Quello che segue è un racconto estratto da un libro in preparazione del tutto atipico per me. Si tratterà di un romanzo filosofico che esplorerà la crisi della modernità e l'emergenza di nuove identità e cosmotecniche in un futuro prossimo e remoto. L'opera si articola per ora in sedici racconti interconnessi che, come tessere di un mosaico, costruiscono un'unica, complessa narrazione che si estende per oltre un secolo, dal 1910 al 2080. Il punto di partenza è la frammentazione: dai vecchi mondi che crollano (l'artigianato francese di Françoise, la comunità hillbilly di Jack Donovan) alle rovine di Gaza dove il passato e il presente si confrontano (le missioni di Nabil e Mario Mascali che sono di seguito presentate). Man mano che il lettore procede, i fili narrativi si uniscono in una trama che attraversa continenti e generazioni. Scopriremo la lotta di Mbali in Sudafrica contro una tecnica che aliena ed estrae valore, la ricerca di Xuan in Cina per una cosmotecnica radicata nella tradizione confuciana e taoista aperta allo spirito del marxismo e la lotta per la liberazione. Tutti diventano i pilastri di una riflessione sulla necessità di una pluralità di mondi e del superamento del colonialismo culturale occidentale.
Al centro del romanzo si troverà il dramma che abbiamo davanti a noi. Quel capitalismo tecnocratico senza freni che si nutre del vuoto di senso e trasforma la vita umana in isole di disperazione da cui estrarre emozioni e ricordi da mettere a valore. Il protagonista, Giovanni Mascali, un imprenditore e intellettuale che nel romanzo morirà alla metà del secolo in corso e sarà incorporato in un cyborg, incarna la crisi dell'identità in un'epoca di ibridazione radicale. La sua “rinascita” non sarà un miracolo, ma un doloroso percorso per riconquistare l'umanità attraverso la lotta, la scoperta della relazione e il riconoscimento di sé nell'altro. Il suo nuovo corpo e IA personale, il Guǐhún (fantasma), creato da Xuan in Cina, diventerà un compagno e un archivio vivente, un'entità che non solo facilita la sua esistenza ma lo spinge a confrontarsi con il passato che non può dimenticare. La sfida culminerà quando Giovanni e la sua “Rete Cyborg” - un'alleanza di ibridi e pensatori che si oppongono all'egemonia delle IA che infantilizzano e sfruttano l’umano – insieme ai suoi amici di sempre, svilupperanno un “Codice” per disturbare il “tacito” del pensiero occidentale (il suo universalismo astratto ed etnocida) e riaprire la possibilità di un futuro plurale. Un attacco concluderà il romanzo. Sarà portato a termine da un vecchio nemico ed innescherà una reazione a catena che metterà in discussione la logica ferrea e funzionalista che governa il mondo.
Le domande del romanzo sono cosa significhi essere umani in un mondo dominato dalla tecnica? È possibile un nuovo Codice, che pieghi la tecnica all’umano senza spezzarla, incrinando il potere delle macchine?
2025, Gaza,
Palestina
Nabil
Passare
dall’Egitto era stato più difficile del previsto. El-Khatib non era un cognome
che nel mondo fosse sconosciuto, a 52 anni ormai gli apriva tutte le porte, ma
non al posto di frontiera egiziano di Gaza. Tutte le sue credenziali, la fama,
le mostre prestigiose e i contatti con il mondo dell’arte internazionale
improvvisamente scomparvero davanti al passaporto palestinese. Nabil si sentì
trascinato indietro.
Seduto su
quella scomoda sedia di plastica gli sembrò di vedersi a venti anni, quando
nella sala di attesa della segreteria di Oxford attendeva di essere chiamato.
Un ragazzo spaventato e fuori posto. Ma ora era peggio, dopo trenta anni un
annoiato funzionario grassoccio lo aveva sottoposto ad un minuzioso
interrogatorio in un claudicante inglese che gli faceva male alle orecchie. Poi
aveva dovuto ottenere che il suo Istituto a Londra garantisse una somma davvero
vergognosa come cauzione, e lo avevano schedato.
Questo, in
particolare, lo aveva colpito come un pugno. Ma la collezione della famiglia
Al-Ridwan, e quindi di Husayn Pasha, doveva essere salvata. Poteva diventare la
base del lavoro sulla memoria palestinese per decenni. Nabil si fece forza.
