Il
prof Schwab è un ingegnere che ha anche un dottorato in economia alla famosa
Università di Friburgo, in pratica la patria dell’ordoliberalesimo, con un
master in Public Administration ad Harvard, fondatore del Word Economic Forum[1] ed autore di un libro di
grande successo come “The Fourth Industrial Revolution” nel 2016. Si
tratta, insomma, di una persona con un curriculum accademico indiscutibile,
apprezzabilmente interdisciplinare, e di certissima derivazione
ideologica-culturale. Uno dei papi del capitalismo contemporaneo, insomma.
Thierri
Malleret è più giovane, sulle sue spalle sarà caduta la redazione di gran parte
del libro. Si occupa di analisi predittiva (una remunerante specializzazione) e
di Global Risk al Forum. Educato alla Sorbona in scienze sociali e
specializzato ad Oxford in storia dell’economia (master) ed economia
(dottorato). Si è mosso tra banche d’affari, think thank, impegni accademici e
servizio presso il primo ministro francese.
Questo
libro fa parte di una proliferante letteratura. Un tipo di letteratura divulgativa
ed esortativa, molto generica e contemporaneamente molto larga nella visione,
fatta per tradursi in presentazioni da convegno attraenti e stimolanti, dirette
ad un pubblico di manager e imprenditori che hanno bisogno di sentirsi
consapevoli, aggiornati e progressisti con poco sforzo. Una lettura da weekend
sul bordo della piscina.
Una
letteratura quindi di medio successo[2], diretta ad una élite mondiale
ma anche a quel vasto mondo che aspira diventarlo. Ed una letteratura che ha
diversi versanti, quello più aziendalista e quello più statalista, più liberal
e più conservative, più basato sull’economia e più sulle scienze sociali e
politiche. Un esempio di impostazione statalista, liberal e fondata
sull’economico è quella di Mariana Mazzucato in testi come “Il valore di
tutto”[3] (2018), o “Mission
economy”[4]
(2021). In questi due testi, di cui il primo costituisce la base teorica del
secondo, l’economista inglese cerca di rimettere in questione la pretesa
dell’economia finanziarizzata (e concentrata sul “shareholders value”) di
contribuire allo sviluppo sociale in favore di una economia che metta insieme
settore pubblico e privato intorno a “missioni” e sia concentrata
sull’effettiva creazione di valore per tutti gli “Stakeholders”. Nella stessa
direzione, ma con uno scopo più limitato, va il libro di Stephanie Kelton “Il
mito del deficit”[5], che si sforza di
affermare il punto di vista della Teoria Monetaria Moderna (MMT) e per questa
via una “economia per il popolo” che riesca a superare i miti dei limiti alla
spesa pubblica e del debito. Invece della politica monetaria la funzione della
stabilizzazione macroeconomica è affidata, in questa prospettiva, alla spesa
discrezionale per ottenere una economia migliore per tutti. La proposta di
maggiore sostanza è di inserire una “funzione di guida automatica” attraverso
una regola anticongiunturale di assunzione in pubblici servizi altamente
decentralizzati e scelti dalle comunità.
Uno
sguardo più concentrato sull’evoluzione delle tecniche, e rivolto a soluzioni
meno radicali, se pure in direzione di maggiore regolazione (in particolare
della Gig Economy) e protezione dell’occupazione e dei prevedibilmente tanti
nuovi disoccupati, è presente nel libro di Richard Baldwin “Rivoluzione
globotica”[6]
del 2019.
Sguardi
attenti all’economico, ma con una prospettiva piuttosto ampia e socialmente
densa, sono quelli degli ultimi libri di Paul Collier “Il futuro del
capitalismo”[7]
(2018), e di Raghuram Rajan “Il terzo pilastro”[8] (2019), oppure, da una
prospettiva più liberal, di Thomas Piketty “Capitale e ideologia”[9] (2020). Collier identifica
“nuove ansie”, in modo non dissimile da tutti gli altri, e cerca di trovare
soluzioni in una nuova etica da rifondare nel sistema economico e sociale. In
modo non dissimile da Rajan e Fukuyama, l’autore riafferma la necessità di
coesione e identità sociale ma ricerca un modo di riaverla compatibile con le
condizioni di frammentazione e pluralismo della modernità. Paradossalmente la
risposta non è né nella aerea identità mondiale (che si muterebbe in
dispotismo) né nella obsoleta identità statale, ma in quella dei “luoghi”.
Intorno a questo concetto si può anche ricostruire un’etica di impresa nel
rapporto con il territorio e la creazione di una società inclusiva che rimetta
sotto controllo i tre “divari” essenziali: di classe, geografico e globale.
Anche l’ex banchiere centrale indiano ed ex professore di finanza alla Booth
School of Economics di Chicago, Rajan, sostiene la necessità di ritrovare una
via di mezzo (un “terzo pilastro”) tra Stato e mercati ed inquadra in un vasto
discorso storico il diesquilibrio provocato dalla svolta neoliberale che porta
all’affermazione del populismo. Senza dimenticare di allargare a Cina e India
il suo sguardo torna a proporre quindi un “localismo inclusivo” che attribuisca
potere alle comunità e le protegga con una “rete di sicurezza”. Le comunità da
rivitalizzare dovranno essere basate sulla prossimità (come per Collier) e sia
sul sostegno dello Stato come essere dotate di una sovranità responsabile non
indifferente alle responsabilità internazionali. Anche qui per le imprese si
tratta di passare dalla massimizzazione del profitto a quella del valore.
Thomas Piketty, con la sua consueta generosità espositiva, ricostruisce a largo
raggio i “regimi della disuguaglianza” nella storia dell’umanità fino a
giungere a quella che chiama “la società dei proprietari” (anche detta
“capitalismo”). Da questa nella fucina del XX secolo è emersa sia la soluzione
socialdemocratica sia, in seguito, l’“ipercapitalismo”. Il testo, enormemente
lungo e prolisso, si limita in ultima analisi a rilanciare il progetto federale
europeo in senso sociale affinché si sottragga a quella che chiama la “trappola
social-nativista”, e ad avviare il superamento del capitalismo attraverso gli
istituti della “proprietà provvisoria” (per via fiscale) e della deliberazione
aziendale.
Quindi
si possono leggere, in una prospettiva più ampia e sensibile agli assetti
geopolitici in mutamento, i nuovi libri di Branko Milanovic “Capitalismo
contro capitalismo”[10] (2019) e di Francis
Fukuyama “Identità”[11] (2018). Milanovic
distingue le forme idealtipiche del “capitalismo liberal-meritocratico” e del
“capitalismo politico”. Il primo liberale ed occidentale, il secondo orientale
e illiberale (ovvero “comunista”). Nella prefazione la crisi post-Covid è
identificata come causa di tre principali effetti: la recrudescenza dello
scontro tra Usa e Cina (ovvero tra due “capitalismi” nella sua
classificazione); la riduzione delle supply chain mondiali e quindi della
ipermondializzazione; la rivalutazione del ruolo dello Stato nella vita
economica. Da ultimo, Fukuyama, in un libro concentrato sul problema della
crescita dei populisti, evidenzia il bisogno di thymos, riconoscimento,
dignità, identità, dai quali non ci si può sottrarre.
L’impostazione
che danno gli autori di “Covid-19 The Grand Reset” è compatibile con
buona parte di questa letteratura, e non di rado la cita in alcuni passaggi
chiave. Come la Mazzucato propongono di passare dalla cattura del valore per
gli azionisti alla creazione per gli “Stakeholders”, come la Kelton superano
l’ossessione per il deficit pubblico e la paura dell’inflazione, come Baldwin
descrivono gli effetti della transizione tecnologica e la percepiscono anche
come una minaccia davanti alla quale occorre far fronte con più protezione, con
Collier e Rajan hanno in comune l’attenzione al territorio ed ai luoghi, come
alle identità. Temono come Milanovic il protagonismo della Cina e la crescita
dei populismi come Fukuyama.
Tuttavia,
la soluzione che propongono è molto meno centrata sul protagonismo statuale
rispetto alla Mazzuccato ed alla Kelton (con riferimento al piano di
occupazione), è meno localista di Collier e Rajan e su questo molto più in
sintonia con Piketty. Si tratta di una soluzione integralmente elitista
e fondata sul protagonismo delle grandi aziende globali, alle quali
chiedono un deciso cambio di prospettiva e quindi di farsi carico della
responsabilità sociale verso le comunità, e dei relativi oneri. Si tratta, in
un certo senso e sul piano retorico, di una svolta effettiva: la ripresa
della generazione dei beni pubblici intenzionalmente guidata e della
conseguente pianificazione. Ma guidata, e qui c’è tutta la differenza
possibile, dai grandi attori di mercato. Ovvero, in altri termini, pensata per
garantirne la centralità anche dopo il neoliberismo come lo abbiamo conosciuto.
Bisogna
essere attenti, il capitalismo avrà anche un suo “spirito”, ma è capace di
adattarsi a sempre nuovi ambienti, plurale e decentrato, metamorfico. Lontano
dall’essere derivato e diretto dalla tecnica e dall’economico il sistema di
regolazione è sempre essenzialmente fondato su una egemonia[12] e questa porta in
esistenza delle distribuzioni e delle soggettività, nuove istituzioni,
opportunità. La letteratura citata dunque cerca consapevolmente di rigenerare
il capitalismo affinché all’ordine segua l’ordine, ed alla centralità dei
soggetti creati dal sistema di regolazione neoliberale segua quella dei
medesimi (al contempo cambiati). Se la crisi del modo di regolazione
‘fordista’, al calare del millennio, estremizzò e al tempo pervertì gli
elementi di questo[13], allargandoli su scala
mondiale attraverso una potente dinamica di integrazione subalterna (ponendo al
centro nuovi assetti tecnologici e la creazione dell’ordine nel quale viviamo),
qui si tratta di ripetere l’operazione. Estremizzare e pervertire, per
superare/confermare l’ordine sociale esistente e saltare nel prossimo.
Nel
post “Il Proconsole imperiale”[14] avevo compiuto il breve
divertissement di ricordare l’inno all’ordo renascendi di Rutilio
Namaziano[15],
scritto nel 417 d.c. In esso il senatore di origine romano-gallica esprime lo
sforzo terminale di una illustre ed antica cultura politico-istituzionale di
elaborare le strategie necessarie perché i privilegi e le prerogative siano
salvate dal disfacimento. Per rilegittimarsi al governo, ricorda Rutilio ai
suoi pari, bisogna esercitare una frenata potestas, una moderazione, e
risuscitare in tal modo l’entusiasmo ed il consenso popolare intorno a sé, ovvero
intorno alla virtus, al meritum, ai boni. Con il suo
poemetto, in altre parole, cerca di richiamare tutti i membri dell’ordine, i
vecchi come i nuovi, i vari lignaggi, ad una coscienza comune. Quella di
essere, alla fine, la pars melior humani generis. L’unica che può
indicare, in mezzo alle rovine di un mondo che finisce, la “legge della
rinascita”. Ovvero il principio del risorgere dalle proprie stesse rovine.
