del Nord ed in
tutta Italia dell’ultimo quindicennio, il discorso è sul crinale della trasformazione del
modo di produzione capitalista che si dispiegherà a partire proprio da quell'anno con i vari tentativi di aggirare da parte della proprietà capitalista della
grande fabbrica (alla quale Basso guarda) il nodo dei maggiori costi e dell’erosione
dei margini. Prende le mosse da qui la spinta alla “costellazione territoriale
di piccole imprese”, che uniscono minore conflittualità perché le dimensioni
minori portano differenze qualitative e maggiore controllo diretto,
faccia-a-faccia, tra “padrone” e “operai”, elasticità organizzativa, capacità
di inserirsi agilmente in mercati in via di trasformazione e via dicendo. Il secondo sguardo
di Basso (l’estensione dei consumi), infatti, agisce in direzione inaspettata e
come un secondo braccio di una tenaglia spiazza il consumo di massa in favore
di un bisogno di distinzione che si manifesta come consumi “identitari”. Questi
avvantaggiano il modello flessibile di produzione.
Pensando
sostanzialmente con i piedi ben poggiati sul terreno che precede questa
svolta la diagnosi è semplice e ben comprensibile quanto al suo oggetto ed ai
fenomeni che nomina, le forze produttive con lo sviluppo della grande industria
e del macchinismo rompono costantemente la corrispondenza precedente tra le forze produttive e i rapporti
di produzione,
“le
prime sono sospinte, dalla necessità stessa dello sviluppo capitalistico, verso
forme sempre più sociali, mentre i secondi tendono a riprodurre perpetuamente
una società basata sul profitto privato. Marx descrive questo processo come il
vero processo autodistruttivo della società capitalistica e non esita ad affermare
che le macchine sono le vere forze rivoluzionarie, più dei Blanqui, dei Barbés
e dei Raspoil”[12].
Dunque,
nello sconvolgere i vecchi rapporti, è la forza immanente del processo di
socializzazione promosso necessariamente dallo sviluppo delle forze
produttive a rendere necessaria la ricerca di sempre nuovi equilibri nel conflitto
scaturente dalla contraddizione con i rapporti di appropriazione privatistici. Cioè,
con le sue parole, “ad adattare di volta in volta la difesa del rapporto
privatistico, vale a dire del profitto privato, alle avanzanti esigenze sociali
dello sviluppo produttivo”. Ma, è molto importante anzi decisivo, “avanzanti
esigenze” di natura “sociale”.
E qui si manifesta il secondo sfondo. Questo adattamento, la cui necessità scaturisce dal conflitto antagonista, negli anni in cui Basso pensa ed avendo sotto gli occhi il dispiegarsi della dinamica del dopoguerra fino ad allora (non solo in Italia) è dato da “l’intervento crescente dello Stato”. Siamo infatti al termine (ma il nostro non lo sa) non solo del modo di produzione fordista (dai due lati della produzione e del consumo), bensì anche dello Stato interventista. Al termine ma al culmine.
Quindi
il leader socialista chiarisce che questo intervento “a partire dal New Deal
americano”, ha visto “le nazionalizzazioni di interi settori dell’economia, le
programmazioni o pianificazioni statali, le discipline coatte dei prezzi, la
redistribuzione dei redditi fino al cosiddetto Stato assistenziale” e questi
sono nello schema esattamente “altrettanti momenti di questo processo
attraverso il quale l’azione dello Stato permette ai rapporti privatistici di
produzione di mantenersi al di là di ogni crisi e di ritrovare un nuovo
compromesso nonostante il crescente processo di socializzazione imposto dallo
sviluppo delle forze produttive”.
In
altre parole, lo sviluppo ‘riformista’ del welfare è visto essenzialmente come
reazione e risposta equilibrante ad una tensione immanente tra masse crescenti
di lavoratori capaci di azione politica e quindi richiedenti soluzioni sociali
ai problemi posti dalla crescita e dominio politico di classe. Questo è, in
fondo, il medesimo modo in cui lo vedeva la scuola althusseriana e come, anche
post festum, hanno per inerzia teorica e cattura in schemi ossificati,
continuato a vederlo gli epigoni fino ad oggi.
