Premessa
Howard
Zinn, nato nel 1922 e morto nel 2010, è stato uno scrittore radicale americano
newyorkese di inclinazioni socialiste libertarie e provenienza da una famiglia
di immigrati ebrei europei (dall’Austria e dalla Siberia). Dagli anni Sessanta
prese parte attivamente al movimento per i diritti civili, sia nel ruolo di
docente di storia sia in quello successivo di docente di scienze politiche.
Prese posizioni coraggiose e personalmente costose contro la discriminazione
razziale e la guerra del Vietnam[1].
Il
suo testo più famoso, Storia del popolo americano da 1492 ad oggi[2], è uno straordinario
affresco dell’intera storia degli Stati Uniti, fino ai primi anni di Bush
junior, descritta sotto il profilo della storia popolare. Ovvero della storia
delle lotte e mobilitazioni popolari e delle diverse forme di oppressione che
sono state praticate nella storia del paese. È quindi, e soprattutto, una
storia dei dispositivi di controllo sociale e di formazione e dominio delle
élites e di formazione e sfruttamento di sempre nuove ineguaglianze e colonie
interne. Anzi di controllo proprio rendendo funzionali le ineguaglianze interne
tramite il sistematico spostamento su altro della natura economica di queste.
La
“scoperta”
La
storia prende ovviamente le mosse dai viaggi di Colombo, soprattutto del
secondo viaggio la cui complessa organizzazione e l’alto costo (ben 17 navi)
rendeva necessario garantire l’immediato profitto. Ovvero, chiaramente, aprire
un canale di approvvigionamento di schiavi ed oro. Colombo tenta di adempiere
al mandato, in un paese ricchissimo di risorse naturali ma non sviluppato in
senso occidentale, soprattutto garantendo i primi. E quindi occupando
militarmente Haiti, che viene selvaggiamente sfruttata e nella quale si attua
in poco meno di un secolo un vero e proprio assoluto sterminio. Una popolazione
locale stimabile in 250.000 abitanti viene ridotta praticamente a zero, grazie
ad uno spietato ipersfruttamento in piantagioni intensive. Su questa esperienza
si forma la militanza antirazzista del più importante autore militante spagnolo
del tempo, Bartolomé de Las Casas[3].
Ma
il Nordamerica, di cui si parla in questo testo, fu invaso specialmente dagli
inglesi e nel secolo successivo. Inoltre le popolazioni native, i first
peoples, erano frammentate in centinaia di clan e alleanze federative, e
potevano opporre una resistenza, se pure ostinata tuttavia frammentata e
discontinua. A fronte di questa debolezza, che faceva sembrare agli europei
abituati a densità sociali ed organizzative diverse il paese come vuoto ed
immenso, gli inglesi (ma anche i francesi) esercitano quella che Zinn chiama
una specifica “perfidia e brutalità”, causata in ultima analisi da un impulso
interno. Precisamente da “quell’impulso speciale e potente che sorge
all’interno delle civiltà basate sulla proprietà privata”[4]. Una spinta che è fatta di
bisogno di spazio e terra, che lo concepisce come libero e da possedere in modo
esclusivo. Di qui la necessità, in una logica per i contemporanei evidente, di
sottrarlo agli usi comunitari non riconoscibili come legittimi. E dunque
scacciare ed uccidere chi pretendesse di affermarli.
Al
momento della conquista e colonizzazione vivevano nelle Americhe 75 milioni di
membri dei first peoples, di cui 25 nel Nord America, ma divisi qui in
almeno 2000 lingue e dialetti e un centinaio di culture tribali principali
(navajo, lakota, chippewa, cheyenne, apache, irochesi, le cinque nazioni
mohawk, oneida, onodaga, cayouga e seneca del 1722, e via dicendo). Un’enorme
varietà, dunque, alcuni costruivano villaggi e coltivavano il mais, con forme
straordinariamente evolute e adattate di aridocultura e tecniche
ingegneristiche di irrigazione perfettamente adatte allo scopo, altri avevano
artigianati raffinati ed estesissime reti di scambio, oppure culture basate
sull’abbondate pesca o caccia e in genere con sistemi sociali perfettamente
egualitari, stabili e spesso con elevato livello di parità sessuale. Ma anche straordinarie
capacità culturali, di argomentazione logica e retorica, raffinate capacità
diplomatiche, come quelle messe in evidenza da David Graeber e David Wengrow nel
loro L’alba di tutto.[5] Ad esempio, è descritta la
straordinaria vicenda di Kondiaronk, stratega dei Wendat, una confederazione di
quattro popoli irochesi che cercò all’inizio del Settecento di evitare che
inglesi, francesi e la coalizione hanfenosaunee si unissero contro la sua. In
prospettiva l’obiettivo del leader nativo di organizzare una grande coalizione
contro gli invasori[6].
Presumibilmente inviato come ambasciatore del suo popolo in Francia, si fa
critico sia del cristianesimo sia della logica della trasposizione del potere
sulle cose (la proprietà) in potere sugli uomini. I suoi arguti argomenti,
secondo Graeber, influenzano profondamente lo stesso dibattito europeo
contemporaneo sulla ineguaglianza. Uno dei più specifici argomenti portati da
Kondiaronk, e riportati in Dialogues curieux: entre l’auteur et un sauvage
de bon sense qui a voyagé, del 1703, dell’aristocratico francese
Louis-Armand de Lom d’Arce, è che le leggi punitive di stampo europeo, e la
stessa dottrina cristiana della punizione eterna, non sono rese necessarie
dalla naturale cattiveria umana, ma da una forma di organizzazione sociale che
incoraggia il comportamento egoista e l’avidità. Sono quindi le distinzioni tra
“mio e tuo”, per usare le sue parole riportate nel libro, a rendere “disumana”
la vita in Francia. Come dice, “affermo che quello che chiamate denaro è il
diavolo dei diavoli; il tiranno dei francesi, la causa di tutti i mali; il
flagello delle anime e il mattatoio dei vivi”[7]. Insomma, “un uomo
motivato dall’interesse non può essere un uomo ragionevole”.
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Ritratto di Kondiaronk |
Questa critica indigena, ovvero dei pochi rappresentanti dei first peoples che riuscirono a farsi ascoltare e talvolta viaggiare, a partire dall’inizio del XVIII secolo, influenza il dibattito sulla eguaglianza e come reazione le teorie evoluzionistiche, che invariabilmente, partono dallo ‘stato di natura’ egualitario. La domanda di come si possa trasformare il possesso, e quindi la ricchezza, in potere è anche al centro della riflessione di un avido lettore di diari di viaggio: Jean-Jacques Rousseau. Anche per lui la proprietà è la causa del problema dei mali della società, ma mentre per i first peoples la libertà presume una condivisione comunitaria dei beni, e quindi della sicurezza sociale, per gli europei resta legata alla proprietà e non può essere concepita alternativa. E quindi è indipendenza.