Come
sappiamo non funzionerà. Dopo sessanta anni, l’ultimo imperatore d’occidente
sarà deposto.
In
“Covid-19: the great reset”[16], i due autori tentano
qualcosa che assomiglia al tentativo della casta senatoria nel tardo Impero
Romano. Con la stessa buona fede e protervia propongono di essere incaricati
dalla società, in quanto clarissimi e boni, di risolvere i
problemi che essi stessi hanno provocato. Un tentativo condotto nella stessa
linea del libro successivo, “Stakeholder Capitalism”, con Peter Vanham,
in uscita in questi giorni[17]. E, peraltro sulla
traccia dei suoi libri precedenti[18] ed in linea con il “Manifesto
di Davos”[19].
L’operazione
ideologica che è tentata in questi testi è di enorme ambizione, non va
sottovalutata. Si tratta di raccogliere la sfida posta dall’evidente, e
non nascosto, fallimento dell’economia neoliberale, eccessivamente concentrata
sul breve termine, sull’arricchimento come rapina invece che come giusto
effetto della creazione di valore, sull’esaltazione delle parti peggiori
dell’uomo, sulla distruzione della natura entro e fuori di esso, per
rovesciarlo in un successo dei medesimi attori. Una vera e propria
rifondazione ideologica dall’alto che è espressamente proposta dalle élite per le
élite di fronte al baratro del conflitto, della perdita di egemonia e di
controllo del mondo e, forse, della rivoluzione (come arriva a dire, cercando
di stimolare il senso di sopravvivenza del capitalismo). Si tratta di un
tentativo di riaggregazione di classe, anche oltre e sopra le differenze e le
fratture geopolitiche in via di allargamento. Una riaggregazione necessaria e
decisiva per ricandidarsi alla gestione da una posizione più salda.
Ci
vuole una straordinaria dose di pazienza per ascoltarli, ma ci proveremo.
Il
libro è strutturato in alcuni “Macro reset” e “Micro reset”.
I
“Macro Reset”, ovvero la risistemazione (che è contemporaneamente un azzeramento,
ed una rimessa a posto) sono insieme economici, sociali, geopolitici,
ambientali e tecnologici. Al contempo i “Micro Reset” riguardano alcune
tendenze come l’accelerazione della digitalizzazione, la maggiore resilienza
delle catene logistiche mondiali, le modifiche nel governo e un nuovo
capitalismo orientato agli interessi (“Stakeholders capitalism”). Ma riguardano
anche una rimessa a posto del sistema produttivo nel suo insieme, con un
drastico processo di de-densificazione e cambiamenti importanti nell’ambiente.
Infine, per gli autori ci sarà un cambiamento antropologico, niente di meno che
la “ridefinizione dell’umanità”, e delle scelte morali. Cosa che porrà in
questione le definizioni della sanità mentale e del benessere stesso. In
definitiva saranno da cambiare interamente le nostre priorità.
Occorre
fare due precisazioni prima di procedere con la lettura: in primo luogo tutta
la ricostruzione è fondata sulla teoria della complessità, organicamente
contraria alla ricerca di nessi e meccanismi causali gerarchicamente ordinati
(di una spiegazione comprensiva). L’effetto è di una sorta di affastellarsi
orizzontale di quadri interpretativi e di fenomeni. Dichiaratamente
interdipendenti, e soggetti al primato della velocità. Chi volesse cercare
l’esplicazione di una qualche legge di sviluppo, o di una teleologia resterebbe
quindi deluso.
La
seconda precisazione, necessaria per non leggere in modo sbagliato le
previsioni contenute nel libro, è che sono, appunto, previsioni, non
prescrizioni. Molte delle conseguenze più gravi e distruttive dell’evento
pandemico sono semplicemente descritte, gli autori non necessariamente le
giudicano positive o le desiderano. In effetti non si impegnano a farci
comprendere fino a che punto le giudichino in ultima analisi positive (anche se
in alcuni casi si può supporre sia così, perché ogni descrizione è sempre
almeno in parte normativa), perché il loro punto è strettamente un altro: che
fare?
Tenendo
conto di ciò la crisi del Covid-19 è essenzialmente interpretata come un
potentissimo acceleratore di dinamiche disparate, se pure intrecciate. Se si
parte dalla risistemazione tecnologica l’enfasi passa sull’accelerazione
delle trasformazioni digitali ed i cambiamenti nei consumi e nella regolazione.
Invece, se si muove dall’azzeramento (certo creativo) economico il
Covid-19 introduce elementi di incertezza (tra i quali la scelta tra salvare le
vite e l’economia) nel nesso tra crescita economica e occupazione, politiche
monetarie e fiscali, alternativa tra deflazione ed inflazione, destino del dollaro
americano. Dalla risistemazione sociale si muove dall’attuale
ineguaglianza verso un nuovo contratto sociale e la ripresa del “big
goverment”. Sul piano geopolitico si tratta di muoversi nella crescita della
rivalità tra Usa e Cina, oltre che la tendenza ad una nuova regionalizzazione.
E per l’ambiente affrontare i rischi pandemici e dell’inquinamento, mettendo
insieme per l’avvenire le politiche ambientali e quelle pandemiche.
Questa
è la mappa del libro.
Insomma,
in poco meno di 300 pagine il testo cerca di dare una sintetica immagine del
mondo e del suo destino, alla portata di un weekend di un manager o politico
medio. Si parte dalla qualifica di crisi senza paralleli[20] nella storia moderna
attribuita alla dinamica mondiale attivata dal coronavirus, e dalla chiara
enunciazione, fatta a giugno 2020, del fatto che la pandemia è intervenuta ad
accelerare linee di faglia, fallimenti di cooperazione, che non torneranno mai
più al loro posto. Il mondo di domani sarà quindi necessariamente e completamente
diverso dal mondo di ieri. Avremo due ere, “prima del coronavirus” (BC) e “dopo
il coronavirus” (AC). Quindi “The Great reset” è, con le parole degli
autori, “un tentativo di identificare i cambiamenti futuri e di apportare un
modesto contributo a delineare ciò che potrebbe assomigliare alla forma più
desiderabile e sostenibile di questi”[21].
La
proposta degli autori è di mettere a fuoco un framework concettuale
semplificato che aiuti a riflettere in questa situazione di estrema tensione e
disordine per creare senso in essa (“making sens of it”). L’obiettivo è
dunque esplicitamente politico.
I
cambiamenti sistemici che propongono di considerare drasticamente accelerati
dalla crisi pandemica sono i seguenti, e tutti già in corso:
-
La ritirata parziale dalla
globalizzazione,
-
La crescente separazione tra le economie
di Usa e Cina,
-
L’accelerazione dell’automazione,
-
Le preoccupazioni per la crescente
sorveglianza,
-
Il nazionalismo e la paura per
l’immigrazione,
-
Il crescente potere della tecnologia.
Il
punto è che queste accelerazioni potrebbero rendere possibili cose prima
inconcepibili, come forme di politica monetaria (helicopter money e MMT), il
cambiamento delle priorità sociali, radicali forme di tassazione e di welfare, drastici
riallineamenti geopolitici. Potrebbero, anzi dovrebbero. Se non lo faranno si
andrà incontro ad una fase di torbidi, di conflitti, forse di guerre e di
rivoluzioni.
Vediamo
meglio, però, la dimensione Macro della ‘risistemazione’.
Per
cominciale viene esplicitato il framework ideologico: il mondo del XXI secolo è
segnato essenzialmente dalla “interdipendenza”; prodotta dalla
globalizzazione e dal progresso tecnologico essa viene definita testualmente
come “reciproca dipendenza”, anzi, per essere proprio precisi, come una
“dynamic of reciprocal dependence among the elements that compose a system”[22]. Dunque, il mondo è
orizzontale, concettualmente attraversato da dipendenze, che, però, mettono
tutti sullo stesso piano. Un “sistema” nel quale le parti non possono fare le
une a meno delle altre. Quindi “iperconnesso”, “concatenato”. Insomma, nel
quale sono “tutti nella stessa barca”.
Potrebbe
sembrare ovvio e non problematico (se si sceglie di non far caso a che si
tratta di una nave per la tratta degli schiavi, e la maggioranza dei passeggeri
sono in catene).
È
chiaro che se si segue pacificamente l’immagine della “stessa barca” e dei
felici passeggeri di 193 “cabine separate”, allora i rischi diventano tutti
interconnessi, sistemici, orizzontali, interdipendenti.
È
in questa specifica mossa, posta all’avvio del libro e inavvertita quasi, che
si radica l’invito di affidamento all’ordine capitalista, ed ai suoi migliori
campioni, le grandi imprese raccolte a Davos (ed altrove). Come proponeva Quinto
Aurelio Simmaco, ideologo nella stessa linea di Rutilio Namaziano e negli
stessi anni, mentre l’impero si apprestava a cadere ed era pieno di ‘barbari’,
i nobili clarissimi, membri dell’Ordo, erano “la luce del mondo” e per questo
autorizzati a gestire il governo degli altri uomini. Non era dal potere
politico (in quel caso imperiale, nel nostro nazionale) che derivava la virtus,
ma dall’investitura dei pari e dalla tradizione stessa. Ma, qui l’astuzia della
costruzione ideologica: non si tratta di avere solo il diritto a
governare (come vuole in fondo il neoliberismo rozzo nel quale siamo stati fino
ad ora) ma anche il dovere. L’intero discorso di Schwab si muove su
questa antica traccia: la virtus è un dono che non può restare infruttuoso.
Nessun disimpegno è ammesso, c’è una identità profonda tra il bene collettivo e
la responsabilità e capacità del sistema delle grandi imprese di conseguirlo.
Lo “Stakeholders capitalism”, appunto. Saranno loro, direttamente, a
doversi fare carico dei beni pubblici da distribuire, dei giochi da
organizzare, della coesione, del controllo, e della pace.
Dicevamo
che siamo su una nave negriera che, purtuttavia, viene descritta dai nostri
come se fosse un transatlantico nel quale (è vero) ci sono cabine di prima e
seconda classe, e talvolta dei disordini, ma anche una salda guida che deve
solo riconoscersi come tale per far andare tutto al suo posto. Riconoscersi
come guida significa, necessariamente, accoglierne la responsabilità.
Ciò è tutto.
O
meglio lo sarebbe, se non fosse che in questo modo della situazione nel quale
il mondo è si perde l’essenza: si perdono le catene da rompere.