Basso
ricorda che per Marx, il quale a sua volta scrive sul tramonto del secolo XIX e
dentro una specifica tradizione filosofica, “il solo modo per superare una
formazione sociale è quello di spingere a fondo le contraddizioni che si
sprigionano al suo interno”. Ciò non comporta un fatalistico determinismo in
quanto le contraddizioni sorgono spontaneamente, iscritte nelle cose per così
dire, ma non le soluzioni. La cosa sta in questo modo:
“La
lotta del proletariato contro il capitalismo assume l’aspetto di un’autentica
lotta di classe per il potere nella misura in cui gli obiettivi del
proletariato vengono a coincidere con le possibilità concrete offerte dallo
sviluppo delle contraddizioni obiettive: solo la partecipazione cosciente del
movimento operaio a questi processi spontanei e la coincidenza dell’azione
soggettiva con le tendenze obiettive costituiscono, per Marx, un’autentica azione
rivoluzionaria, secondo un’affermazione contenuta nello Herr Vogt, e che a me è
sempre sembrata di importanza capitale: in essa, Marx definisce l’azione
rivoluzionaria come la ‘partecipazione cosciente al processo storico di
rivoluzione sociale che si svolge sotto i nostri occhi’”[13].
La
questione dirimente per Basso è allora questa. Se nel movimento reale della Storia, dato
dall’incalzare dello sviluppo crescente delle forze produttive nella loro natura
socializzante e quindi dall’insanabile contraddizione con i rapporti
capitalistici[14],
gli elementi di una nuova società in potenza (il movimento dei lavoratori e le
forze ad esso alleate) coscientemente agiscono e si raccolgono in unità
organica, allora, e solo allora, si pongono le basi per un nuovo modo di
produzione e quindi nuovi rapporti politici. Siamo, come si vede, nell’ambito delle
distinzioni concettuali tra base/sovrastruttura e società civile/Stato.
Ma
se manca questa azione cosciente, questo unirsi in unità organiche, allora ci
si avvia ad un “pericoloso ristagno” (che a partire dal 1976 sarà visibile e
quindi nella correzione di bozze del 77 probabilmente già intravede) e “non
solo il capitalismo riuscirà a trovare soluzioni provvisorie, adattamenti e
compromessi sempre nuovi, attraverso un’interpenetrazione crescente del potere
politico e delle strutture economiche, ma riuscirà a prolungare innaturalmente
la vita di queste sue successive reincarnazioni, che ormai recano palesemente
in sé il germe permanente del fascismo, e a prolungare innaturalmente la
riproduzione dei rapporti capitalistici”. Il capitalismo, in altre parole, in
assenza di una forza cosciente che coordini l’azione verso una nuova formazione
sociale, portando la sfida al livello opportuno ma anche organizzandola dal
basso, avrà l’occasione di “utilizzare al massimo la capacità riequilibratrice
del sistema”. Capacità che può passare anche per forme di suffragio rapidamente
ricondotte nella rete di vincoli incrociati tra capitale, governo e potenze
esterne (scrive sinistramente “in tal modo il potere decisionale che il
suffragio universale avrebbe dovuto affidare al popolo appartiene a quest’ultimo
solo in modo apparente, mentre nella realtà il parlamento è cortocircuitato da
potenze estranee, qualche volta addirittura occulte, di cui si limita a
registrare la volontà”[15]). Oppure per la stessa
redistribuzione, che nella forma di consumi privati (ovvero di più alti salari)
favorisce l’individualismo ed il consumismo in quanto questi “si convertono in un
sostegno essenziale dello sviluppo capitalistico e dell’allargamento del
processo di accumulazione”.