Mentre
per i primi, al contrario, la libertà è figlia della interdipendenza in un
contesto di reciproco riconoscimento e sostegno, socialmente indotto, per il
nostro ed il pensiero illuminista europeo essa è figlia piuttosto del possesso
incontestato e non limitato. E il possesso esclusivo resta connesso, sia pure
in modo complesso e contraddittorio, con l’idea del progresso e dell’evoluzione
(nel passaggio dallo ‘stato di natura’ dei first peoples, alla società).
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Jean-Jacques Rousseau |
Le
prime colonie
Mentre
tutti questi dibattiti e influenze erano ancora da venire, nel 1619 in
Virginia, dove le prime colonie inglesi sopravvissero a stento alla crisi per
fame del 1609-10, prese l’avvio un’economia protocoloniale fondata sulla
necessità di coltivare i cereali da una parte ed il tabacco di esportazione,
dall’altra. I coloni erano davanti ad un problema: pochi e per lo più di classe
media (artigiani, piccoli ex proprietari) e non avevano attitudini e desiderio
di coltivare personalmente la terra (attività dura e ingrata con i mezzi
dell’epoca); d’altra parte non potevano mettere al lavoro i first peoples, culturalmente
inadatti, abili a sottrarsi nei grandi spazi del continente, ed anche
militarmente forti. I virginiani trovarono la soluzione importando schiavi. Il
bacino era relativamente vicino perché ai caraibi nel secolo precedente erano
stati importati almeno 1 milione di neri dall’Africa per sostituire le
popolazioni autoctone sterminate. Gli africani erano più adatti perché le
culture africane erano in fondo simili a quelle europee. Nel continente, oggi
tendiamo a non vederlo, influenzati da una storiografia razzista e colonialista
sviluppata soprattutto nell’Ottocento, ma in Africa tra il 1500 ed il 1600 erano
presenti grandi stati, imperi persino, grandi centri urbani e un consolidato e
importante artigianato. Inoltre, vi veniva praticata un’agricoltura avanzata,
che faceva uso di utensili di ferro, e impegnava oltre cento milioni di
persone. Lo stesso traffico degli schiavi era in parte autoctono, e venne quindi
facilmente canalizzato verso i porti di scambio in centro Africa da attori
locali. La forma sociale locale si potrebbe descrivere, a grandissime linee,
come una sorta di feudalesimo con consolidate gerarchie e strutture complesse,
insediato in forme di vita tribali e talvolta comunitarie. Una società dove
l’idea di proprietà privata era presente, ma non strutturava completamente il
sociale e gli istituti repressivi erano temperati. In questa società, o meglio
nell’enorme varietà delle società africane per lo più mancava quindi la febbre
del profitto illimitato che un secolo dopo impressionerà Kondiaronk.
Una
volta catturati, mischiati tra etnie diverse e separati gli uni dagli altri,
gli africani erano quindi particolarmente adatti e, al contempo,
particolarmente inermi. Strappati ad una cultura consolidata tribale e
comunitaria, con legami familiari allargati e costitutivi, venivano a trovarsi
tra estranei, la cui lingua talvolta neppure capivano e portati in paesi
lontanissimi. Nelle navi negriere erano scientemente separati e divisi, tenuti
in condizioni inumane e alla fine venduti uno ad uno[8]. La tratta fu dominata
prima dagli olandesi e poi dagli inglesi, nel pieno del fenomeno a Liverpool
sostavano normalmente cento navi negriere.
In
circa due secoli, in questo modo vennero catturati e trasportati nelle Americhe
del Nord da 10 a 15 milioni di neri, su 45 milioni che furono sottratti al
continente. È impossibile non vedere il nesso tra questa immane sottrazione di
persone e distruzione di comunità e l’interruzione dello sviluppo autoctono che
il continente subì nell’età del colonialismo europeo. E sottovalutare l’enorme
contributo di questo trasferimento di ricchezza e forza lavoro nella
costruzione della superiorità economica e quindi militare (o militare e quindi
economica) dell’Occidente.
Bisogna
aprire una parentesi. La colonizzazione inglese del Nord America è diversa sia
da quella spagnola del Sud e Centro America (e di parte del Nord), sia da
quella francese dell’attuale Canada. Mentre le altre due nascono da strutture
statuali altamente organizzate e centralizzate, e sono sempre dipendenti
fortemente dalla madre patria nelle loro strutture amministrative, la
colonizzazione inglese nacque per ondate semispontanee di gruppi marginali e
religiosi. La colonizzazione spagnola, che cominciò prima, di Nunez Cabeza de
Vaca in California nel 1528-36, o Hermando de Soto in Florida nel 1539-41, e
nelle aree degli attuali Arizona, Colorado, Nevada, New Mexico, Kansas,
Oklahoma, era fondata su una precisa gerarchia sociale al centro della quale
troviamo il 1-2% di popolazione spagnola, poi la popolazione “creola” (di
sangue spagnolo, ma nata nel nuovo mondo) e in basso gli “indios”, trattati
poco più che come schiavi. Nel XVII secolo alimentò questa espansione una
emigrazione di ca 250.000 unità (su 10 milioni di popolazione complessiva).
Invece
quella inglese aveva numeri quasi doppi ma stentò a decollare fino a che, verso
il 1630, le debolissime colonie virginiane, intorno a nuove compagnie
commerciali videro l’attivazione di una robusta immigrazione dall’Inghilterra
di gruppi che si sentivano perseguitati. Questo è il contesto della rivoluzione
inglese e con essa si intreccia. Nel 1629 si formò la Compagnia della baia
del Massachussetts, che aveva l’obiettivo di favorire l’emigrazione di
coloro che si sentivano perseguitati e volevano fondare una comunità
all’altezza della propria fede religiosa[9]. Nel 1630 17 navi
trasportarono oltre mille coloni, nei tredici anni successivi ne arrivarono
20.000. Per il tempo ed il luogo sono numeri significativi. Vennero fondate
colonie come Boston o Charleston, Concord e Hartford.
La
base sociale della colonizzazione inglese
Ma
chi sono quelli che vengono? Ci aiuta un bel libro di Chistopher Hill, Il
Mondo alla rovescia[10],
il trentennio tra il 1620 ed il 1650 in Inghilterra è caratterizzato da una
tremenda crisi economica che esacerba l’odio di classe e viene imputato al
governo, alla istituzione di monopoli pubblici e alla pressione fiscale. Nelle
elezioni dei due Parlamenti tenute nel 1640 molti ‘scamiciati’, organizzati in
quello che all’epoca si identificava genericamente come il ‘Partito Popolare’
riuscirono ad eleggere molti candidati, contro le élite. Sull’orlo della guerra
civile che scoppiò subito dopo tra il Re ed il Parlamento e prima della
formazione della New Model Army di Cromwell, proliferano continue eresie
religiose, si formano gruppi radicali, in alcuni casi (come i membri della
“Famiglia dell’Amore”) in continuità con i fermenti cinquecesteschi. In tutti i
primi anni del Seicento la rivolta contro la religione istituzionalizzata, i
suoi simboli ed esponenti, è crescente ad opera di sette come i “Puritani” ed
altre. Quel che avviene è un processo di disgregazione dell’unità feudale tra
l’uomo e i suoi ruoli e quindi i ‘padroni’. Nel 1569 un’inchiesta del governo
calcolò in 13.000 gli “uomini senza padrone” e nel 1602 nella sola Londra in
30.000. Si trattava di vagabondi (la “canaglia”), ma anche membri delle sette
protestanti, popolate di piccoli artigiani che non potevano inserirsi nelle
Corporazioni ufficiali, apprendisti, che si sentivano eletti e, al contempo,
liberi nel loro esclusivo rapporto con Dio. Poi abitanti delle campagne ma non
ufficiali (una legge del 1589 impediva di costruire case a chi non avesse
abbastanza terreno), che praticavano mestieri come fabbri, carbonai, tessitori,
etc. ma saltuariamente e nelle fasi di richiesta della nascente struttura
produttiva. Quindi commercianti itineranti, che contribuivano enormemente a
portare le nuove idee in giro.