In
fondo tutto dipende da pochi slittamenti di senso, da alcuni incroci nei quali
si forma la coesione di senso del nuovo paradigma.
Uno
di questi è che la dipendenza[23]
di tanta parte del mondo da poca altra, e dei molti dai pochi, è riletta dagli
autori come “interdipendenza”. A tal fine viene fatto uso del cosiddetto
pensiero della complessità. Per Schwab ed il suo coautore il primo fattore di
analisi è dunque prendere atto che la “interdipendenza” orizzontale invalida
il pensiero a “silo”, capace solo di dividere i singoli problemi in
compartimenti specialistici. Nell’esempio che fa il libro, i disastri infettivi
hanno effetti diretti sui “fallimenti della governance globale”, sull’instabilità
sociale, la disoccupazione, le crisi fiscali e le migrazioni involontarie. E
ognuna di queste aree di crisi ne influenza altre nelle dimensioni economiche,
societarie, geopolitiche, ambientali e tecnologiche.
Il
secondo fattore caratterizzante è la “velocità”. La cui prima
espressione è il 52% della popolazione mondiale oggi collegata ad internet, il
miliardo e mezzo di smartphone, i 22 miliardi di device connessi con la Iot.
Tutto, perciò, si muove più velocemente, incluse le infezioni, e come risultato
tutti operiamo ormai in una “real-time society”, in una nuova cultura
dell’immediatezza, ossessionata dalla velocità, che apparentemente fornisce
tutto just-in-time. Una vera e propria dittatura dell’urgenza. Che (anche qui
fa capolino l’ideologia) rende ancora più evidente lo scollamento con la
lentezza della decisionalità pubblica. Secondo decisivo slittamento e cerniera.
Il
terzo è la “complessità”. Ovvero “ciò che non capiamo o troviamo
difficile capire”, ovvero (come voleva Simon), “un insieme fatto di un gran
numero di parti in interazione in modo non semplice”. Parti nelle quali non ci
sono collegamenti causali visibili tra gli elementi, e che sono quindi virtualmente
impossibili da predire. Un esempio è ovviamente la pandemia stessa, che è
un sistema adattivo complesso composto di molte differenti componenti o
frammenti di informazione (in campi che vanno dalla biologia alla psicologia).
Un sistema dunque difficilissimo da prevedere e nel quale ogni parte si
interconnette con tutte le altre secondo una logica ricorsiva e quindi oscura. Un
sistema molto più grande della somma delle sue parti. Dunque, il punto
fondamentale è che “la complessità crea limiti alla nostra conoscenza e comprensione
delle cose” fino a che potrebbe soverchiare la capacità dei decision maker
di prendere decisioni ben informate. È per questo che, in profonda continuità
con l’ispirazione più profonda della ideologia neoliberale, la soluzione dei
problemi non è la ripresa del potere statuale, della democrazia popolare, o del
primato delle leggi sugli interessi individuali, ma lo “Stakeholders
capitalism”. Ovvero è la rinnovata centralità, ma nella responsabilità,
dell’ordine delle imprese (grandi), rilette come primarie fornitrici di beni
pubblici. Beni pubblici che queste possono creare e distribuire in fondo
proprio perché decentrate, complesse, informate (ognuna dei suoi specifici
stakeholders).
Abbiamo
quindi una lettura della situazione informata all’obiettivo di essere semplice
e desiderabile, che sceglie di leggere il mondo sotto la triplice lente di una
interdipendenza orizzontale, della velocità e della complessità. Che lo pensa
decentrato, libero, imperniato su un ordine di “boni” e di “clarissimi”,
chiamati al governo dalla loro stessa “virtù”.
Ma
vediamo ora quale è la situazione, quali i “Reset” (ristrutturazioni, messe al
loro posto, azzeramenti).
I
reset economici
Ci
sono quindi le ristrutturazioni, risistemazioni, messe a posto e azzeramenti
(tutto insieme) di tipo economico.
Secondo
alcune analisi recenti gli effetti sulla crescita economica si faranno sentire
per almeno 40 anni, e non andrà come le altre volte (nelle quali alla fine
l’elevata mortalità cambiò i rapporti di forza in favore dei lavoratori),
perché la tecnologia cambierà il mix. Inoltre, come ha detto Jin Qi (un
importante scienziato cinese), questa epidemia tenderà a restare e coesistere
per lungo tempo, diventando stagionale. Né ha veramente senso il presunto
trade-off tra salute ed economia: comunque se non si risolve il problema le
persone non torneranno alla loro vita precedente, dunque “il governo deve fare
tutto quel che è necessario, spendendo tutto quel che costa negli interessi
della nostra vita e salute collettiva per riportare l’economia alla
sostenibilità”[24].
Nello
svolgere la ricostruzione dei massivi impatti dell’epidemia (al giugno 2020),
gli autori finiscono per concentrarsi anche sull’impatto della tecnologia sul
mondo del lavoro. È chiaro che l’automazione è distruttiva, ma nel tempo
incrementa la produttività e la ricchezza, che alla fine provoca una maggiore
domanda di beni e servizi e quindi nuovi tipi di lavori che riassorbono la
disoccupazione. È corretto, scrivono (si tratta in fondo della cara vecchia
Legge di Say), ma in quanto tempo? Inoltre, la pandemia stessa, e le sue misure
di distanziamento sociale, ha accelerato enormemente questi processi di
distruzione. Processi che, di necessità, provocheranno centinaia di migliaia, o
milioni, di lavori persi. L’analisi degli autori è sotto questo profilo ormai
standard[25]:
man mano che i consumatori preferiscono servizi automatizzati ai loro omologhi
faccia-a-faccia quel che accadrà ai call center si estenderà. Il processo di
automazione, che non è mai lineare, subirà un salto in corrispondenza della
recessione economica, e sempre più imprese messe alle strette cercheranno di
aumentare la produttività (intesa come rendimento per unità di capitale
investito), sostituendo i lavoratori a bassa competenza con l’automazione. I
lavoratori a bassa competenza impegnati in lavori di routine (nella manifattura
come nei servizi, la ristorazione o la logistica) ne saranno dunque colpiti. Il
mercato del lavoro si polarizzerà tra pochi lavoratori ad alte competenze e
salari e tutti gli altri. Nel futuro più remoto, invece, potremmo assistere a
ondate di nuova occupazione in modi e forme oggi non prevedibili.
Nell’era
post-pandemia la nuova normalità economica potrebbe essere quindi caratterizzata
da una crescita più bassa, con declino della popolazione in molti territori e
nazioni. In queste condizioni per gli autori dobbiamo cogliere l’occasione di
avere una “pausa di riflessione” e introdurre modifiche istituzionali e delle
scelte politiche. Come avvenne dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando fu
promossa la Conferenza di Bretton Woods e si espanse in Europa il Welfare
State. A questo punto l’analisi si sposta decisamente verso la dimensione
utopica. Si immagina che le “nuove norme sociali” possano superare l’ossessione
della mera crescita quantitativa registrata dal Pil, in favore di una crescita
fondata piuttosto su fattori intangibili come il rispetto per l’ambiente, la
responsabilità sociale, l’empatia e generosità. In questo contesto i nuovi
driver di crescita, in grado di riattivare il sistema economico in un
“inclusivo e sostenibile dinamismo”, potrebbero essere, per gli autori, la green
economy (energie green, ecoturismo, economia circolare), e le varie forme
di economia sociale che crei lavori nei settori dei servizi alle
persone, educazione e salute.
In
una sezione del libro che non sembra affatto diversa da quanto proposto, come
abbiamo visto, nel recente libro di una delle figure di punta della MMT,
Stephanie Kelton, “Il mito del deficit”[26], Klaus Schwab ed il suo
coautore dichiarano che nella fase post-pandemica saranno necessarie “decisive,
massive e rapide” politiche fiscali e monetarie. Cosa che, del resto, è
avvenuta immediatamente dopo l’avvio della emergenza sia con riferimento alle
politiche monetarie (acquisti di titoli da parte delle Banche Centrali), sia a quelle
fiscali (supporti alle imprese ed ai cittadini, e forme senza precedenti di
versamenti diretti sul conto corrente di milioni di loro). La sostenibilità a
breve termine di questa enorme espansione di spesa pubblica è stata garantita
dall’intervento delle Banche Centrali al fine di contenere il costo degli
interessi sul debito. È stata quindi abbattuta la barriera “artificiale” tra
gli interventi delle Banche Centrali e quelli fiscali, e sono emerse anche
ipotesi teoriche che sistematizzano questo approccio. Tra queste gli autori
citano la MMT e la pratica dell’helicopter money[27]. Del resto in condizioni
di interessi vicini allo zero le normali politiche monetarie sui tassi di
interesse sono disattivate, quindi non restano che gli stimoli indiretti ai
deficit fiscali intenzionali. In questi semplici termini (e semplicistici a
diretta ammissione) secondo gli autori la MMT direbbe che il governo centrale
può spendere emettendo debito che le Banche Centrali compreranno. Il deficit sarà
quindi monetizzato e il governo potrà usare le risorse come vuole, senza
preoccuparsi in prima battuta della copertura fiscale delle spese.
Il
rischio è però che un governo che abbia in questo modo “l’albero dei soldi
magico” possa stimolare involontariamente la partenza di un’inflazione fuori di
controllo. In altre parole, il QE perpetuo potrebbe esserne una causa e
l’helicopter money uno dei veicoli di trasmissione. La ragione addotta è che
non ci sono limiti teorici a quanto denaro una Banca Centrale può creare, solo
il limite dopo il quale la reflazione diventa inflazione. Potrebbe essere una
minaccia, ma non è all’agenda oggi. Per ora abbiamo la prevalenza di impulsi
deflazionari, creati potentemente e strutturalmente dalla tecnologia e dal
tendenziale invecchiamento (entrambi per natura deflazionari) e
dall’eccezionalmente alto tasso di disoccupazione. Tutte dinamiche che il clima
post-pandemico esaspererà. Quindi nei prossimi anni ci dovremmo trovare in
condizioni simili a quelli del Giappone negli ultimi venti anni: debolezza
strutturale della domanda, inflazione molto bassa, e interessi ultra-bassi.
Condizioni nelle quali, a dire il vero, il Giappone ha reagito con efficacia
per gli autori.
Un
altro fattore della situazione potrebbe essere il declino della centralità del
dollaro, anche esso in corso da molto tempo. Cosa che potrebbe essere
accelerata dalla tendenziale insostenibilità della spesa pubblica americana (le
sole medicare, medicaid e social security ammontano, senza spese militari ed
altri investimenti, al 112% delle tasse federali riscosse). Del resto a breve
termine non ci sono alternative, non la moneta cinese, fino a che non
liberalizzerà i controlli sui capitali, non l’euro, che è sempre sotto minaccia
di dissoluzione, non un paniere di monete, ancora sperimentale.