O
che oggi, nelle mutate condizioni, può passare per l’utilizzo dell’energia
critica stessa al neoliberismo, dalla MMT ad alcune posizioni neokeynesiane,
capovolta in forza stabilizzante nel contesto della doppia autodifesa del
grande capitale multinazionale e dell’egemone non più egemone nordamericano[16].
La
questione si riduce dunque a questo disperato appello: spingere le forze
produttive cercando di stargli dietro ed organizzare la forza che deriva dalla
loro necessaria capacità socializzante per costruire dei contropoteri autonomi
ed un “uomo nuovo” ed evitare che il capitalismo usi ciò che si trova costretto
a concedere (suffragio e redditi) per ristabilizzarsi. Una sorta di corsa
contro il tempo che è stata evidentemente persa proprio in quel torno di anni
(e che, inserita come era nel più ampio quadro del conflitto mondiale,
peraltro, non poteva essere vinta in quei termini).
La
mia glossa al commento di Carlo è dunque questa: non c’è in sé nulla di
specificamente cattivo, o buono, nello sviluppo delle forze produttive, ma
usciti dall’entusiasmo macchinico del XIX secolo, come dalla rincorsa del
dopoguerra, oggi vediamo bene che esso non è né specificamente né necessariamente
associato ad un incremento della socializzazione. Lo schema “sviluppo/tecnica/progresso”
non ci può dunque guidare. Ci tocca il compito di tastare bene le pietre del guado,
una ad una, unendo soccorso e protezione alle esigenze umane di base
(lotta concreta per una buona sanità, per un fisco più equo, per salari degni,
per servizi decenti), tensione ad unire un “blocco storico”[17] a partire da queste
rivendicazioni concrete e lotta per la liberazione nazionale da ogni forma
di dipendenza. Parafrasando una nota formula di Mao: l’uomo vuole vivere,
la classe vincere, la nazione prosperare.
[2] - AAVV, a cura di Guido Carandini,
“Stato e teorie marxiste”, Mazzotta editore, 1977.
[3] - Ovvero quel che si nomina quando
si dice, ad esempio, che noi siamo italiani e loro spagnoli, mentre, ad
esempio, io, Carlo e Barros potremmo essere “marxiani” verso i “liberali”.
[5] - Se pure il giovane Marx l’adopera
in modo difforme dal vecchio Hegel. La “società civile” nel primo non è la
sfera degli individui empirici e dei rapporti interpersonali dominati dall’alto
dalla potenza dello Stato, ma, piuttosto, la sfera dei bisogni, del lavoro,
della vita privata, che è piuttosto dominata ed organizzata internamente dagli
interessi proprietari, ed è, ovviamente, divisa in classi e ceti esprimenti
cultura, interessi e modalità organizzative fondamentalmente diverse.
[6] - Si veda la lettura di Danilo
Zolo, “Epistemologia e teoria politica nelle interpretazioni del pensiero
politico di Marx”, in AAVV, “Stato e teorie marxiste”, cit., p.49
[7] - Riferisco di passaggio la
devastante critica che Danilo Zolo, nel 1977, produce all’ambizione di
fondazione epistemologica althusseriana, a suo parere fallita: “per la scuola
althusseriana un asserto scientifico, almeno nell’ambito del sapere storico e
sociologico, è un asserto che corrisponde ai principi della ‘nuova scienza’
fondata da Marx. Solnato le categorie della nuova scienza marxiana consentono l’appropriazione
conoscitiva degli ‘oggetti reali’ esistenti fuori del pensiero, nel mondo reale.