Come
dice Hill:
“sotto
alla superficiale stabilità dell’Inghilterra rurale, quella dei vasti campi
aperti che colpiscono la vista, stava la brulicante mobilità degli abitanti
della foresta, gli artigiani e gli operai edili itineranti, i disoccupati in
cerca di lavoro, i suonatori e i giocolieri girovaghi, gli ambulanti e i
ciarlatani, i vagabondi, i barboni; gente che si raggruppava soprattutto a
Londra e nelle grandi città, ma che aveva basi ovunque una zona appena
colonizzata riusciva a sfuggire al meccanismo delle parrocchie, o nello zone
colonizzate da tempo in cui c’era bisogno di manodopera. Era in questo modo che
venivano reclutati gli eserciti e gli equipaggi delle navi, era qui che si
trovò una parte almeno dei coloni per l’Irlanda e il Nuovo Mondo, uomini disposti
a correre qualunque rischio nella speranza di conquistarsi un pezzo di terra (e
con essa lo status che ne derivava), speranza che non poteva avverarsi nella
sovraffollata Inghilterra”[11].
Con
questo materiale umano, il processo di colonizzazione fu in sostanza
organizzato dalla Compagnia in un primo momento e poi da istituzioni create dai
primi coloni. Un General Court, formato dai capifamiglia, determinava
l’autorizzazione ad insediarsi. Nel 1647 l’approvazione delle Law and
Liberties, creò una prima fusione tra diritto inglese e istanze radicali
religiose dei coloni. La crescita demografica fu imponente, da 250.000 abitanti
all’inizio del Settecento si passò a 2,5 milioni in soli cinquanta anni. La
gerarchia originaria era a tre strati: i diretti successori dei primi fondatori
al centro, religiosi, commercianti o proprietari terrieri; in mezzo artigiani e
piccoli proprietari; in basso i lavoratori salariati, spesso appena arrivati.
Poi ci sono gli schiavi.
Dividere
e gestire
Insomma,
in una società in crescita, ma isolata e immersa in enormi spazi e circondata
da nemici attuali o potenziali, dipendente da lavoratori sradicati e tenuti in
condizioni disumane di sfruttamento e minaccia, era essenziale dividere. Ovvero
impedire che i subalterni (siano essi ‘bianchi’, ‘neri’ o ‘rossi) si potessero
percepire come simili e diversi dai dominanti, che erano strutturalmente
minoranza. Oltre all’influenza della secolare cultura europea (gerarchica e
fondata su un concetto di premio e punizione inscritto nella storia della
fusione del cristianesimo paolino con la cultura romana[12]), costituì strumento di
questa tecnologia del dominio, la coltivazione della barriera razziale.
Specifiche leggi cercarono sempre di frenare la tendenza degli schiavi appena
arrivati di sottrarsi e formare villaggi di maroons, tanto più quando minacciavano
di unirsi a servi bianchi e indiani. Venne messo a punto un sistema di
controllo capillare, sottile e crudele, sia a livello fisico (con tremende
repressioni e punizioni, individuali e collettive) e psicologico. L’incubo che
dominava le élite, e lo farà per tutta la storia americana, era semplicemente
che i bianchi poveri si potessero unire ai neri (ed ai first peoples) contro
i ricchi.
Nel
1676 in Virginia ci fu un caso di questo genere. La “insurrezione di Bacon”,
che venne repressa con grande dispiego di uomini e mezzi, e punita in modo
spietato. Bianchi poveri e neri non potevano mai agire insieme. Bacon, che
organizzava bande armate per uccidere gli indiani, ai quali sottrarre la terra,
venne arrestato dagli inglesi ma liberato dalla folla (nel contesto coloniale erano
spesso gli immigrati poveri, affamati di terra di proprietà e disperati, a
promuovere autonomamente la spinta per il genocidio dei first peoples.
Talvolta il governo coloniale agiva da freno, sulla base di equilibri
superiori). Allora scrisse la “Dichiarazione del popolo” che esprimeva
al contempo odio per i first peoples e risentimento per i ricchi. Di qui
la feroce repressione.
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La rivolta di Bacon |
Riassumendo,
la catena dell’oppressione in Virginia, nella quale all’epoca vivevano 40.000
coloni, era alla metà del Seicento e nel Settecento la seguente: “gli indiani
erano depredati dai bianchi della frontiera, che erano tassati dalle élites di
Jamestown, e l’intera colonia era sfruttata dall’Inghilterra, la quale comprava
il tabacco dei coloni fissandone il prezzo e ricavando centomila sterline
l’anno per il Re”[13].
Nacque
in questo contesto, sulla base delle protoideologie egualitarie importate
dall’Inghilterra (“livellatori”, “diggers”, “seekers”, “ranters”, quaccheri)
nel contesto della gloriosa rivoluzione della metà del Seicento[14] quella imponente
immigrazione che vide i poveri andare oltremare sulla base di un contratto di
servitù che durava da cinque a sette anni (e non era sempre rispettato).
Poveri, già sradicati e pericolosi in patria, talvolta ex militari, che
ovviamente rappresentano una minaccia. Dopo la metà del Seicento ne fanno parte
anche sbandati della “gloriosa rivoluzione”, talvolta con esperienza nella New
Model Army, che vengono trasportati sulle stesse navi negriere, a volte in
condizioni quasi analoghe, vengono comprati e venduti e sottoposti ad abusi, ma
reagiscono in modo individuale. Fuggendo o ribellandosi. Quando possono vanno
all’Ovest.
Questa
è la scena originaria nella quale si formano le divisioni di classe, genere,
razza e cultura le quali strutturano fino ad oggi la società americana. In
Virginia nel 1700 le famiglie abbienti principali erano ormai 50, e vivevano in
grandi piantagioni per l’esportazione del lavoro di schiavi neri, servi bianchi
e sorveglianti intermedi. Vennero allora scritte costituzioni schiaviste (quella
del North e South Carolina da John Locke), che istituirono e consolidarono una
nuova aristocrazia di tipo pseudo-feudale nella quale alla fine 8 famiglie
avevano il 40% del terreno e solo un esponente di queste aveva il diritto ad essere
nominato Governatore. Non diversamente avvenne a New York ed a Boston, dove nel
1687 50 individui possedevano il 25% della ricchezza, ma nel 1770 ormai ne avevano
il 40% e il 30% della popolazione maschile adulta e bianca non aveva nulla.