La stanza era
piccola, calda, dominata da un ventilatore a soffitto che lentamente girava
cigolando, sembrava sul punto di cadere da un momento all’altro. Lo avevano
portato qui con una macchina che correva decisamente troppo velocemente nel
traffico incredibile del Cairo, sembrava voler quasi uccidere qualcuno. C’erano
almeno altre dieci persone, Nabil le stava studiando. Quella coppia con il
bambino in particolare, lui aveva probabilmente quaranta anni e lei trenta, il
figlio dieci. Non smettevano di parlare ma non li capiva bene. Scavò nella sua
memoria, ma quel dialetto del Sud gli risultava contemporaneamente familiare e
lontano. Ascoltandolo, mentre forse una parola su tre aveva senso, si ricordò
di quando nella grande casa del padre vennero quei domestici che parlavano
così, venivano da Khan Younis. Lui li aveva guardati come se fossero degli
animali strani. Ma piano piano il loro bambino era diventato familiare, e ne
ricordava ancora la vitalità gioiosa, come era? Ahmed, gli sembrava… Sì, Ahmed.
Alla fine, lo lasciarono passare.
Al Gaza border crossing la situazione era complessa, con la
ripresa del monitoraggio Ue le sue credenziali avevano qualche peso, il nome
anche. Respingerlo poteva costare uno scandalo internazionale, se pure goccia
nel mare (ma il mare è, alla fine, fatto di gocce). L’autorizzazione dall’Autorità
Palestinese (con il tacito assenso di Hamas) era stata ottenuta per via
diplomatica dalla famiglia Al-Ridwan, che lo aveva invitato, ma ricominciarono egualmente
gli interrogatori.
<Per sicurezza>, dissero. I funzionari palestinesi lo
sentivano come un estraneo. Non capivano l’accento, gli sembrava inglese, e lo
vedevano come uno sradicato. D’altra parte, Nabil si era sentito così per
decenni, con la sua cultura diasporica, né Occidentale né araba, ma non aveva mai
ritenuto che fosse un problema. In fondo, si era detto, dividere le persone
sulla base dell’appartenenza nazionale o di una presunta omogeneità razziale è
il fondamento dell’imperialismo.
Qui lo vedeva al rovescio. Ma, si chiese, se ogni individuo, se
lui, Nabil, potesse essere descritto senza resti come irrimediabilmente membro
di una razza, o categoria, o genere. Categoria che non può essere compresa,
accettata, assimilata, da tutte le altre, allora non saremmo di fronte alla
meccanica stessa del terrazzamento coloniale? Tutto in lui si ribellava a
questo. Lentamente emerse un’indignazione che non riusciva a nascondere.
Come intuendolo, il funzionario disse, “quale è il problema,
signor El-Khatib? Dobbiamo completare i controlli e aspettiamo la conferma
scritta. Lei mi sembra troppo nervoso”. Sembrava sospettoso, dietro la sua
scrivania grigia.
Nabil lo guardò. Aveva forse venticinque anni, capelli neri ed
occhi neri, pelle leggermente olivastra, un’uniforme mimetica, che sembrava
americana. Si vedeva bene che si sentiva importante, con il suo addestramento
da Guardia Presidenziale e la bandiera palestinese ricamata sul petto. Parlava
un misto di arabo e americano e sembrava in fondo annoiato. Al suo fianco un
poliziotto con la sua uniforme blu, leggermente stropicciata, taceva, come
intimidito.
“Nessun problema, sono solo stanco”, rispose prudentemente.
“Va bene, signor El-Khatib, ma la sua storia è insolita, abbiamo
bisogno di essere sicuri che la famiglia Al-Ridwan l’abbia davvero invitata.
Quando arriverà il loro emissario potrà andare”.
Sospirò e abbassò lo sguardo.
Un’ora dopo era sulla macchina nera dell’autista dei Al-Ridwan,
con a fianco l’emissario. Nabil lo squadrò, senza dare l’impressione di
guardarlo. Alto, robusto, forse quaranta anni, sicuramente armato, molto sicuro
di sé e in qualche modo minaccioso. Aveva una corta barba e una piccola
cicatrice sul collo. Guardava fisso davanti a sé e aveva detto sì e no cinque
parole, da quando era venuto.