Il
“reset” sociale.
A
questo punto il libro inizia a trattare le ristrutturazioni sociali.
Ed
anche qui il canovaccio interpretativo è il medesimo: la pandemia interviene
esacerbando i problemi preesistenti, e determinati in particolare dalle ineguaglianze,
dalle difficoltà di azione dei governi e dalla disgregazione sociale. Ci sono
state risposte molto diverse anche in paesi simili, in funzione dell’organizzazione
preesistente, della rapidità delle decisioni, dei costi e ampiezza del sistema
sanitario, la fiducia nella politica, il senso di solidarietà interna. Quindi,
per Schwab, il periodo post-pandemico causerà, probabilmente, “un periodo di
massiva redistribuzione della ricchezza verso i poveri e dal capitale al
lavoro. In secondo luogo, il Covid-19 suonerà la morte del neoliberalismo,
un corpo di idee e politiche che possono grosso modo essere definite come volte
a favorire la competizione sulla solidarietà, la distruzione creativa
sull’intervento dei governi, e la crescita economica sul benessere sociale”[28]. Una teoria che è stata
sotto attacco per molti anni, e qualificata come “feticismo del mercato”, ma
che per gli autori riceverà ora il coup de grace. Non a caso i due paesi
che hanno subito più perdite sono anche quelli che lo guidavano (Uk e Usa).
La
pandemia ha, del resto, esacerbato tutte le ineguaglianze preesistenti e può
essere al momento chiamata come “un grande divisore (unequalizer)”, che rende
ancora più insopportabile la tensione. Inoltre, ha reso più stridente la
contraddizione tra i lavoratori più necessari (infermieri, operatori di
logistica, alcune classi di operai) e il semplice fatto che si tratta anche dei
meno pagati e dei più esposti al mercato. Quelli che vedono sistematicamente
più a rischio il loro lavoro. Come dicono gli autori in Uk, ad esempio, il 60%
dei lavoratori nel settore di cura operano con contratti-zero-ore e quindi sono
i più esposti e meno pagati.
Ora
nell’epoca post-pandemica queste ineguaglianze sociali si incrementeranno nel
breve termine, tuttavia nel periodo successivo il vasto senso di oltraggio
renderà queste dinamiche non più a lungo politicamente accettabili e si imporrà
un ridisegno. Ciò anche a causa dei disordini sociali che nel prossimo futuro
saranno esacerbati dall’estensione della povertà e disoccupazione, oltre che
dei disordini razziali (il libro è scritto poco dopo la morte di George Floyd).
Tutto
ciò provocherà “il ritorno del ‘big’ governement” (come noto formula
simbolica dell’espansione del welfare jhonsoniano). In questa situazione si fa
fatica a pensare che si possano affrontare i problemi con soluzioni
integralmente marked-based, quindi il delicato bilanciamento tra pubblico e
privato si sposterà in favore del primo. È stato rivelato che nell’assicurazione
sociale non è efficiente affidare la responsabilità dei migliori interessi
sociali al mercato. Emerge perciò un’idea che era anatema solo pochi anni fa:
che affidare gli interessi pubblici alle economie che corrono da sole senza
supervisione può avere effetti devastanti. Dalla formula della Thatcher si
passa perciò a quella della Mazzucato “non il profitto ma la partnership dei
fondi pubblici con il business è la molla dell’interesse pubblico”[29]. Per Schwab accadrà
qualcosa come quel che avvenne negli anni 30, il governo deciderà di riscrivere
le regole del gioco permanentemente, non tollerando massiva disoccupazione e
insicurezza sociale. Si avrà un massivo potenziamento dell’assicurazione
sociale, dei benefici alla disoccupazione, la retrocessione del “shareholder
value” (valore degli azionisti) e la messa in primo piano dello “stakeholder
capitalism”, la riduzione della finanziarizzazione, l’affermazione di misure
per rendere illegale il buy-back azionario, nazionalizzazioni, riforme fiscali,
ricerca pubblica. Tutte cose messe in evidenza anche da Joseph Stiglitz[30].
Insomma,
quello che gli autori propongono di considerare è una completa
riconsiderazione del contratto sociale. Quello attuale, ossessionato dal
rischio della crescita dell’inflazione, ha generato un senso diffuso di
esclusione e marginalizzazione, e un sentimento di ingiustizia. Quel che
bisogna fare è adattare il welfare state alle nuove condizioni e rafforzare le
persone (empowering) e responsabilizzarle a domandare un contratto sociale
giusto. La pandemia accelera questa transizione, e cristallizza la scelta
rendendo impossibile il ritorno allo status pre-pandemico sotto questo profilo.
Che
forma prenderà questo nuovo contratto sociale? Non ci sono soluzioni uniche,
perché dipendono dalla storia dei singoli paesi, un “buon” contratto per la
Cina è diverso da uno per gli usa, la Svezia o la Nigeria. Ma l’assoluta
necessità postpandemica renderà indispensabile avere una forte, se non
universale, assistenza sociale, sanità pubblica e servizi di base; una rafforzata
protezione per i lavoratori (ad esempio per i lavoratori della gig-economy,
nei quali gli impiegati a tempo pieno sono sostituiti da contractor e
freelancers). Un altro aspetto critico illustrato dagli autori è il rischio
della società della sorveglianza, anche in questa direzione saranno
necessarie regole pubbliche e discussione pubblica.
Il
“Reset” geopolitico
Ancora,
un’altra dimensione del “reset” sarà geopolitica.
La
pandemia interviene su una situazione nella quale il vuoto di governance
globale e la crescita di varie forme di nazionalismi stavano aprendo un vuoto.
Si prefigura quindi il rischio concreto di un’anarchia post-pandemica nella
quale varie forme di rampante nazionalismo si confrontano nel progressivo
riequilibrio in corso tra est e ovest. Gli autori citano in proposito la
cosiddetta “trappola di Tucidide”[31]. Il problema è il venire
meno del “bene pubblico globale” della “egemonia” americana (controllo delle
vie di mare, lotta al terrorismo, …), senza che vi sia un sostituto. Entreremo
dunque in una “età dell’entropia” nella quale si affermeranno intense
lotte per l’influenza e tensioni non mosse dalla ideologia (con l’eccezione
dell’Islam) ma dal nazionalismo e dalla competizione per le risorse. Insomma,
una era di “deficit di ordine globale”. Gli scenari plausibili vanno
dalla guerra tra Cina e Usa, all’implosione e fallimento degli stati o
petrostati, fragili, la possibile disgregazione della Ue. Quattro questioni
sono in particolare sottolineate, in relazione all’accelerazione determinata
dalla crisi pandemica ma sulla base di dinamiche in corso: l’erosione della
mondializzazione; l’assenza di governance globale; l’incremento della rivalità
tra Usa e Cina; la caduta di fragili e fallimentari stati.
La
globalizzazione, in primo luogo, secondo il loro racconto
era una vaga nozione che si riferiva allo scambio globale tra nazioni di beni,
servizi, persone e capitali e di dati. Essa ha portato centinaia di milioni di
persone fuori della povertà, ma da parecchi anni hanno cominciato a prendere il
centro della scena i contraccolpi politici e sociali determinati dai costi
asimmetrici (in particolare in termini di disoccupazione nel settore
manifatturiero nelle zone ad alti salari). Ora, l’opinione degli autori in
merito è netta: l’economia mondiale è così interconnessa che la
mondializzazione non può finire, ma è possibile che rallenti ed anche che si
inverta. L’epidemia ha fatto proprio questo, il rischio ha comportato
limitazioni, controlli dei confini, protezionismi e il rischio della ripresa di
varie forme di nazionalismo. Come mostrò il “trilemma di Rodrik”[32] la democrazia è
possibile, in associazione con gli stati nazionali (ovvero quella che
conosciamo e l’unica di fatto esistente) solo se la mondializzazione viene
contenuta. Per contrasto, ricordano gli autori, la mondializzazione e gli stati
nazionali sono possibili in coesistenza solo se non c’è democrazia. Infine,
democrazia e mondializzazione presuppongono la scomparsa degli stati nazionali
indipendenti (ovvero una qualche forma di impero mondiale). L’Unione Europea è
stata spesso utilizzata come modello ed esempio della pertinenza del modello
concettuale. Combinare l’integrazione economica con la democrazia implica che
molte decisioni essenziali sono prese a livello sopranazionale, rompendo la
sovranità del livello sottostante. Nel contesto attuale, quindi, il ‘trilemma’
suggerisce che “la globalizzazione deve necessariamente essere contenuta se noi
vogliamo conservare qualche sovranità nazionale o qualche democrazia”[33]. La crescita dei
nazionalismi rende il ritiro della globalizzazione dunque inevitabile in
gran parte del mondo e mostra che il rigetto della globalizzazione da parte
degli elettori “è una risposta razionale quando l’economia è forte e
l’ineguaglianza alta”.
La
forma più visibile di progressiva deglobalizzazione è nel suo “reattore
nucleare”: le global supply chain. L’accorciamento o la rilocalizzazione
delle catene di fornitura sono incoraggiati da: 1) il fatto che il business
vede che esiste un trade-off tra resilienza ed efficienza in esse; 2) la
pressione politica che va dalla destra alla sinistra.
Chiaramente
il completo ritiro delle supply chain globali comporterebbe la necessità di
ciclopici investimenti pluriennali per ristrutturare interamente e potenziare
le infrastrutture, porti, linee ferroviarie, nuove aree industriali, come sta
facendo peraltro il governo giapponese che ha accantonato 243 miliardi per le
operazioni di uscita dalla Cina delle sue imprese. Il più probabile scenario è quindi
intermedio: la regionalizzazione. La creazione di molteplici e
parzialmente separate aree di free trade, sul modello europeo, come del resto è
in corso da tempo. Il Covid accelera infatti la divergenza tra Nord America,
Europa ed Asia, incoraggiando tutti a guadagnare una sorta di auto-sufficienza
interna, e ridurre l’intrico delle supply chain mondiali. Che forma prenderà
tutto questo? Potrebbe anche andare male, ripetendo il cammino della storia
nella quale un ciclo di antiglobalizzazione si impose, per gli autori, negli
anni trenta, come risultato della Grande Depressione, danneggiando le maggiori
economie.