Nel
1700 gli schiavi erano l’8% della popolazione, nel 1770 diventarono al Sud il
21%, ma gli abitanti generali, nel frattempo, erano esplosi (sia per crescita
demografica autoctona, sia per immigrazione).
In
questo contesto gli scontri sociali si susseguirono, e resteranno alti in
pratica per due secoli.
La
“rivoluzione americana”
La
crisi “rivoluzionaria”[15] utilizzò questa energia,
ma fu canalizzata e sfruttata dalle élite. Le quali avevano concluso, sulla
base dell’esperienza, che i first peoples non servivano a nulla, i negri
erano docili e redditivi e i poveri bianchi invece pericolosi. Dunque, i
burocrati coloniali li spingevano verso la frontiera (contro i first peoples)
previa assegnazione a imprenditori concessionari. La meccanica era semplice e
consolidata, le élite politiche definivano nuove concessioni reali nei terreni
“vuoti” della “frontiera”; queste erano acquisite con anticipazioni dal sistema
finanziario del Nord ed assegnate a imprenditori che le spezzettavano e
rivendevano ai poveri appena arrivati; questi organizzavano carovane verso
l’Ovest per prenderne possesso, ovviamente uccidendo i first peoples
presenti. Quando andava male arriva l’esercito.
Come
è riassunto in un testo dell’epoca, bisogna “che gli indiani e i neri siano di
freno gli uni agli altri, per evitare che dato il loro numero ampiamente
superiore, veniamo schiacciati, dai primi o dai secondi”[16]. Anche se talvolta andava
male, nell’insieme funziona, da Bacon all’epoca rivoluzionaria si registrarono
18 sollevazioni, 6 rivolte di neri e 40 altre sommosse minori. Il razzismo fu
in questo contesto un potente strumento pratico al fine di rendere possibile
questa separazione e controllo. Un altro meccanismo fu la deviazione
dell’energia contro un altro nemico esterno: l’Inghilterra.
Nel
1776 alcuni personaggi eminenti creano quindi una nuova nazione su un’idea
geniale nella sua semplicità: un sistema di controllo nazionale capace di
unire paternalismo a comando. Venne in tal modo diretta la furia, che
nasceva da lotte di classe non completamente consapevoli (a loro volta connesse,
come abbiamo visto, con le tradizioni importate dall’Inghilterra seicentesca)
contro le élite giuste (e non contro di loro). Peraltro, ci furono sempre molte
rivoluzioni dentro la rivoluzione[17], tra questa quella dei “Regolatori”
di Ethan Allen che in alcune contee godettero dell’appoggio di 6 persone su 7.
La repressione dei “regolatori”, dove avvenne, determinò un sostanziale
disinteresse alla lotta contro gli inglesi, che venne condotta soprattutto
dalle classi medie (la “umanità di medio rango” di Colden) che furono cooptate
al Nord agli interessi del grande commercio e della intermediazione finanziaria
e fondiaria. I membri dell’associazione “Sons of Liberty”, ad esempio, oltre
ad essere di Boston, erano tutti delle classi medie e superiori; le classi
povere faticavano a farsi coinvolgere in quelle che alla fine gli sembrava (e
giustamente) una guerra tra ricchi.
Sarà
un politico di grande talento, e capacità populista, come Patrick Henry, a trovare
le parole giuste grazie ad uno stile intenzionalmente semplice e trascurato,
lunghe pause, un tono emotivo al contempo preciso e vago. Grazie all’azione di
questa coalizione, alla quale partecipò anche Thomas Paine, con il suo Common
sense, del 1776, e la retorica di Thomas Jefferson, alla fine “livellatori”
e “zappatori” furono marginalizzati ed estromessi dalla rivoluzione.
Durante
la guerra i poveri vennero in sostanza incorporati nell’esercito, e nella sua
promessa di avanzamento sociale, e le terre espropriate ai “lealisti” furono intelligentemente
utilizzate per creare una classe media cuscinetto, politicamente fedele al
Congresso Continentale. Emersero figure come George Washington (l’uomo più
ricco d’America, grandissimo proprietario terriero e di schiavi), un ricco
mercante bostoniano come Hancock, un agiato stampatore come Franklin (quel che
più si avvicinava nelle condizioni del tempo ad un intellettuale).
Finita
la guerra vennero regolati i conti con i first peoples.
Il
modello che si affermò, qui non è il caso di ripetere tutta la storia, fu
imposto nei dibattiti che seguirono tra le élite (Hamilton, Madison) sulla base
di un accordo di fondo per il controllo di classe della situazione. E sulla
base di un’alleanza sociale che vedeva favorevoli circa un terzo di piccoli
proprietari ed artigiani i quali fondamentalmente volevano essere protetti
dalla concorrenza inglese. Questa è la scena che portò in seguito al redde
rationem della guerra civile.
Guerre
di conquista e regolamento di conti
Ma
prima ci fu l’affermazione del “destino manifesto” ad espandersi che portò alla
guerra con il Messico del 1846, provocata con una scusa. Ci fu in tal caso un
serrato dibattito, nel quale Lincoln, non ancora deputato, si dichiarò
favorevole e Thoureau contrario, come molti lavoratori.
Si
trovò a dire il senatore Johnson, mettendo a punto una retorica da allora
sempre praticata:
“verremmo
meno alla nostra nobile missione se rifiutassimo di perseguire gli alti fini
che ci indirizza la saggia Provvidenza. La guerra è foriera di mali, e in ogni
epoca ha dispensato morte e distruzione in grande quantità; eppure, per quanto
ciò appaia imperscrutabile, l’Onnisciente Dispensatore degli eventi l’ha resa
al tempo stesso lo strumento per realizzare il grande obiettivo dell’elevazione
e della felicità dell’uomo. È alla luce di ciò che io aderisco alla dottrina
del ‘destino manifesto’”[18].
L’esercito
americano, per la metà formato da immigrati recentissimi irlandesi e tedeschi
che erano interessati solo al soldo, combatté e vinse alla fine una guerra
molto impopolare per entrambe le parti e condotta su grandi spazi. Nel 1848 il
Messico, occupata la capitale, capitolò e perse metà del paese.
Nel
Sud il sistema era invece imperniato sulla piantagione, ed una struttura che
potrebbe essere descritta come aristocratica (che esprime nei primi decenni
praticamente l’intera classe politica) che continuava a crescere sulla base del
lavoro schiavistico, il quale letteralmente macinava vite. In una indagine che
ci è rimasta si legge che in una piantagione nel tempo su 32 schiavi, solo 4
raggiungeranno i 60 anni, 4 i cinquanta, 7 moriranno entro i 40 e gli altri
prima, ben 9 a 5 anni (evidentemente i bambini di età inferiore neppure venivano
registrati). In queste condizioni erano frequenti piani clandestini per
ribellarsi ed uccidere i bianchi, o fuggire. Temendo l’unione con i bianchi
poveri la risposta fu di assumerli come sorveglianti, in secondo luogo
imponendo una religione particolarmente adatta a spostare sull’altro mondo i
desideri.