Ogni epistemologia che non operi con categorie come ‘struttura’, ‘sovrastruttura’,
‘surdeterminazione’, ecc. dà luogo a conoscenze false, ideologiche, cui nulla
corrisponde nel mondo reale. Si tratta di una impostazione fortemente
dogmatica, in cui l’adesione a una gnoseologia realistica e precritica si sposa
con alcune categorie desunte dallo strutturalismo di Bachelard e di Foucault e
utilizzate per formalizzare il pensiero maturo di Marx. Permangono in questa
epistemologia, nonostante la modernità del lessico strutturalistico, tutte le
scorie del Diamat sovietico: la concezione filosofica del marxismo come
Weltanschauung naturalistica e dialettica; l’oggettivismo gnoseologico che contro
l’idealismo borghese ripropone in termini tomistico-spinoziani il primato dell’essere
sul pensiero; una concezione metafisica della scienza come teoria della verità
in senso filosofico; una inclinazione ‘monistica’ che pretende alla
unificazione entro l’orizzonte della ‘scienza marxiana’ dell’intero orizzonte
delle conoscenze storico-sociali e intende la stessa formazione capitalistica
come totalità di interrelazioni causali, come un continuum di determinismi
intrecciati e sovrapposti. Una singola combinazione di metafisica e di
strutturalismo.” Danilo Zolo, op. cit., p. 48.
[8] - Questo, a sua volta, composto
sia dello sviluppo tecno-scientifico sia della crescita degli investimenti
fissi sociali, ovvero città, infrastrutture, luoghi di produzione, etc.
[9] - Queste composte dell’esistenza
materiale di una classe lavoratrice sempre più ampia, concentrata, capace, sia
dell’insieme delle capacità, know how, operatività, che questa esprime.
[10] - Lelio Basso, “La natura
dialettica dello Stato secondo Marx”, in AAVV, “Stato e teorie marxiste”,
op.cit., p. 18.
[11] - Lelio Basso, nato nel 1903, morirà l’anno seguente
alla pubblicazione del libro e tre anni dopo il convegno di cui questo è rielaborazione
(Settimana internazionale di studi marxisti, Firenze, Palazzo dei Congressi,
3-7 marzo 1975 che recava titolo “Lo Stato capitalistico contemporaneo alla
luce del pensiero di Marx”. Figura cruciale del dibattito costituente (si veda “Note
sul dibattito costituente: l’art 3 e l’eguaglianza sostanziale”) e
portatore di una articolata posizione sulle questioni cruciali dell’internazionalismo
e dell’autonomia nazionale (si veda “13
luglio 1949, Lelio Basso ‘internazionalismo e nazione’ sulla ratifica dello Statuto
del Consiglio d’Europa”) e sul federalismo (si veda “Lelio
Basso ‘consensi e riserve sul federalismo’”). era
avvocato, ma prese anche una seconda laurea in filosofia, è stato come
antifascista molte volte arrestato e mandato al confino, partecipò alla
Resistenza e all'insurrezione di Milano in posizione
apicale, fu il direttore dell’esecutivo del PSIUP, “Alta Italia” al
quale partecipavano Rodolfo Morandi e Sandro Pertini. Fu eletto alla
Costituente, e rivesti cariche di grande rilevanza nel suo partito, ne fu
Segretario generale (1948) e poi membro della direzione (1949-51; 1957-64), nel
PSI rappresentò la tendenza a una politica di collaborazione con il PCI.
Quindi, nel 1964 fu tra i promotori della scissione dell'ala sinistra del PSI,
che diede vita al PSIUP di cui fu Presidente e che abbandonò per divergenze di
giudizio sull'invasione sovietica in Cecoslovacchia.
Basso fu ininterrottamente deputato dal 1948 e senatore (per la sinistra
indipendente) dal 1972. Grande studioso del marxismo e direttore (dal 1958 al
1976) della rivista Problemi del socialismo, nel 1969 fondò l'Istituto
per lo studio della società contemporanea e fu Presidente del
Tribunale Russell 2º per l'America latina (da 1974 al 1976); quindi
nel 1976 ad Algeri fu tra i promotori della Dichiarazione Universale
dei Diritti dei Popoli. Tra i suoi scritti si deve ricordare “Il Principe senza scettro. Democrazia e
sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana” (1958); la
raccolta degli “Scritti
politici di Rosa Luxemburg”, “Neocapitalismo e sinistra europea” (1969).