La sua presenza era stata sufficiente.
Con una strana timidezza Nabil si guardò intorno mentre la
macchina abilmente si muoveva nelle strade di Gaza. Attraversare Rafah fu
abbastanza difficile, dai poco meno di trecentomila abitanti che aveva prima
dell’ottobre era salita a quasi un milione e mezzo, una marea di persone
sradicate costrette in campi profughi a perdita d’occhio. Dovevano fare una
quarantina di chilometri, fino a Gaza City, nel quartiere Rimal, un tempo
splendido con le sue ambasciate, biblioteche e gallerie d’arte. Passarono per Khan
Younis e al Check point riconobbe immediatamente il dialetto della sua
infanzia, quello di Ahmed. Il bambino gli tornò davanti agli occhi, sentiva la
risata inconfondibile, quasi un sussulto, gli occhi che a tratti erano come
velati di tristezza, ma erano solo attimi. Gli sembrò di sentire l’odore di
casa.
Si riscosse, la macchina ripartì, il suo compagno di viaggio aveva
detto due parole incomprensibili, ma erano bastate. Forse era bastato lo
sguardo.
Sentiva l’odore della frutta e delle spezie nelle bancarelle
poverissime che la macchina sfiorava, a velocità improbabile. Sembrava che
l’autista temesse qualcosa, un cecchino, un missile, ma forse era solo
l’immaginazione di Nabil. Forse era solo abitudine.
Forse.
Passando per Deir al-Balah videro un convoglio umanitario.
L’autista si fermò subito a cinquecento metri di distanza. Il suo compagno
scese, sembrava nervoso. Guardava ovunque e tirò fuori dal bagagliaio un
canocchiale con il quale seguì la linea dell’orizzonte. Sembrava tutto a posto.
Si mise alla radio e parlò con brevi frasi secche, da militare.
Aspettarono dieci minuti e poi tornarono indietro per prendere una
svolta cinque chilometri prima. Intorno c’erano solo palmeti e serre distrutte.
Ogni tanto crateri di bombe. Quasi nessuno in giro ed i pochi che passavano lo
facevano in fretta.
Entrarono a Gaza City dopo un’ora e altre due deviazioni. Sembrava
tutto distrutto. Avvicinandosi al quartiere di Rimal la situazione migliorava.
Al Check point fu rapido, l’uomo vestito di nero si fece vedere e
disse qualcosa a monosillabi, alzarono la sbarra. Nabil vide solo le Guardie
presidenziali con i mitra che si spostavano.
Dopo cinque minuti, erano alla villa.
La tenuta Al-Ridwan aveva vissuto tempi migliori. Un alto muro la
circondava, ma l’intonaco era caduto in più punti e alcune aree erano state
ricostruite alla meglio. Il cancello di ferro battuto era imponente, ma a
tratti arrugginito. Percorsero il viale, attraversando un parco che era ormai
incolto da tanto tempo. Lontano vide un olivo che poteva avere almeno
cinquecento anni, con un tronco contorto spesso alcuni metri, una chioma ampia,
una forma disegnata dai secoli. Dominava lo spazio, intatto.
La villa aveva due piani, ma sulla facciata c’erano i segni di un’esplosione
avvenuta nelle vicinanze. Un angolo sembrava essere stato ricostruito, ma non
era stato finito. L’atrio era grande, fresco, pulito.
Una voce lo chiamò.
“Professor El-Khatib?”.
Si fece avanti Layla Al-Ridwan, una donna sui trenta o
trentacinque, alta e bella, con i capelli raccolti e gli occhi scuri e
profondi. Aveva parlato in un impeccabile inglese oxfordiano.
Nabil si sentì a casa.
Aveva una semplice tunica, fermata da un monile d’oro piccolo ma
davvero bello.
“E’ un grande piacere, ed un onore, riceverla. Abbiamo seguito per
anni il suo lavoro”, sorrise la giovane donna.
“Un grande onore per me essere qui”, rispose Nabil.
“Sa”, continuò lei con un sorriso, “sicuramente non lo ricorderà,
ma ho visto la sua bellissima mostra sull’assenza al Moma, nell’ottobre del
2020. Ci hanno anche presentati”.
Nabil non lo ricordava, ma annuì per cortesia. Era stato un
evento, il suo saggio su “L’assenza come patria” aveva fatto molto discutere. Artisti
del calibro di Farah Al Qasimi, Walid Raad, Mona Hatoum, Zineb Sedira e Abed
Haddad avevano attratto l’occhio del mondo.