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Piantagione di cotone |
Su
questa base si affermò il modello di Lincoln, che, inaugurando anche qui una
tradizione, si presentava come rivoluzionario ma si appoggiava sul mondo degli
affari, vestendo di abiti umanitari un mix di ricchissimi e ceti medi del Nord
come propria base sociale ed elettorale.
Lo
scontro di interesse tra un Sud agricolo e dedito all’esportazione, ed un Nord
finanziario e proto-industriale, che attraeva immigrati europei e temeva la
concorrenza inglese, determinò infine la guerra civile che mobilitò molte
speranze nelle popolazioni marginali, chiamate a sostenere lo sforzo bellico. Speranze puntualmente tradite nel dopoguerra,
quando le terre furono restituite ai bianchi ricchi (anche del Nord). Superando
quindi la breve stagione di Grant che vide un piccolo insediamento di deputati
neri, e apertura delle scuole, che ma terminò negli anni Settanta, durando meno
di un decennio. Una nuova coalizione tra industriali del Nord e uomini di
affari del Sud inaugurò allora l’era del carbone e dell’energia.
Questo
clima di speranze deluse, è quello nel quale prese la parola una nuova
intellettualità che si era formata nelle scuole aperte ai neri e trovò in
persone come W.E.B. Du Bois[19] i propri leader.
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William E. B. du Bois |
Queste sono le condizioni nella quali, dopo la repressione del movimento della valle dell’Hudson, politici “progressisti” come Andrew Jackson padroneggiarono la retorica liberale e gli atteggiamenti populisti sulla base di una ben calibrata politica dell’ambiguità che, in sostanza, però continuò ad appoggiarsi sugli strati intermedi di commercianti ed impiegati (in crescita), verso una classe lavoratrice che fu tenuta costantemente in condizioni di frammentazione ed impotenza. Cominciarono a nascere, insieme ad una società più urbanizzata, nuovi fermenti come le prime forme di organizzazione femminile e il Movimento delle otto ore. Cosa che non impedì, nella crisi del 1873, l’emergere di un nuovo e più aggressivo capitalismo dei Carnegie e Rockfeller: i “Robber barons”.
Quando
partì la ripresa che farà ancora più grande e potente gli Stati Uniti, la
gestione delle tensioni crescenti avvenne sulla base di quello che Zinn chiama
un “terrazzamento sociale”, nel quale la remunerazione e il grado di
sfruttamento seguiva il colore (e l’epoca di immigrazione). Seguì la
meccanizzazione crescente dell’agricoltura e quindi lo spostamento della forza
lavoro sull’industria e la crescita della popolazione. Ma anche
l’infrastrutturazione del territorio, soprattutto ad opera delle ferrovie di
Carnegie e la rete crescente di interdipendenza finanziaria.
Contromovimenti
Theodore
Roosevelt venne eletto in un paese nel quale si susseguivano gli scioperi ed il
movimento per i lavoratori di Eugene Debs acquistava sempre più forza. Nel
quale si avviò anche l’Alleanza degli agricoltori in Texas dalla quale
nacque il movimento populista. Il Partito del popolo univa in una breve
e piena di energia stagione repubblicani del Nord, democratici nel Sud, operai
urbani e agricoltori neri e bianchi. Si trattava di uno strano partito,
radicale e interraziale che venne aggredito dalle retoriche delle élite anche
sotto questo profilo per inserire un cuneo tra bianchi e neri, operai ed
agricoltori. Fino a che durò cerca, tuttavia, di creare una cultura
indipendente; venne creato in Servizio Conferenze che arrivò ad avere 35.000
conferenzieri professionali, un enorme numero di riviste e opuscoli a stampa
che si occupavano di economia, teoria politica, legge e governo, etc. una sola
rivista, la “National Economist”, aveva 100.000 lettori.
Il
movimento fallì alla fine perché non riuscì mai di farsi carico di interessi
che erano potenzialmente divergenti e dirigerli, non riuscì ad unire
stabilmente nei e bianchi, e venne attratto e assorbito dalla politica
elettorale. In sostanza progressivamente, candidato dopo candidato e leader
dopo leader, venne assorbito e neutralizzato nel Partito Democratico.
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Logo del Partito dei Lavoratori |
Continuando
il suo racconto Howard Zinn ci mostra come ci sia sempre stato un nesso anche
tra la chiusura della frontiera (così decisiva per la stabilizzazione sociopolitica
della società americana attraversata da tensioni di crescita pericolose) e la
proiezione estera. Secondo le sue parole, “il sistema del profitto, con la sua
naturale tendenza all’espansione, comincia a volgere lo sguardo all’esterno”[20]. La depressione del 1893
fece nascere l’idea nel sistema industriale e finanziario che la vendita
all’estero poteva risolvere il sottoconsumo interno (senza obbligare ad alzare
i salari e quindi ridurre i profitti), prevenendo anche il conflitto di classe.
In sostanza si spostò all’esterno la tendenza a trovare un nemico e un
inferiore al quale rivolgere il proprio risentimento. Come disse sinteticamente
Theodore Roosevelt, “questo paese ha bisogno di una guerra”, ovviamente verso
le razze “inferiori”.
Ovvero
verso paesi che non sanno governarsi da soli e ‘hanno bisogno di aiuto’; in
sostanza una riaffermazione, fuori del continente, della dottrina del “destino
manifesto”. A farne le spese inizialmente furono le Filippine che in tre anni
di guerra aspra e violentissima furono occupate e piegate, passando dal dominio
spagnolo a quello americano.
Ma
siamo anche negli anni apicali della sfida socialista, quando autori famosi
come Mark Twain, Upton Sinclair, Jack London, Theodore Dreiser, Frank Norris,
promuovono l’idea e, d’altra parte, si affermò il taylorismo che puntava a
disinnescare la forza degli operai nelle fabbriche. I sindacati assumevano
sempre maggiore forza, ma anche qui si lavorò per separare lavoratori bianchi e
neri. Scriverà Du Bois, “il risultato finale di tutto questo è stato convincere
il nero americano che il suo nemico peggiore non è il padrone che lo rapina, ma
il lavoratore bianco suo collega”[21]. Si affermarono anche
organizzazioni operaie molto radicali ed efficaci, come i IWW (o “Wobblies”), i
quali propugnavano un’azione diretta, senza divisioni di sesso o razza, e puntavano
allo sciopero generale che espropri gli imprenditori. Un’idea basata su una
forma di anarco-sindacalismo, anche se minoritario (forse diecimila militanti
al massimo), ma determinato e coraggioso. Ad un certo punto i socialisti di
Debs furono spinti dal loro successo a prendere le distanze dai Wobblies, i cui
metodi spesso violenti, li rendevano un facile bersaglio. Non servì, perché
nelle condizioni della Prima Guerra Mondiale furono repressi insieme.