Lo
scenario della ripresa del nazionalismo non è comunque inevitabile ma bisognerà
aspettarsi, per un certo numero di anni, una tensione essenziale tra le forze
del nazionalismo e quelle dell’apertura lungo tre dimensioni critiche: le
istituzioni globali, i commerci e i movimenti di capitale. Complessivamente
nei prossimi anni sarà quindi inevitabile che qualche grado di
deglobalizzazione avvenga, spinta dalla crescita del nazionalismo e della
frammentazione internazionale. Questo non significa che sia meglio ripristinare
lo status quo ex ante (l’iperglobalizzazione, per gli autori, è caduta di
fronte ai suoi costi sociali e politici e non è più difendibile politicamente) ma
solo che è importante limitare la possibile caduta verticale e libera della
stessa, cosa che secondo loro comporterebbe danni maggiori e sofferenze
sociali. Una ritirata totale dalla globalizzazione provocherebbe infatti guerre
commerciali e militari, danni a tutte le regioni economiche, inoltre crisi
sociali e scontri etnici o nazionalismi difensivi. La situazione richiede perciò
azioni immediate ed energiche, nelle conclusioni proveranno a dire come. Questo
è uno degli snodi chiave della costruzione egemonica ed ideologica tentata: si
deve agire per evitare il peggio per tutti, e tocca a “noi”.
Chiaramente
il processo di deglobalizzazione rende anche più difficile la “global
governance”, ovvero il “processo di cooperazione tra attori internazionali
animato dall’obiettivo di provvedere a risposte ai problemi globali”. Include
nella definizione la totalità delle istituzioni (pubbliche e soprattutto
private), politiche, norme, procedure e iniziative attivate attraverso le
diverse nazioni per rendere prevedibile e stabile il cambiamento. Ciò, in
particolare dopo la crisi Covid, è reso più difficile dal conflitto tra gli
imperativi locali, che sono a corto-termine, e i cambiamenti globali a lungo
termine. Nulla come la reazione alla crisi pandemica lo mostra con maggiore
evidenza, ognuno si è battuto da solo e tutti hanno cercato di salvarsi per
primi, chiudendo agli altri le frontiere, sequestrando i flussi di passaggio di
materiale medico, etc. Parte di questo scenario è dato dal conflitto
crescente tra Usa e Cina (che, però, non è del tipo di quello tra gli Usa e
l’Urss, perché ad opinione degli autori questa non cerca di imporre la sua
ideologia al mondo). Secondo il citato Wang Jisi le relazioni sono al loro
peggio dal 1979 e il disaccoppiamento economico e tecnologico è ormai
“irreversibile” e volto a dividere il sistema globale in due parti (come
avverte anche Wang Huiyao, Presidente del Centro per la Cina e la
Globalizzazione di Beijing). Ovviamente per analizzare questa situazione
bisogna ricordare che i due punti di vista cinese e americano sono influenzati
in modo decisivo dalla loro storia e dalla posizione che riveste in essa alcuni
fatti cruciali, per i cinesi l’umiliazione ottocentesca e per gli Usa la loro
posizione di preminenza nel dopoguerra. Ma anche sapere che la pandemia ha
avvantaggiato la Cina perché il virus rende inefficace il vantaggio americano
di tipo militare (che è al momento insuperabile). Ha fatto quindi prevalere il
“soft power” cinese, più efficace per combattere la pandemia ed ha inoltre esposto
aspetti della società americana scioccanti come il fallimento sanitario o il
razzismo. Inoltre, la Cina è stata in primo piano nell’inviare soccorsi, come
ha ricordato Kishore Mahububani. D’altra parte, gli Usa hanno ancora fattori
strutturali di forza altamente dominanti, dal sistema universitario al vertice
mondiale, alla preminenza del dollaro. Il confronto è quindi aperto ed incerto.
Il
reset ambientale
Un
altro settore nel quale possono essere individuate delle risistemazioni
cruciali è l’ambiente.
Apparentemente
si tratta di una relazione lasca, ma anche qui i rischi sistemici (in prima
istanza geopolitici, sociali e tecnologici) si ripercuotono molto velocemente
in un mondo altamente interconnesso, e, inoltre, producono relazioni e risposte
non lineari che sono difficili, se non impossibili, da prevedere. Una delle
differenze è che la pandemia richiede risposte immediate e si vede quindi bene
la relazione causale, cosa che non avviene per la sfida principale del
riscaldamento climatico. Tuttavia, per gli autori la causa è comune, al fondo
la pandemia è causata da una disastrosa zoonosi, la quale è stata resa più
probabile dall’insieme del cambiamento climatico e dall’estensione delle
attività umane dovuta alla ipermondializzazione. Gli autori citano l’ormai
classico “Spillover”[34] e la lettera al Congresso
Usa nella quale più di cento gruppi ambientalisti e di protezione della
biodiversità segnalavano come negli ultimi cinquanta anni i disastri causati da
zoonosi siano quadruplicati. E indicavano l’agricoltura responsabile di almeno
la metà di questi. Ma ci sono anche evidenze, sostiene il libro, di una
relazione tra l’inquinamento dell’aria e i rischi pandemici variando il livello
di letalità e, tramite altri meccanismi, la relazione tra le aree più inquinate
e quelle a maggiore tasso di mortalità da Covid. D’altra parte, è stata
registrata una diminuzione delle emissioni climalteranti in relazione agli
arresti delle attività, la quale, tuttavia, non è stata sufficiente neppure con
un terzo della popolazione chiusa in casa.
Dunque,
è necessario un cambiamento strutturale del modo di produrre energia e dei
comportamenti di consumo. Per queste ragioni la pandemia dominerà anche questa
agenda nel prossimo futuro. Il prossimo UN Cop-26 (poi rinviato a questa
estate) dovrà scegliere tra due possibili narrative: secondo la prima la crisi
è così grave che conviene mettere da parte per un poco le misure climatiche e
cercare di spingere con tutti i mezzi possibili la ripresa; la seconda cercherà
di cogliere l’occasione per rilanciare le due agende insieme. Questa seconda è
la direzione presa da alcuni decision-maker influenti che propongono la
transizione energetica come occasione per un nuovo e massivo ciclo di
investimenti occasionato dalla stessa crisi pandemica e dalla necessità
stringente di rispondervi con massive politiche fiscali. In altre parole, se si
deve investire per far ripartire il sistema economico conviene farlo partire in
altra direzione, risolvendo i problemi pregressi climatici.
Il
“Reset” tecnologico
Infine,
avremo un rimescolamento ed accelerazione drastico nel settore tecnologico.
Su
questo terreno gli autori ricordano la pubblicazione nel 2016 del libro “La
quarta rivoluzione industriale”[35]. Da allora i cambiamenti
tecnologici sono stati sorprendentemente veloci, giustificando la diagnosi di
un cambiamento epocale in arrivo. AI, volo dei droni, traduzioni simultanee, i
device mobili che diventano sempre più parte della nostra vita personale e
professionale. L’automazione ed i robot che stanno penetrando nella produzione
e nel business in modo sempre più accelerato. L’innovazione nella genetica e
nella biologia sintetica che è sempre più vicina al nostro orizzonte. Tutto
questo sarà accelerato dalla pandemia, che catalizzerà nuove tecnologie e
“turbocambierà” ogni business digitale o dimensione digitale dei business
esistenti. La trasformazione digitale vedrà la pandemia come potentissimo
catalizzatore. In questi mesi di blocco forzato delle attività milioni di
persone sono state costrette dalle circostanze a mutare le proprie abitudini,
collegarsi in remoto, farsi portare i pasti, consegnare le merci, etc… per
Schwab quando l’emergenza terminerà molte cose torneranno, dato che siamo
animali sociali, ma alcune pratiche si saranno consolidate (in fondo è
molto più economico e facile fare una riunione con zoom, magari tra quattro o
cinque città diverse, che non viaggiare per incontrarsi una mattina). Questa
trasformazione ha con l’occasione superato di slancio anche i rallentamenti che
i regolatori avevano fino ad ora posto a molte tecnologie (pensiamo ai diritti
di volo con i droni, o la resistenza alla telemedicina).
Parimenti
nel mondo economico sarà spinta sempre di più l’automazione e tutte le forme
di telelavoro (il cosiddetto “smart-working”); ciò tanto più quanto i
collegamenti fisici potrebbero essere resi più difficili dalla frammentazione
del contesto della mondializzazione. Sarà quindi avviato un ciclo di
“turboadozione” in moltissimi settori; Jd.com e Alibaba, giganti
dell’e-commerce cinesi, sono ad esempio convinti che nell’arco di dodici mesi
la consegna dei pacchi sarà integralmente automatizzata. Una grande attenzione
bisognerà prestare anche alla robotica industriale ed al machine learning. I
cosiddetti Robotic Process Automation (RPA) favoriranno la creazione di
aree di business più efficienti e in grado di rivaleggiare sempre di più con i
lavoratori umani.
Ma
una lezione che viene dall’est è che una efficiente metodologia,
tecnologicamente assistita, di contact tracing è un potente fattore di
successo contro il Covid-19. Mentre la sua efficacia è dimostrata, al contempo
pone acuti problemi di privacy. Per cui al di là di Cina, Hong Kong, South
Corea, che hanno imposto direttamente misure massive di controllo coercitive (a
volte incrociando i dati con le altre fonti, come la rete di videosorveglianza
urbana e le spese con carta di credito, altre, come a Hong Kong, arrivando fino
ad imporre il braccialetto elettronico ai visitatori) altri paesi, come
Singapore, hanno optato per soluzioni meno invasive basate sul bluetooth che
non intercetta il segnale oltre i due metri e trasmette i dati al server del
Ministero della Salute solo se necessario. È l’applicazione TraceTogether
che sembra essere stato il modello della nostra. Tuttavia, come evidenziano gli
autori, in questo caso resta il problema che le app volontarie sono del tutto
inefficaci se, come accade in Italia, troppi rifiutano di scaricarla per paura
di fornire i propri dati alle agenzie governative. Con 5,2 miliardi di
smartphone esistenti attualmente è chiaro che ci sarebbe la piena possibilità
tecnologica (il nostro gestore sa sempre dove siamo, fino a che il nostro
dispositivo è acceso) di tracciare in tempo reale, ma ci sono al momento
insuperabili problemi di uniformazione e messa in contatto dei dati.
Del
resto, ormai ogni aspetto della nostra vita è tracciabile, ogni esperienza
digitale, potenzialmente ogni passo nelle nostre città. C’è quindi un forte
rischio di distopia e gli autori non lo nascondono in alcun modo. In questo
contesto viene citato il libro di grande successo di Shoshana Zuboff, “Il
capitalismo della sorveglianza”[36]. Come ha scritto Yuval
Harari abbiamo davanti la scelta fondamentale tra una sorveglianza totalitaria
(sviluppata ai fini di protezione sanitaria o dal terrorismo) e il potere dei
cittadini[37].
Si tratta del rischio, continuano, di un “oscuro futuro di uno stato della
sorveglianza techno-totalitario”.
I
Micro-reset
Nella
seconda parte del libro vengono dettagliate le micro-trasformazioni che
potrebbero prodursi nell’industria e nel business. Chiaramente per molte
industrie la crisi pandemica ha prodotto effetti devastanti, per altre è stata
un’occasione di ripensare la propria organizzazione. Ad esempio, per molti
settori di intrattenimento, viaggi od ospitalità, un ritorno alla condizione
pre-pandemica è inimmaginabile per ogni futuro vicino e forse per sempre.