Gli offrirono un caffè arabo preparato con antica maestria, in
piccole tazze finjan, e dolcini. Dei baklava e ma’amoul. Fu versato molto
lentamente, in silenzio, con cura ed attenzione, più volte.
Si sedettero su un divano che aveva visto tempi migliori e lo
gustarono.
Seguì un attimo di silenzio.
Nabil si guardò intorno. La sala era grande, le pareti piene di
specchi, ma alcuni erano rotti. I Majlis bassi, lungo le pareti erano pieni di
cuscini imbottiti in velluti. Di colori vivaci, blu notte e porpora. Alcuni
ricamati a mano e antichi. Il divano su cui si erano accomodati sembrava
davvero antico, in legno intarsiato e braccioli scolpiti in un legno scuro. La
seduta in broccato dorato. Il kilim turco era spento, ma aveva al centro un
medaglione rosso ben visibile. Le tende erano pesanti, in seta grezza ocra e
rame, ricamate, accompagnavano le pareti anche drappi in tessuti beduini, forse
molto antichi, a testimoniare una famiglia che aveva regnato cinquecento anni
fa, prima dei turchi.
Dominava tutto l’arazzo che, per primo, aveva attirato la
meravigliata attenzione di Nabil. Si avvicinò per guardarlo. Enorme, su una
intera parete, raffigurava Gerusalemme del XVI secolo, era sbiadito e aveva
bisogno di un urgente restauro. Avrebbe potuto essere il pezzo forte della
collezione.
Questo non poteva assolutamente essere perduto.
Layla si avvicinò.
“E’ nella nostra famiglia da sempre”, ora parlava in arabo.
“È bellissimo”, rispose Nabil con un sospiro involontario, non
riusciva a staccare gli occhi che esploravano ogni dettaglio, registravano le
strutture, le forme, le proporzioni tra le masse ed i colori. La sapienza con
la quale ignoti artisti, ma abilissimi, avevano alternato i colori e la
materia, registrando nella forma la trascendenza del potere ed il carattere
sospeso tra due mondi della città che aveva visto il mondo passare.
‘Solo su questo potrei lavorare per anni’, pensò.
Rispose in arabo, dopo una pausa, “non si può lasciare che Israele
lo distrugga, la memoria del tempo e la storia del mondo è qui, davanti a noi”.
“È vero”, rispose la nobildonna, “ma noi non possiamo più
proteggerlo, qui tutto cade”.
Questa idea aprì uno squarcio nel petto di Nabil. Si voltò di
scatto e si allontanò, quasi con furia.
Proprio in quel momento l’uomo in nero si affacciò sull’atrio e
disse qualcosa a Layla che Nabil non riuscì a cogliere. Lei chiese scusa e si
allontanò verso l’ingresso.
Restò da solo.
Ne approfittò per guardare meglio la sala. Su un tavolo c’era un
leggio con un manoscritto aperto.
Si avvicinò. Era un codice miniato probabilmente del XIII o XIV
secolo. Gli occhi esperti di Nabil lo classificarono.
Un Corano, nello stile calligrafico Muhaqqaq, decorato con
arabeschi di oro zecchino, con le Sure decorate in blu, rosso e verde. Margini
con elaborati e raffinatissimi decori geometrici e floreali. Una incredibile e
rarissima legatura mamelucca. Un pezzo unico ed inestimabile.
Dietro, in una piccola libreria i dorsi con pesanti legature di
cuoio e nomi sbiaditi in arabo di trattati arabi. Si avvicinò, si trattava di
Ibn Taymiyya e Ibn ʻAṭāʼ Allāh al-Iskandarī. Nabil si ritrasse istintivamente.
Era di fronte alle fonti del sufismo: la Fatwa sul popolo Hims e La
saggezza dei maestri (Ḥikam Ibn ʻAṭāʼ Allāh). Gli sembrò anche di
leggere sul dorso, I giardini dei devoti (Rawḍat al-Muḥibbīn), di
Ibn Qayyim al-Jawziyya. Qui il grande Trecento arabo si presentava in scena.