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Eugene Debs |
Nacque in risposta a queste tensioni una sorta di capitalismo politico che attenuava e sopiva, che concedeva, ma per tutelare meglio gli interessi a lungo termine della classe capitalista, operando per i suoi interessi generali e prospettici, più che per quelli della singola fabbrica o industriale. Lo scopo, dice Zinn, era molto semplice e chiaro: tenere a bada il socialismo.
Guerre
Ma
la lotta al socialismo non fu condotta solo dai politici dell’era progressista,
un altro modo è il solito classico: la guerra. In un momento di necessità arrivò
infatti a salvare la situazione la Prima Guerra Mondiale, proprio durante la
pericolosa recessione del 1914. Du Bois lo vedrà in modo semplice: il
capitalismo aveva bisogno di rivalità internazionale per creare una comunità
artificiale tra ricchi e poveri. In realtà è un effetto secondario gradito, la
crisi economica inasprì lo scontro tra capitali che si rifugiarono sotto la
protezione nazionale, e lo trasformò in scontro tra sistemi di capitali
nazionali e quindi nazioni. Scontro per gli “Imperi”, e quindi la proiezione
protetta di capitali e aree commerciali, e scontro per regolare i debiti[22].
Fatto
sta che la guerra consentì anche di regolare i conti interni. Il Presidente
Wilson fece arrestare Debs per tutta la guerra e annientare i IWW, arrestati e
processati in massa. Seguiranno le misure contro l’immigrazione dal Sud e
dall’esterno, con la parziale incorporazione della forza lavoro nera nelle
fabbriche del Nord e dopo il crollo del ’29 la rivolta dei reduci, il New Deal,
la TVA e l’inquadramento dei sindacati[23]. Il dopoguerra wilsoniano
fu anche l’epoca della retorica anticoloniale (che, in realtà, era rivolta
contro le colonie tedesche e solo quelle), promossa da un paese che, ricorda
Zinn, tra il solo 1900 e 1933 era intervenuto a Cuba 4 volte, in Nicaragua 2
volte, a Panama 6 volte, Guatemala 1 volta, Honduras ben 7 volte.
La
Seconda Guerra venne combattuta contro il nazifascismo, anche se durante
l’intero periodo intermedio la preoccupazione di tutte le potenze Occidentali era
piuttosto di fermare il comunismo. Lo dimostra l’atteggiamento nella Guerra di
Spagna e comunque quello verso le potenze dell’Asse, solo con molta riluttanza
designate come nemici. Questo, sia detto tra parentesi, fornisce uno sfondo
anche alle esitazioni di Chamberlain, che vedeva il nemico a Mosca, non a
Berlino. La guerra si combatté comunque con la solida determinazione,
distruzione sistematica delle città inclusa, e risolse anche problemi sociali
interni. Alla fine, servì, e quindi venne stabilizzata nella cosiddetta “Guerra
fredda” (questa volta contro l’avversario giusto).
Rivolte
e muri di gomma
Seguiranno
la rivoluzione cinese, la guerra di Corea, le lotte per la decolonizzazione
fino agli anni Sessanta inoltrati. Sul fronte interno la mobilitazione connessa
con il riarmo, la crociata di Mc Carty e la dottrina del “pericolo evidente ed
immediato”, la crescita del budget militare da 12 Mld nel 1950 a 45 nel 1960,
fino a 80 nel 1970. Ormai negli anni Cinquanta e Sessanta il paese visse una
sorta di economia di guerra permanente e si sentiva ormai sotto saldo controllo
da parte delle sue élite.
Ma,
durante gli anni tra la metà dei Sessanta ed i Sessanta avvenne l’esplosione
sociale e politica della quale lo stesso Zinn fu testimone e protagonista.
Iniziarono i neri, con le rivolte a Montgomery e l’emergere di grandi leader
come King e Malcom X, tutti uccisi ovviamente non appena si radicalizzarono
(Martin Luther King muore non appena comincia a parlare contro la guerra del
Vietnam e la povertà). Dopo la Grande marcia del 1963 Kennedy cercò di
riassorbire il movimento nella “Coalizione democratica”, come a suo
tempo fatto con successo con il Partito Populista. In sostanza riuscì,
ma per un poco ci furono movimenti divergenti, come quello di Huey Newton e le Black
Panther, i cui leader furono assassinati in modo specifico e mirato. Oppure
la League of Revolutionary Black Workers.
Emerse
quindi il grande movimento pacifista contro la Guerra del Vietnam (una guerra
coloniale nella quale gli Stati Uniti avevano preso il posto dei francesi)
nella quale furono impiegate sette milioni di tonnellate di bombe (il doppio
della Seconda guerra mondiale), e l’azione di grandi personaggi come Muhamad
Alì. L’apice della protesta si ebbe nel 1970, prima del ritiro americano nel
1975.
Ci
saranno anche molte altre mobilitazioni di diversi settori della società
americana: le donne, i first peoples[24],
le lotte nelle carceri nelle quali troverà la morte George Jackson. Una
generale rivolta contro “modi di vivere oppressivi ed artificiosi”, che si esprime
in tutto: dall’abbigliamento alla musica (con autori come Bob Dylan e Joan
Baez, tra gli altri). Cominciò a declinare la fiducia diffusa nel governo. Ne furono
segno giurie popolari sempre più ribelli, che assolsero Angela Davis e altri
membri delle Black Panther. Il momento più basso si ebbe con la crisi per le
dimissioni di Nixon.
Che,
tuttavia, furono, al contempo una deviazione di attenzione.
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Manifesto del Black Panther |
La
controffensiva
Di
qui partirà la controffensiva neoliberale. Avremo la Commissione Trilaterale
con Huntington, la destabilizzazione del Cile, la controffensiva in America
Latina e ovunque possibile, il tentativo di riconquista e riassorbimento
attraverso una sorta di “populismo dall’alto”. Per la terza volta, dopo “l’era
progressista” e la “nuova frontiera”, si giocò la carta di un membro
ricchissimo dell’establishment che si vestì da uomo del popolo come fece
l’aristocratico Patrick Henry nel 1700. Toccò ad un ricchissimo imprenditore di
arachidi del Sud, Jimmy Carter, vestirsi da contadino e costruire un richiamo
populista. Scelto per il ruolo da Rockfeller e Brzezinsky, Carter introdurrà un
pacchetto sofisticato di apparenti riforme e potenziamento delle spese
militari.
Seguirà
il cambio di cavallo rappresentato da Reagan, che fece crescere ulteriormente
il divario nella società americana e assistette all’inizio della disgregazione
dell’Urss, cosa che gli consentì maggiore spazio di manovra per avventure come
l’interferenza con i Sandinisti in Nicaragua, l’invasione di Grenada,
l’uccisione di Oscar Romero in San Salvador, e poi, con il successore ed ex
presidente Bush la prima guerra in Iraq (un vecchio e fedele alleato
mediorientale, fattosi ingombrante).
Poi
verrà Clinton con la sua retorica progressista e sostanza conservatrice, le sue
contraddizioni, la sua svolta decisa verso l’internazionalizzazione dei
capitali, la “terza via” e la riforma del welfare, l’eliminazione dei sussidi,
la lotta neoliberale allo “Stato interventista” e poi, la Somalia, il Nafta,
gli attacchi alla Jugoslavia al momento della dissoluzione sovietica. L’avvio
della spinta ad Est della Nato, Seattle.