[12] - Cit., p. 26
[13] - Cit., p. 28
[14] - Molto schematicamente: cresce la
forza lavoro in numero e concentrazione, cresce il prodotto sociale ovvero la
ricchezza disponibile perché prodotta da queste crescenti forze produttive, ma
questa viene appropriata da pochi che dispongono della proprietà dei mezzi di
produzione. Da una parte scarsità e forza crescente, dall’altra abbondanza e
sempre minore numero. La contraddizione è insanabile e può portare ad un
rovesciamento.
[15] - Cit., p. 32.
[16] - Per questa ipotesi, al momento
poco più di uno spunto interpretativo, si veda “Klaus
Schwab e Thierry Malleret, ‘Covid-19: The Great Reset”.
[17] - L’esperienza rende ancora più
chiaro che il nucleo del potenziale “blocco storico” in grado di contendere
l’egemonia nella sfera pubblica prima, nella società e nell’arena dello stato
poi, al quale bisogna riferirsi non può che essere il variegato e
frammentato mondo delle classi lavoratrici, le più sacrificate dalla forma
attuale del modo di produzione capitalista. Giova qui sottolineare che il
concetto di “classe” che si adopera in questo contesto è di natura
espressamente funzionale. Non ha a che fare con la dotazione di risorse
individualmente possedute, o l’accesso ai consumi, più o meno distintivi
(ovvero dal “ceto”), quanto alla posizione della propria autoriproduzione
rispetto al capitale. Non necessariamente, anche se principalmente, la
posizione che determina l’appartenenza di classe, si cattura nell’esistenza o
meno di “lavoro salariato”. Né, tanto meno, nella figura dell’operaio (ovvero
del lavoratore addetto alla produzione di beni industriali). Il punto è che la
forma, storicamente determinata, del nesso tra lavoro vivo e lavoro
morto, ovvero tra attività lavorative subordinate a mezzi e oggetti del lavoro
stesso, attraversa tutte le molteplici modalità della sua definizione. Riceve
un salario come contropartita della sua relazione funzionale con “lavoro morto”
(ovvero mezzi produttivi e forme totali della produzione dalle quali viene
oggettivato) anche chi apparentemente lavora con partita Iva, è connesso ad una
piattaforma, impegnato nelle varie forme di cottimo, anche iperspecializzate
(anzi, soprattutto, se iperspecializzate). E la relazione funzionale implica
sempre che il capitale (che si incarna nell’insieme dei mezzi produttivi e
del nesso generale che li rende tali) si valorizzi. Questa relazione
implica sempre dipendenza.
Fanno parte della “classe” lavoratrice, dunque, tutti
coloro che si trovano connessi nella forma della remunerazione dietro
prestazione a sistemi produttivi ad essi esterni e nei quali sono sussunti (e
trasformati in oggetti). Ne fanno parte anche se le modalità cooperative che
contraddistinguono il loro lavoro sono mediate da sistemi a maglia larga,
invisibili, altamente tecnologici (è il caso delle cosiddette “piattaforme”, ma
anche di tante modalità più o meno glamour di lavoro a cottimo o frammentato).
Se la segmentazione dell’opera, anche nella iperspecializzazione apparentemente
liberante o autonoma, rende impossibile controllare il proprio “valore” (o,
secondo la formula scelta nelle Tesi, di “fare il proprio prezzo”). Se, infine,
il senso complessivo dell’opera si perde.
Non ne fanno parte non tanto i “ceti medi” (dato che, come detto,
non è questione di “ceto”), quanto coloro i quali traggono la propria
autoriproduzione dal controllo di segmenti di capitale e quindi, nel nesso
essenziale capitale/lavoro che costituisce la forma sociale del modo di
produzione capitalistico, dipendono per la propria esistenza come soggetti
economici dalla permanenza di tale nesso. Ciò anche se la
frazione di capitale è piccola, periferica, subalterna (ad altre).
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