Una vertigine gli impedì di vedere anche il Commento
sull'Anatomia del Canone di Avicenna (Sharḥ tashrīḥ al-Qānūn), di Ibn
al-Nafīs, con il quale si retrocedeva di un secolo. Testi antichi di ottocento
anni, esposti alla polvere ed alle bombe.
Layla rientrò.
“Professor El-Khatib, le presento Mario Mascali, un amico italiano
che ha avuto il coraggio di raggiungerci in questi giorni tragici”.
Si fece avanti un uomo sui settanta, alto e robusto, energico, con
uno sguardo diretto e penetrante, intelligente ed autorevole. Era vestito
all’occidentale, con un abito impolverato e stropicciato, ma di alta sartoria.
Attraversò con pochi passi la distanza tra di loro e tese la mano con un
sorriso.
“Buongiorno, professor El-Khatib, la sua fama la precede, è un
piacere conoscerla”, disse in un inglese perfetto, con lieve inflessione
italiana.
“Buongiorno, il piacere è mio”, rispose Nabil.
Si guardarono negli occhi, riconoscendo a vicenda il loro posto
nel mondo.
“Il dott. Mascali è un imprenditore italiano che è socio della Koç
Grubu, che tra le sue tantissime attività ha anche l’energia, il suo settore”,
disse Layla.
“Sì, e il mio amico Orhan Yıldız della Koç ha perso la moglie Elif
in un bombardamento qui, a Gaza”, aggiunse Mario con uno sguardo triste.
“Elif era anche mia amica, una donna meravigliosa, intelligente e
sensibile, lo dovevo accompagnare a prenderla. Era mio dovere”, terminò.
Nabil e Layla lo guardarono perplessi. Venire a Gaza in mezzo alla
guerra era pericolosissimo, farlo per accompagnare un amico, rischiando tutto,
era davvero insolito.
“Ricevervi è un piacere, e, naturalmente la famiglia Al-Ridwan è a
vostra disposizione, signor Mascali, ma state correndo un rischio enorme, ogni
giorno un drone israeliano ci può esplodere sopra la testa, un cecchino
spararci ad un posto di blocco, o possiamo saltare su una mina. In effetti per
lo più non ci muoviamo da casa”, disse Layla.
“Lo so”, risposte Mario con un lento sorriso, “ma non potevo
restare a casa a guardare tutto questo. Ho bisogno di guadagnare il diritto di
chiedere perdono, o almeno di sperarlo.”
Aggiunse, a voce più bassa, “la mia società ha fatto filtrare
tutti gli aiuti che ho potuto, e sono venuto anche ad assicurarmi personalmente
che non vadano alle persone sbagliate. Non servirà a molto, ma non posso
altro.”
Entrò nella sala Orhan Yıldız, avvicinandosi tendendo la mano.
Aveva circa quaranta anni, forse cinquanta, i capelli brizzolati e il viso
aperto e franco. I suoi occhi verdi facevano uno strano effetto.
“Buongiorno, Gentile signora Al-Ridwan” (Al-Ridwan Hanımefendi)
disse con tono quasi cerimoniale.
“Buongiorno, professor El-Khatib”, rivolgendosi a Nabil.
Tornando a rivolgersi a Layla, aggiunse, “anche se la mia società,
la Koç è nata negli anni Venti del Novecento, le famiglie che ne sono l’antico
cuore sono legate da secoli di commercio con la vostra famiglia. Dall’Anatolia
al levante, i commerci ci hanno tenuti in contatto”.
“E poi, la nuova energia ci ha fatti reincontrare con il nuovo
millennio”, rispose Layla, sorridendo a quelle improbabili, ma cortesi,
genealogie.
Ripeterono il rito del caffè.
“Domani dovremo andare a cercare di raggiungere Elif, poi useremo
i canali delle nostre aziende, per portarla a casa, possiamo aiutarvi in
qualche modo?” offrì Mario.
“Sarebbe prezioso”, rispose Nabil, “io sono qui per mettere in
salvo la collezione della famiglia Al-Ridwan, ma farla uscire non sarà affatto
semplice. Soprattutto perché sembra che l’esercito israeliano abbia un gusto
particolare nel distruggere la storia di Gaza”.
“Fino a che siete in questo quartiere nessuno vi può toccare”,
risposte Layla “se non dall’aria, ovviamente”.