Verrà
allora Bush Junior, con l’elezione rubata, l’11 settembre e la “Guerra al
terrorismo”, le nuove avventure militari e i “Neocon”, l’Afghanistan. Tutti i
fallimenti che fanno parte del declino americano di questi tempi[25].
Le
tecniche, dividere e nascondere
Al
di là di ogni valutazione il punto del libro è che il sistema americano riesce
sempre ad esercitare il più ferreo controllo dividendo e incorporando,
distribuendo qualcosa a quanto basta per avere uno scudo e impedire che si
sommino troppe forze ostili. Mette sempre gli uni contro gli altri, i piccoli
proprietari contro chi non ha nulla, i neri contro i bianchi, i nati in America
contro gli immigrati, i vecchi immigrati contro i nuovi, i professionisti
contro i non istruiti, le città contro le campagne, il Nord contro il Sud,
l’Est contro l’Ovest, i giovani contro gli altri e tutte le minoranze contro
tutte (una delle ultime tecniche[26]).
L’importante
è che non si veda la frattura principale, tra chi ha troppo e chi non ha
niente.
Un
esempio di questa attitudine dell’establishment anglosassone (e americano in
primis) di cogliere ogni opportunità per silenziare e neutralizzare le sfide
sistemiche, sostituendole se del caso con meno pericoloso ribellismo
individuale, in particolare estetico, è rintracciabile nella trasformazione del
Movimento dei diritti civili, che tanta preoccupazione fece prendere
negli anni Sessanta all’FBI, in un movimento molto meno solido di
risegregazione identitaria. Giovani avvocati come Derrick Bell si convinsero
che le lotte contro la segregazione erano state in fondo utili al potere. E che,
con le sue parole, “il razzismo è una parte integrante, permanente e
indistruttibile di questa società [americana]”[27]. Nel contesto della disillusione
post-moderna verso le “grandi narrazioni” e il correlato “universalismo
illuminista” (anche, se non soprattutto, della tradizione marxista che era il
vero bersaglio[28]),
la nuova strategia non era essere tutti eguali, ma tutti diversi. Creare
diritti differenziati che favorissero alcuni gruppi svantaggiati, risarcendoli
sul piano simbolico e spesso linguistico. Questa idea si contamina con quella
di “intersezionalità”, promossa da Kimberlé Crenshaw, con la sua “Teoria
critica della razza”. L’idea, apparentemente plausibile, è che ogni
individuo si forma all’incrocio di diversi attributi, secondo un’individuale ed
irripetibile costellazione di identità, come proposto da Donna Haraway. Dunque una
donna nera, o un omosessuale latinoamericano (è ovviamente irrilevante se ricco
o povero), non possono essere capiti se non da altre donne nere e omosessuali
latinoamericani. Non sfugge che secondo questa strana logica ogni mobilitazione
generale è impossibile, e soprattutto lo sono quelle per ragioni economiche.
Non per caso queste teorie nascono nelle più ricche università americane, da
persone certamente non di classe popolare. Secondo la sintesi di un anziano
Edward Said[29],
questa idea portante, che la vittimizzazione di gruppi identitari fornisca un
qualche accesso privilegiato alla virtù, non garantisce l’umanità, “attestare
una storia di oppressione è necessario ma non sufficiente, fino a che quella
storia non è ricodificata nel processo intellettuale e universalizzata per
includervi tutti i sofferenti”[30]. In altri termini fino a
che non è inserita nel contesto della produzione sociale dell’oppressione che
altri vivono, se pure diversamente, e in un progetto di riscatto che li
coinvolga. O, per dirlo in altro modo, “nonostante quanto pensano Lyotard e i
suoli accoliti, ci troviamo ancora in una periodo di grandi narrazioni, di
drammatici scontri culturali e di spaventose guerre”, le cose vanno quindi
collocate “nel più ampio contesto” e non solo dipendere “da una professionalità
tecnica o dalla stantia ‘giocosità’ della critica postmoderna, con il suo
altezzoso spregio per qualsiasi consa che non sia gioco locale o pastiche”[31]. L’autore palestinese,
che tanta parte ebbe nella formazione del paradigma, in questi ultimi scritti
protesta contro quella particolare “pedagogia dell’apartheid” ed esaltazione
del particolarismo, che impedisce in radice che “un maggior numero di persone
possa beneficiare dei vantaggi per secoli negati alle vittime delle
discriminazioni di razza, classe e genere”.
Grazie
a trucchi simili, trovati con istinto sicuro, alla fine l’America riesce sempre
ad indicare una bella casa amena su una collina, mentre all’ombra di questa
distrugge e tortura, schiavizza e incarcera, bombarda tutti e sempre (ma in
modo “intelligente”), dichiarandosi aggredito, obbliga tutti a regole che lui
stesso non rispetta e cambia ogni volta vuole, fa e disfa alleanze, designa
nemici esistenziali e “nuovi Hitler” con i quali fa patti prima, combatte in
mezzo e li rifà dopo. Tradisce gli amici, ogni volta possibile. Tradisce
soprattutto gli amici, perché li considera inferiori.
Si
comporta da impero, ma sempre, attentamente, “riluttante”. Obbligato, malgrado
la propria modesta inclinazione, da un “destino manifesto” che non ha scelto. Che
gli viene da Dio.
Conclusione,
lo spirito premoderno di un paese di frontiera
Perché
una nazione imperiale, che è nata sulla spinta delle componenti più disperate e
radicali della rivolta religiosa seicentesca, innestando sul giano bifronte del
liberalismo che abbiamo visto parlando del libro della Elkins sull’eredità di
violenza dell’Impero britannico[32], ha un tono
veterotestamentario. Qualcosa che, come vedremo leggendo Taubes[33], è radicalmente
antipaolino. Riporta l’universalismo, conformemente ad una postura anglosassone
implicita, al nomos ed all’ethos, alla Gerusalemme ed al popolo eletto. Paolo
intendeva, invece, fondare un popolo e contestando al contempo l’universalismo
romano e la comunità etnica ebraica. Nella “teologia politica negativa” paolina
l’autorità viene sempre dall’amore per il prossimo. L’altro da sé. Ed è un
movimento orizzontale che passa per il crocifisso, ovvero passa per l’indigenza
(l’imperfezione, la finitezza). Per ciò che è proprio dell’uomo e ha sempre a
che fare con l’amore che, esso solo, consente l’attivazione di quel movimento
tramite il quale accedere alla perfezione. L’uomo nella antropologia paolina, e
in quella cristiana al suo meglio, non è mai un ‘io’, ma sempre un ‘noi’.
All’universale non si arriva per un movimento interno di dispiegamento, come
l’espansione di una dote, di un possesso, ma si arriva perché ci si apre. Per
l’evento, nel quale ci si contamina[34], si sa perdere sé stessi
(così, e solo così, trovandosi).