Per altri, come i settori manifatturieri o del cibo, è più questione di trovare
la via per aggiustarsi allo shock e di ricapitalizzarsi per la nuova tendenza
(con più tecnologie digitali). Le cose più ovvie saranno: incoraggiare il
remote working; ridurre i viaggi e le riunioni faccia-a-faccia in favore di
interazioni virtuali; accelerare la digitalizzazione di ogni soluzione. Tutto
ciò non è affatto nuovo, ma ora diventa per molti una questione di vita e di
morte. Come diretto risultato la IoT sarà enormemente potenziata allo specifico
scopo di rendere digitale e controllare in remoto quanti più aspetti possibile
dei cicli di produzione. Manutenzione, inventario, strategie di sicurezza
possono essere controllate via computer. Ma la trasformazione impatterà anche
sulle global supply chain, costringendole a riorganizzarsi. L’insieme dei
fenomeni messi in movimento, direttamente ed indirettamente, dalla pandemia,
costringeranno a ridurre e rilocalizzare le supply chain troppo estese, o
intrecciate, e ad elaborare produzioni alternative o piani per il rischio di
interruzioni e distruzioni. Ogni business dovrà “ripensare le sue operazioni e
probabilmente sacrificare l’idea di massimizzare la propria efficienza e
profitti per potenziare la ‘sicurezza dell’offerta e la resilienza”[38], al fine di proteggersi
contro un cambio regolatorio, o di un fornitore specifico. I costi di
produzione inevitabilmente saliranno, ma sarà il prezzo della sicurezza.
Nell’epoca
post-pandemica, dunque, il business sarà soggetto a molta più interferenza
da parte del governo rispetto a prima. Saranno implementate regole più
stringenti (ad esempio, sul riacquisto di azioni, o la distribuzione di
dividendi) per pratiche giudicate immorali, dal momento che le imprese molto
spesso dovranno chiedere l’aiuto per ristrutturarsi. Ma anche riceveranno
istruzioni su cosa produrre, al fine di garantire un plafond di produzioni
strategiche di area (regionale). La massimizzazione dei profitti e lo
short-terminism non sarà più favorito o tollerato, perché rende tutti più
fragili in vista di future crisi. Inoltre, sempre secondo gli autori, nel mondo
la pressione a ridurre la protezione sociale e abbassare i salari cesserà e
si invertirà. Molto probabilmente nel mondo post-pandemico diventeranno
centrali le lotte per i salari minimi e il potenziamento dei sindacati. Molto
probabilmente le compagnie dovranno adattarsi se vorranno accedere ai fondi
pubblici e la gig economy soffrirà di questo più di ogni altro settore,
“il governo le forzerà a offrire ai lavoratori contratti con i benefici e le
protezioni sociali e sanitarie”[39].
Ma
gli effetti annunciati più importanti sono su turismo e sul settore dell’entertainment,
dove le cose devono avvenire oggi “di persona” (l’elenco è terrificante, e
comprende in effetti l’enorme cifra dell’80% del totale dei posti di lavoro in
Usa). Attività come viaggi e vacanze, bar e ristoranti, eventi sportivi, cinema
e teatri, concerti e festival, conferenze e convegni, musei e librerie,
educazione, saranno costrette a ridefinirsi. Anzi, per come la mettono “essi
non potranno trovare spazio nel mondo virtuale o, se lo potranno, solo in una
forma monca e subottimale”[40]. Durante l’intera
epidemia, per mesi e forse un anno (il libro è uscito sei mesi fa) dovranno
adattarsi e una ridotta capacità. Più specificamente, la trasformazione
favorirà le grandi catene, mentre distruggerà fino al 75% dei piccoli
esercizi. Al capo opposto le grandi compagnie di viaggi, ad esempio aeree, andranno
incontro ad un mutamento cataclismico che avrà carattere permanente (venendo
esacerbato dal mutamento delle abitudini di viaggio delle imprese). Ma
l’impatto sugli aeroporti si propagherà già per le connessioni a monte ed a
valle, colpendo le catene di auto rent, le imprese che costruiscono aerei e
l’intera lunga catena di fornitori.
Quindi
ci sono stati, e ci saranno, impatti sui comportamenti di acquisto e
sull’educazione. Insomma, ci saranno numerosi ed in parte imprevedibili impatti
su diverse filiere, alcune in incremento ed altre in decremento.
Anche
gli impatti sulla vita urbana delle grandi città
potrebbero essere davvero molto grandi, perché anche se solo una piccola parte
degli abitanti e users sceglierà di non frequentarle più, cercando luoghi più
verdi, decentrati, comodi ed economici, tante attività dagli elevati costi
fissi, la cui profittabilità è impostata al margine subiranno egualmente durissimi
e durevoli contraccolpi. E subirà notevolissimi contraccolpi il settore del “commercial
real estate” che è un essenziale driver della crescita economica globale.
Potrebbe crearsi un eccesso di offerta di uffici e servizi centrali (il recente
abbandono repentino del progetto decennale del nuovo stadio della Roma, da
parte di una proprietà che è specificamente nel business del turismo e del
lusso è un segnale chiaro in tale direzione) che porterà ad una enorme catena
di fallimenti di portata sistemica. In molte grandi città i prezzi delle case,
ed in particolare dei locali commerciali ed affitti, cadranno per un lungo
periodi di tempo, inevitabilmente. La possibilità di lavorare in remoto, al
contrario, determinerà la crescita delle regioni e delle città (piccole
probabilmente) nelle quali la qualità della vita è migliore, in particolare
fino a che i prezzi delle case resteranno accessibili.
Qualcosa
di altrettanto distruttivo potrebbe avvenire ai grandi campus, il cui business
model potrebbe andare in bancarotta.
Ma
ci saranno effetti anche sul big teach, la salute e l’industria del benessere,
il settore finanziario, l’industria automobilistica e quella energetica. Alcune
di queste saranno ovviamente avvantaggiate dal clima indotto dalla pandemia,
tra queste il big teach, che è un settore ad alta resilienza, e il settore
della salute, ovviamente centrale. È probabile che saranno anche potenziate e
favorite dal governo le attività sportive (in particolare all’aperto), per i
loro effetti salutari e socializzanti. Altri settori spinti alla
trasformazione, ma anche favoriti, saranno quello finanziario al dettaglio (che
si sposterà sempre più on line, riducendo i costi), quello dell’automotive, e
quello della produzione elettrica che andrà incontro alla inevitabile transizione,
con massivi investimenti. Inoltre, le banche, sotto un altro profilo, si
troveranno al centro della tempesta. Dovranno infatti far fronte alla crisi di
liquidità dei clienti e di non-performimg loans che cresceranno enormemente.
I
Reset individuali
Quindi
ci sono i cambiamenti individuali.
Attraverso
i suoi effetti che il testo classifica come “Macro” e “Micro” la pandemia avrà
comunque importanti conseguenze anche a livello individuale. In primo luogo, essa
ha già costretto la maggioranza della popolazione del mondo ad autoisolarsi da
amici e familiari, a cambiare completamente i propri piani personali e
professionali, e ha creato profonde insicurezze economiche, psicologiche e di
sicurezza fisica. Ci ha ricordato la nostra fragilità umana e quella delle
nostre società. D’altra parte, una prima impressione è stata che la pandemia
potesse unire le persone (ci sono stati episodi spontanei di tipo comunitario,
solidaristico), ma in una seconda si è visto che in realtà le ha separate. Ma la
reazione più rilevante è l’incertezza. L’essere umano ha bisogno sempre di
avere qualche certezza e non sapere cosa avverrà, o perché, induce un profondo
turbamento che può arrivare ad un senso di vergogna e disonore. Questo insieme
di confuse ragioni induce molti a cercare di ridurre lo stress cercando un
rifugio nel pensiero in “bianco o nero” e in soluzioni semplicistiche, per
questo secondo gli autori proliferano teorie cospiratorie e una enorme
propagazione di rumore, fake news, falsità e altre strane idee. Inoltre, la
pandemia ha scatenato un dibattito con importanti implicazioni morali circa la salvaguardia
a tutti i costi della crescita economica a discapito della salute dei più
deboli. Su questo terreno le scuole libertariane e utilitariste si sono
scontrate con quelle incentrate sui beni comuni in una disputa difficile da
risolvere. Gli autori ricordano che inizialmente sono state assunte posizioni
di stretta protezione ed anche di apertura (in Uk), che successivamente sono
state abbandonate quando i costi hanno cominciato a manifestarsi pienamente.
Nell’immediato
post-pandemia non potrà quindi essere portata avanti indefinitamente la chiusura
(anche la crisi economica uccide le persone, come ha scritto Amartya Sen). E,
del resto, ormai è chiaro che essa produce ingenti danni anche riferiti alla
sanità mentale. Occorrerà perciò trovare un compromesso che dipende
essenzialmente, per ognuno di noi, dai valori che considera preminenti. Ciò
potrebbe costituire un’occasione di ripensare le nostre priorità e
comportamenti. Migliorando la nostra creatività, gestione del tempo, comportamenti
di consumo, amore per la natura e ben essere.
In
conclusione.
La
crisi del Covid ha esasperato tutte le linee di faglia che erano presenti nella
nostra società, ineguaglianze, senso di ingiustizia,
incremento della divisione geopolitica, polarizzazione politica, crescita del
deficit pubblico e dell’alto livello del debito, inesistente governance
globale, eccessiva finanziarizzazione, degrado dell’ambiente. Cosa ci riserva
il futuro? Sarà solo un lampo prima del tuono, o andrà meglio? Per gli autori
in effetti noi non lo sappiamo, “ma quel che sappiamo è che se non riavviamo il
mondo di oggi quello di domani sarà profondamente peggiore”[41].
Per
evitarlo dobbiamo a loro parere, è anzi assolutamente necessario, avviare un
“gran Reset”. Dove, però, il termine va letto come riorganizzazione. Se non
riusciamo infatti a riparare i mali che sono da tempi radicati nella nostra
società e nella sua economia aumenterà il rischio che, come è più volte
accaduto, “alla fine un ripristino sarà imposto da shock violenti come
conflitti e persino rivoluzioni”. È per questo che la pandemia, con tutte
le sue sofferenze, “rappresenta una rara finestra di opportunità per
riflettere, reimmaginare e ripristinare il nostro mondo”[42]. Si tratta, seguendo una
facile retorica, di fare del mondo un posto meno divisivo, meno inquinato,
distruttivo, più inclusivo, equo e giusto.