Il
carattere veterotestamentario dell’universalismo imperiale americano promana
dalla stessa esibizione della violenza nuda, alla quale ci ha abituato dentro e
fuori, ogni qual volta si renda necessario. Le analisi di Jan Assmann, in Non
avrai altro Dio[35], e nelle altre opere[36] mostrano come la
“semantica culturale”[37] americana pratica la
relazione tra la violenza ‘necessaria’ e levatrice non in relazione al tema
della sovranità, quanto della trascendenza. In relazione alla missione divina.
Diventa allora una questione della verità. Pratica, e profondamente tanto più
quanto meno se ne avvede (come ogni habitus acquisito alla nascita), la
“distinzione mosaica”[38]. Impone alla costruzione
americana, figlia di tante diaspore individuali e di gruppo, di distinguere il
vero dal falso. Cosa che rende quella americana un’enorme “Cultura di enclave”
nel senso dell’antropologa Mary Douglas. Qualcosa che è autoevidente, determina
una cornice di vita comune, e anche individuale, la quale si contrappone
naturalmente ad altri stili di vita tanto profondamente da poter uccidere per
essa in modo assolutamente ovvio.
Ma
tutta questa energia, questa determinazione e questa violenza è posta a
servizio. Diventa una forma che rende possibile la stabilità dello
sfruttamento, sentendosene innocenti. In sostanza da un certo punto di vista la
costruzione americana è un capolavoro.
[1] - Scrisse il primo libro contro la guerra, Vietnam.
The logic of Whitdrawal, Beacon Press, 1967.
[2] - Howard Zinn, Storia del popolo
americano, dal 1492 ad oggi, Il Saggiatore 2017 (ed. or. 1980).
[3] - Nato nel 1474 e morto nel 1566 è stata una
straordinaria figura di teologo e vescovo spagnolo strenuamente impegnato nella
difesa dei nativi americani, e successivamente anche dei neri importanti in
sostituzione. Fondamentale fu la sua partecipazione al dibattito del 1550 di
Valladolid, nel quale il suo avversario fu Juan Ginés de Sepulveda. Il testo
principale è Bartolomé de Las Casas, Brevissima relazione della distruzione
delle indie, Marsilio 2012 (ed. or. 1552).
[4] - Zinn, cit., p. 25
[5] - David Graeber, David Wengrow, L’alba di
tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli 2022.
[6] - Graeber, cit., p. 61 e seg.
[7] - Graeber, p. 67
[8] - Si veda, Paul E. Lovejoy, Storia della
schiavitù in Africa, Bompiani 2019 (ed. or. 2012); Howard French, Africa.
E la nascita del mondo moderno, Rizzoli, 2023; Zeinab Badawi, Storia
Africana dell’Africa, Rizzoli, 2024.
[9] - Si veda, Francesca Canale Cama, Amedeo
Feniello, Luigi Mascilli Migliorini, Storia del mondo. Dall’anno 1000 ai
giorni nostri, Laterza, 2019, pp. 579 e seg.
[10] - Christopher Hilll, Il mondo alla
rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento,
PGreco, 2023.
[11] - Hill, op.cit., p. 38.
[12] - Un tema, questo, di enorme complessità per
un approccio al quale rimando ad Alessandro Visalli, Classe e Partito.
ridare corpo al fantasma del collettivo, Meltemi, 2023, cap. 3, Mutamenti,
p. 103 e seg.
[13] - Zinn. p. 52
[14] - Si veda, Christopher Hilll, Il mondo
alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento,
op.cit.
[15] - Mi permetto di rinviare anche ad Alessandro
Visalli, Classe e Partito. ridare corpo al fantasma del collettivo,
Meltemi, 2023, cap. 2, Rivoluzioni, p. 60 e seg
[16] - Zinn, p. 65
[17] - Alan Taylor, Rivoluzioni americane. Una
storia continentale, 1750-1804, Einaudi, 2017 (ed. or. 2016).
[18] - Zinn, p. 166.
[19] - Grande intellettuale e militante nero, in
realtà con sangue africano, olandese, francese e haitiano, nato nel 1868 e
morto nel 1963.
[20] - Zinn, p. 313. Per una lettura di questa
tendenza si veda, Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi 2020.
[21] - Zinn, p. 347
[22] - Si veda, ad esempio, Niall Ferguson, Il
grido dei morti, Oscar, 2014,
[23] - Fasi descritte anche nel mio Dipendenza,
op.cit.
[24] - Si veda, Aram Mattioli, Tempi di
rivolta. Una storia delle lotte indiane negli Stati Uniti, Einaudi, 2024.
[25]
- Gli altri, Obama, Trump, Biden, ancora Trump sono fuori del libro, perché
l’autore è morto nel 2010 e sostanzialmente termina con le immediate
conseguenze del 11 settembre 2001, Afghanistan prima dell’Iraq. Non parla della
seconda guerra in Iraq e non della crisi del 2008. Non dei due fallimenti di
entrambe.
[26] - Si veda Yascha Monk, La trappola
identitaria. Una storia di potere e di idee del nostro tempo, Campi del
Sapere, 2023.
[27]
- In Yascha Monk, La trappola identitaria.,
cit., p. 59
[28]
- Non è difficile riconoscere una linea genealogica precisa tra l’emergere, tra
gli anni Cinquanta e i Sessanta, di idee riprese dagli autori della ‘critica
della ragione’ formatisi negli anni Trenta tra le due guerre, e il loro
consolidarsi e diventare dominanti negli anni Ottanta, quando il marxismo
subisce un autentico tracollo. Quando gli autori della svolta postmoderna
criticano le “grandi narrazioni” e “l’illuminismo”, in realtà stanno attaccando
l’idea di rivoluzione ed il marxismo-socialismo.
[29]
- Edward Said, Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi,
Feltrinelli, 2008 (ed. or. 2000).
[30]
- Said, cit., p. 437
[31]
- Idem.
[32]
- Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’imparo
britannico, Einaudi Torino 2024 (ed. or. 2022).
[33]
- Jacob Taubes, La teologia politica di San Paolo, Adelphi 1997 (ed. or.
1993).
[34]
- Questa grande parola la uso nel senso di Derrida.
[35]
- Jan Assmann, Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza,
Il Mulino, 2007.
[36]
- Jan Assmann, Verso l’unico Dio. Da Ekhnaton a Mosè, Il Mulino 2018
(ed. or. 2014); Jan Assmann, Dio e gli dei. Egitto, Israele e la nascita del
monoteismo, Il Mulino, 2009.
[37]
- Per come la descrive Assmann “le grandi narrazioni e le differenziazioni
principali con cui una società si orienta nello spazio e nel tempo e che
rendono impresse nei miti fondatori, nei simboli, nelle immagini e nei testi
letterari della propria tradizione”, in Non avrai altro Dio, cit., p.
29.
[38]
- Termine centrale della interpretazione di Assmann, per la quale la
trasposizione che Mosè pratica dalla esperienza imperiale del suo tempo
(Assiria ed Egitto) tra la vera e la falsa religione, tra vecchio e nuovo, che
separa e distingue un “popolo che dimora a parte” (Nm 23, 9). Si veda Assmann, Dio
e gli dei, cit., p.189.
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