Schwab,
rivolgendosi ai suoi interlocutori, le élite economiche del mondo, dichiara quindi
espressamente che non fare nulla non è una opzione. Chi resisterà,
dicendo che in fondo il mondo si è sempre riassestato dopo ogni crisi, che la
ricchezza sta continuamente aumentando e che tutto andrà a posto da solo, si
sbaglia; trascura che quelle della crescita della ricchezza sono solo medie, bisogna
vedere dove va, il numero di persone che sono affondate e non si vedono in
quelle medie cresce sempre di più. La rabbia cresce, come il caso di George
Floyd mostra. In quella mobilitazione, in corso mentre il testo veniva scritto,
una gigantesca esplosione di sentimenti repressi e di lunga frustrazione per
l’ingiustizia ha creato un immediato movimento di massa.
Certo,
non è difficile vedere che l’epidemia è leggera rispetto a quelle del passato
quanto a tasso di mortalità, ma questa considerazione può indurre in errore. Il
mondo strettamente interconnesso contemporaneo e l’insieme dei molti problemi
che ha con sé la rende egualmente un detonatore micidiale. Perciò quel
che accadrà è che nel mondo post-pandemico le questioni di giustizia, la
stagnazione dei redditi “per una vasta maggioranza” e la ridefinizione del
complessivo contratto sociale si imporranno all’agenda. Insieme ad esse si
imporranno le questioni ambientali e quelle dello sviluppo della tecnologia a
favore dell’intera società, e solo non di pochi privilegiati. Come il testo
ammette tutti questi problemi c’erano anche prima, ma ora sono al centro del
tavolo e ci rimarranno.
Secondo
la stringente posizione ideologica degli autori l’assoluto prerequisito per
affrontarli e risolverli è quindi solo la collaborazione e cooperazione tra i paesi
del mondo. Non progrediremo senza. In altre parole, perché sia attivata un’era
di maggiore cooperazione e non di nazionalismo e separazione è necessario che
appena l’economia riparte siano implementati realmente i 2030 Sustainable
Development Goals[43] delle Nazioni
Unite e si proceda ad una profonda ristrutturazione che mobiliti le migliori
forze.
Questo
auspicio è alla fine il “Gran Reset”: che dalla caduta venga la forza di
rialzarsi.
Non
bisogna leggere molte delle cose scritte in questo libro come se fossero false
per il solo fatto che lo dice il direttore del World Economic Forum di Davos.
Molte sono giuste, e alcune sembrano addirittura prefigurare una sorta di
necessaria “svolta keynesiana”. Molte sono le cose che abbiamo anche noi sempre
detto. Per certi versi sono le stesse che dice la MMT, o che ripete sempre la
Mazzucato. È prevista una certa ritirata della mondializzazione, ed un
avanzamento della funzione di regolazione e spesa pubblica. È chiaramente e
dichiaratamente annunciata la fine del neoliberismo.
Tuttavia,
è il senso dell’operazione che è diverso. Diverso è l’interlocutore,
come altro il soggetto chiamato a mobilitarsi.
Si
tratta di cambiare tutto per non cambiare niente.
Tomasi di Lampedusa deve essere una delle letture serali del nostro.
L’orizzonte non è una nuova versione del “embebbled capitalism” (o
“liberalism”, come scrisse John Ruggie[44]) di Bretton Woods, ma una
maggiore centralità nell’organizzazione sociale e nella stabilizzazione delle
grandi imprese. È quindi uno “Stakeholders capitalism”. Qualcosa che può
ricordare il sistema privatizzato del welfare ludico del tardo Impero Romano,
anche lì in un contesto di dissoluzione sociale e di altissima dispersione dei
centri di potere. Come propose allora Simmaco, la classe (senatoria) si può
compattare intorno al compito di essere per conto dell’autorità pubblica editor,
individualmente e collettivamente, dei giochi cistercensi (e gladiatorii) che
esibiscono il potere, aggregano spettatori e clientes, controllano e
organizzano il consenso.
Si
tratta quindi di trovarne l’equivalente in un welfare privatizzato, inestricabilmente
corporate e di stato. Una centralità tra impresa e territorio che è fatta di noblesse
oblige da parte di questa e di grata accoglienza da parte del cliente,
pubblico, beneficiario, dipendente, … tutto questo ma non cittadino.
Lo
dice meglio, e più esplicitamente, anche la McKinsey[45]:
-
L’economia di libero mercato è una delle
ragioni più importanti per la creazione di ricchezza e miglioramento della
qualità della vita di cui l’umanità ha goduto nelle ultime generazioni,
-
Eppure, c’è rabbia e sfiducia palpabili
nei confronti dell’idea di capitalismo, e del ruolo del business in molte
società,
-
Già prima che il Covid-19 cambiasse il
mondo il 60% delle persone pensava che il capitalismo stesse facendo più male
che bene in 22 paesi su 28 interpellati,
-
Quindi gli uomini di affari non possono
stare dietro le quinte, devono prendere l’iniziativa,
-
È un’opportunità per un cambiamento
positivo, la missione non è di servire gli azionisti ma clienti, fornitori,
lavoratori e comunità.
Insomma,
giù nella stiva, legati alle catene e privi di luce ed acqua, mentre il
naufragio si avvicina arriva una voce dall’alto. I capitani dicono di fidarsi,
loro sanno cosa è bene per tutti e sanno come portare la nave in porto, si
prenderanno carico di ogni cosa.
Questa
sarebbe la fine del neoliberismo per Schwab.
Certo,
il neoliberalismo ha avuto un inizio al termine del ciclo keynesiano, e come
tutto avrà fine.
Ma
non è ancora il momento.
[1] - Una fondazione svizzera i cui
partner sono in pratica l’intero campo delle primarie aziende multinazionali
del mondo occidentale. Si va da multinazionali come Air Liquid (azienda chimica
americana), ABB, ABN Amro, Astra Zeneca,
Basf, Bayer, Boeing, BP, Hitachi, Chevron, Enel, Eni, General Electric,
Honda, Hyundai, Mitsubishi, Moderna,
PepsiCo, Petronas, Pfizer, Nestlè, Nielsen, Nokia, Total, Novartis,
Volvo, Volkswagen, Walmart, Snam, Sony, Siemens, Unilever, UPS, Tata, Coca
Cola, Lego Brand Group, Lookheed Martin, Saipem, Johnson e & Johnson, a
fondi ed aziende finanziarie come Algebris, Allianz, AXA, Bank of America,
Credit Swisse, Deutsche Bank, Visa, Nomura, Barclays, JP Morgan Chase, UBS,
Unipol, BlackRock, Generali, Goldman Sachs, Western Union, HSBC, Intesa, Morgan
Stanley, aziende di consulenza come McKinsey, Accenture, della new economy come
Adobe, Apple, Amazon, Cisco, Microsoft, Facebook, Google, HP, IBM, Tibco, Zoom,
istituzioni come la nostra Cassa Depositi e Prestiti, la Banca Europea degli
Investimenti, o istituzioni cinesi ed aziende come Alibaba, Huawei, China
Energy Investment, China Construction Bank, China Railway Group, State Grid
Corporation of China, la Russian Direct Investment Fund, il Saudi Industrial
Investment Fund, Banche centrali come la State Bank of India. Questo per
restare ai primi nomi di un lunghissimo elenco nel quale in pratica non manca
nessuno.
[2] - Un altro autore specializzato in
questa sottoletteratura è Richard Florida, il quale nel 2011 ha pubblicato un
libro dal medesimo titolo “The Great Reset”, Harper. O Richard Baldwin,
specializzatosi nel descrivere ad ampio raggio i processi di innovazione
tecnologica ed i suoi effetti sul mutamento sociale e politico (e geopolitico),
si tratta ti libri come “La grande convergenza”, quando nel 2016
ipotizzava una terza ondata della mondializzazione (ne abbiamo parlato in questo post), o, il più recente “Rivoluzione globotica”, di tre anni dopo. In un ambito
per certi versi più ristretti, focalizzato sul mutamento tecnologico, si può
leggere Brynjolfsson e McAfee (“La macchina e la folla”, 2017) Tyler Cowen (“La media non conta più”, 2015) o Jerry Kaplan (“Le persone non servono”, 2016).
[3] - Mariana Mazzucato, “Il valore
di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale”, Laterza
2018 (ed.or 2018). Un testo ambizioso nel quale nella prima parte cerca di
rivitalizzare l’illustre tradizione risalente almeno a Smith che vede
distinguere tra lavori produttivi di valore e non, e che, su questa base, pone
sistematicamente in discussione la pretesa della finanza di contribuire allo
sviluppo del valore, distinguendo tra “capitali pazienti” e “speculativi”, a
breve termine ed improduttivi. La chiave è la medesima poi prescelta da Schwab,
occorre passare nuovamente dalla massimizzazione del valore per gli azionisti
(“improduttiva”) alla creazione di effettivo valore per gli “Stakeholders”
(cfr. p.200). La conclusione, tuttavia, diversamente dal nostro, è che bisogna
andare verso la ricostruzione della fiducia nella funzione pubblica e “fissare
una missione” (p.278).
[4] - Mariana Mazzucato, “Mission
economy. A Moonshot Guide to Changing Capitalism”, Allen Lane, 2021. Libro
nel quale l’economista inglese riflette sulla crisi pandemica.
[5] - Stephanie Kelton, “Il mito
del deficit”, Fazi editore 2020.
[6] - Richard Baldwin, “Rivoluzione globotica”, Il Mulino 2019.
[7] - Paul Collier, “Il futuro del
capitalismo”, Laterza 2020 (ed.or. 2018).
[8] - Raghuram Rajan, “Il terzo
pilastro. La comunità dimenticata da Stato e mercati”, Bocconi Editore 2019
(ed. or. 2019).
[9] - Thomas Piketty, “Capitale e
ideologia”, La nave di Teseo, 2020 (ed.or. 2020).
[10] - Branko Milanovic, “Capitalismo
contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro”, Laterza 2020
(ed. or. 2019).
[11] - Francis Fukuyama, “Identità.
La ricerca della dignità e i nuovi populismi”, Utet 2019 (ed. or. 2018).
[12] - Termine chiaramente polisemico,
ma che qui si intende spendere per la sua capacità di organizzare il senso e
creare un ordine, sposato dai soggetti che essa stessa costituisce non per mero
interesse bensì per adesione ad un intero ‘mondo’ internamente coerente.
L’ordine (ed il ‘mondo’) comprende tecniche, saperi, culture e ruoli. Ogni
operazione consapevolmente egemonica è una sorta di sfida al mondo come è,
definisce dei nemici e si sforza di dissolverne la coerenza e coesione,
combatte certezze, crea idee nuove (spesso rimontate dalle vecchie). Ogni nuovo
assetto egemonico ha i suoi soggetti ed i suoi attori cruciali, individua dei
valori irrinunciabili e dei disvalori da respingere, include delle tecniche,
produce una economia. Creando soggettività si fa carico di esse, e risponde ai
bisogni che fa emergere come decisivi.
[13] - In poche parole, lo scheletro
era dato dalla integrale subordinazione del consumo, messo a centro dell’uomo
stesso, alla logica capitalista, negoziando da una parte produttività e
distribuzione in termini reali (in modo da garantire da riproduzione della forza-lavoro
e la stabilità sociale, ovvero la riproduzione sociale) e dall’altra la
gestione politica della moneta (progressivamente smaterializzata in tutti gli
anni sessanta e settanta, con enormi conseguenze sistemiche).
[14] - Si veda, “Il Proconsole imperiale: draghi,
serpenti, vermi”.
[15] - Rutilio Namaziano, “De reditu”,
cit in Sergio Roda, “Nobiltà burocratica, aristocrazia senatoria, nobiltà
provinciali”, “Storia di Roma”, 3.I, Crisi e trasformazioni, Einaudi,
1993, p.643.
[16] - Klaus Schawb, Thierry Malleret,
“Covid-19: the great reset”, Word Economic Forum, 2020, citazioni dal
e-book.
[17] - Klaus Schawb, Peter Vanham, “Stakeholder
Capitalism”, Wiley, aprile 2021. Nel libro Schwab propone di superare lo “shareholder
capitalism” che fu all’origine della volta neoliberale (una delle parole
d’ordine della Scuola di Chicago) in favore di un nuovo capitalismo che, invece
degli azionisti, pone al centro le imprese private come “fiduciari della
società”. In questo spostamento di accento sono le stesse aziende che
dovrebbero farsi carico della trasformazione del modello e pagare le giuste
tasse, combattere al loro interno la corruzione, promuovere parità di condizioni
concorrenziali e sostenere i diritti umani e dei lavoratori. Esse, le imprese,
sono le principali interessate al comune futuro. Come scrive lo stesso autore:
“I business leaders oggi hanno una incredibile opportunità. Dando allo stakeholder
capitalism un significato concreto, possono muoversi oltre le obbligazioni
legali e confermare il proprio dovere verso la società. Possono portare il
mondo più vicino all’ottenimento di obiettivi condivisi, come quelli emersi con
l’accordo di Parigi sul clima o gli Sdgs. Se i business leader realmente
vogliono lasciare il proprio segno nel mondo, non hanno alternative”.
[18] - Klaus Schawb, “La quarta
rivoluzione industriale”, Franco Angeli, 2016; Klaus Schawb, “Governare la
quarta rivoluzione industriale”, Franco Angeli, 2019.
[19] - “The Davos Manifesto” è un set di principi etici che
dovrebbe fungere da guida per le imprese nell’età della quarta rivoluzione
industriale. Pubblicato nel 2020 dichiara che lo scopo di un’azienda non è di
servire i propri azionisti, ma di coinvolgere tutti i suoi stakeholders nella
creazione di valore condiviso. Dipendenti, clienti, fornitori, comunità locali
e società, comprendendone ed armonizzandone gli interessi e orientandosi verso
la prosperità a lungo termine.
- Un'azienda serve i propri clienti fornendo una proposta di
valore che soddisfi al meglio le loro esigenze. Accetta e sostiene una
concorrenza leale e condizioni di parità. Ha tolleranza zero per la
corruzione. Mantiene affidabile e degno di fiducia l'ecosistema digitale in
cui opera. Rende i clienti pienamente consapevoli della funzionalità dei
suoi prodotti e servizi, comprese le implicazioni negative o le esternalità
negative.
- Un'azienda tratta le sue persone con dignità e rispetto. Onora
la diversità e si impegna per il miglioramento continuo delle condizioni di
lavoro e del benessere dei dipendenti. In un mondo in rapido cambiamento,
un'azienda promuove l'occupabilità continua attraverso il miglioramento delle
competenze e la riqualificazione.
- Un'azienda considera i propri fornitori come veri partner
nella creazione di valore. Offre una buona possibilità ai nuovi
operatori di mercato. Integra il rispetto dei diritti umani nell'intera
catena di fornitura.
- Un'azienda serve la società in generale attraverso le sue
attività, sostiene le comunità in cui lavora e paga la sua giusta quota di
tasse. Garantisce un utilizzo sicuro, etico ed efficiente dei
dati. Agisce come amministratore dell'universo ambientale e materiale per
le generazioni future. Protegge consapevolmente la nostra biosfera e
promuove un'economia circolare, condivisa e rigenerativa. Espande
continuamente le frontiere della conoscenza, dell'innovazione e della
tecnologia per migliorare il benessere delle persone.
- Un'azienda fornisce ai
propri azionisti un ritorno sull'investimento che tiene conto dei rischi
imprenditoriali sostenuti e della necessità di innovazione continua e
investimenti sostenuti. Gestisce responsabilmente la creazione di
valore a breve, medio e lungo termine alla ricerca di rendimenti sostenibili
per gli azionisti che non sacrificano il futuro per il presente.
- Un'azienda è più di un'unità economica che genera
ricchezza. Soddisfa le aspirazioni umane e sociali come parte del più
ampio sistema sociale. La performance deve essere misurata non solo
sul ritorno agli azionisti, ma anche sul modo in cui raggiunge i suoi obiettivi
ambientali, sociali e di buona governance. La remunerazione dei dirigenti
dovrebbe riflettere la responsabilità delle parti interessate.
- Un'azienda che ha un ambito di attività multinazionale non solo
serve tutti quegli stakeholder che sono direttamente coinvolti, ma si comporta
come stakeholder - insieme ai governi e alla società civile - del nostro futuro
globale. La cittadinanza globale aziendale richiede a un'azienda di
sfruttare le proprie competenze di base, la propria imprenditorialità, abilità
e risorse rilevanti in sforzi di collaborazione con altre aziende e parti
interessate per migliorare lo stato del mondo.
[20] - Certo, non è la
prima epidemia che ha colpito l’umanità, né la peggiore. La peste del 1300, ad
esempio, distrusse dal 20 al 40% della popolazione europea e indusse a creare
pratiche come la “quarantena”, e le prime forme di “institutionalized public
healt”. Al contempo creando sempre forme di ansia sociale e di isteria di
massa.
[21] - Schwab, op.cit., p. 12.
[22] - Op.cit., p. 21
[23] - Per la storia di questo
concetto, e la sua pratica politica, si veda Alessandro Visalli, “Dipendenza”,
Meltemi 2020.
[24] - Op.cit., p. 43
[25] - Si veda, ad esempio, i testi
prima citati di Brynjolffson o di Tyler Cowen e di Baldwin.
[26] - Stephanie Kelton, “Il mito
del deficit”, Fazi Editore 2020. Ma c’è una importante differenza, anche se
nessuno dei due libri entra nei dettagli quello dell’economista americana non
propone un reddito universalista di prima istanza, ma un programma di lavoro
garantito sul modello del New Deal. È chiaro che in questo modo le imprese non
sono più al centro della scena.
[27] - Op.cit., p. 67.
[28] - Op.cit., p.78
[29] - Op.cit., p.92, nota 68.
[30] - Op.cit., p.94, nota 69
[31] - Si veda Graham Allison, “Destinati
alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?”
Fazi Editore, 2018.
[32] - Viene citato il classico libro
di Dani Rodrik, “La globalizzazione intelligente”, Laterza, 2011.
[33] - Op.cit., p. 107
[34] - David Quammen, “Spillover”,
Adelphi 2012.
[35] - Klaus Schwab, “La quarta
rivoluzione industriale”, op.cit.
[36] - Shoshana Zuboff, “Il
capitalismo della sorveglianza”, Luiss 2020
[37] - Op.cit., p.168
[38] - Op.cit., p. 180
[39] - Op.cit., p. 184
[40] - Op.cit., p. 191
[41] - Op.cit., p. 243
[42] - Nota 165
[44] -John Gerard Ruggie,
“International Regimes, Transactions, and Change: Embedded Liberalism in the
Postwar Economic Order”. International Organization 36 (2),
1982.
Caro Alessandro ci hai donato con questo contributo un'altra importante pietra preziosa,per riflettere collettivamente su dove stiamo andando.
RispondiEliminaCarissimo Alessandro, domando perdono sin d'ora perché non avendo trovato altro modo mi prendo la libertà di scriverle in questo commento, sperando di fare cosa gradita e forse utile sia a lei che a chi legge.
RispondiEliminaIl suo articolo rispecchia nella sua vastità ed articolatezza quelle della materia economica, politica, sociale, che osserviamo; a prima vista non è banale tuttavia, per quanto vasta ed articolata sia, probabilmente intuiamo tutti quale sia fondamentalmente il punto; per aiutare a metterlo a fuoco, ho dato al mio sito proprio il nome di questo punto: soppressione economica.
Siamo tanti, ed in tanti ambiti diversi, ed io vorrei contribuire ai nostri sforzi comuni offrendo a tutti un contributo utile, spero, e forse importante, che ha vari aspetti:
rivolgersi a chiunque, esperti e digiuni, comunicando in modo da far capire e stimolare ad alzare la testa;
fornire a chiunque un punto di vista dal quale le tessere del mosaico si uniscono a formare un quadro generale comprensibile e coordinato, in cui tanto i collegamenti quanto i rapporti di importanza relativa, di causa ed effetto, siano chiari;
fornire a chiunque alcune tessere del mosaico aggiunte da me perché non trovate altrove, che completino questo quadro;
catalizzare e promuovere l'unione ed il coordinamento di tutte le nostre forze, e la loro concentrazione sui punti chiave del quadro, a beneficio di tutti.
Non mi sembra educato dilungarmi qui nel merito dei contenuti, e lascio quindi che il sito si spieghi da sé, sperando lo faccia in misura accettabile.
Seppure i contenuti sono già molti, il lavoro è ben lungi dall'essere completo, e quindi l'orizzonte dei contributi che desidero offrire si estende molto al di là di quello che appare dal sito per com'è attualmente.
Anche perché i contenuti attualmente presenti in esso potrebbero sembrare una discesa agli inferi; in merito a questo, i nostri antenati dicevano: "si vis pacem, para bellum", ed io oggi mi sentirei di dire: "se vuoi proteggere il bene, conosci il male meglio di quanto questi conosca sé stesso".
Home Page in Italiano:
https://economicsuppression.org/it
Home Page in Inglese:
https://economicsuppression.org
Se utile, questa parte è una breve sintesi degli elementi fondamentali:
https://economicsuppression.org/it/sinossi-sunto.html
Grazie sinceramente per l'attenzione, che spero sia ben ripagata e fruttuosa, e per ogni idea, considerazione, punto di vista che ne possa scaturire.
La mia email è nella pagina Info del sito.
Cordialissimi Saluti
Luca Esculapio