“Ma se usciamo Gaza City è un posto pericoloso ed il resto della
regione è un incubo”, completò.
“La Koç non può essere toccata da Israele, sarebbe come dichiarare
guerra alla Turchia”, disse allora, con una punta di orgoglio Orhan.
“Ed anche la nostra compagnia non manca di relazioni, a Washington
come a Pechino, spero che il Mossad lo tenga presente”, aggiunse Mario.
“Forse lo farà. Ma l’IDF e le Special Forces non sempre sembrano
rispondere ad un comando centrale. La nostra sensazione è che Israele stia
perdendo coesione e unità, questo la rende ancora più pericolosa”, rispose Layla.
“Capisco”. Rispose Mario, “ma dobbiamo fare quel che possiamo.
Come ho detto prima proprio non potevo restare a guardare”.
Tutti tacquero.
Si diedero appuntamento dopo una settimana. Mario e Orhan
sarebbero tornati con Elif e con i camion marchiati Koç per prendere le
collezioni. Ovviamente insieme a nutrite forze armate, per una volta dalla
parte giusta.
La mattina partirono, usando cinque Humvee blindati con i marchi
delle società e dei droni di sorveglianza.
Nabil passò la settimana a selezionare, classificare, ordinare e
imballare la straordinaria collezione della famiglia.
Nel suo diario scrisse: <tutto questo è la storia dell’umanità.
Non può andare perso, sono le radici. Non dei palestinesi, né dell’Occidente, o
dell’Oriente (o di quella assurda formula del “Medio Oriente”), sono le radici della
nostra assenza. Qui c’è tutto. E quindi c’è la dimostrazione che da ogni angolo
del mondo si vede l’umanità, la cultura umana nel suo complesso. Si vede, ed è
sempre diversa>.
Ora, finalmente, aveva capito che non bisogna sentirsi diasporici,
non c’è una nobilità nell’essere sradicati, o oppressi, che la vaghezza delle
letture decostruttive, sulle quali si era a lungo esercitato, erano manierismo.
Davanti alla serietà della morte, la distruzione, la dignità e la
forza del popolo palestinese che vedeva davanti a sé, davanti all’ulivo, ritto,
Nabil capì che il passato è con noi. Allo stesso tempo trascorso.
Irrimediabilmente.
Quel che va salvato è il presente. E tutto qui era presente.
Mario e Orhan si mossero
velocemente, la missione era stata preparata con cura ed il coinvolgimento del
governo di Ankara, tuttavia i rischi erano enormi. Le diverse fazioni
palestinesi erano sotto estrema pressione. Non si poteva escludere che gruppi
salafiti-jihadisti legati a Daesh - deboli ma molto determinati - li considerassero
bersagli legittimi. Peraltro, anche alcune fazioni di Hamas avrebbero potuto
identificarla come un’azione straniera, da combattere per principio. La stessa
IDF poteva “distrarsi” e dare un segnale alla Turchia, per non parlare delle
milizie dei coloni, pericolosissime.
Sulla strada costiera, per paura delle mine, il convoglio
procedeva lentamente, in quanto i droni lo precedevano con i loro sensori. I
marchi Koç, sul fianco e il tetto, erano visibili anche al buio, dieci uomini
armati erano a bordo e pronti a tutto. Campi ridotti a crateri, ulivi divelti,
palme annerite, ogni tanto qualche casa distrutta. Mario era silenzioso, sul
suo tablet guardava il territorio dai satelliti. Orhan parlava in turco,
rapido.
All’improvviso ci fu un boato.
I due blindati davanti si aprirono e gli uomini si affacciarono
sul tetto portando una mitragliatrice ciascuno.
“Un razzo?” chiese Mario.
“Forse”, rispose il Caposquadra.
Freneticamente chiamarono il gruppo di controllo, che allertò i
canali diplomatici con le fazioni note. <Fermate l’attacco. Missione di
recupero, non ostile. Ripeto, fermate l’attacco. Protezione diplomatica
Ankara>.
Non ci fu risposta.
Un Humvee fu sfiorato da un razzo. Si sentirono crepitare armi
automatiche leggere.
“Non è un attacco militare. Probabilmente gruppi jihadisti”, disse
il Capoquadra.
‘O qualcuno che vuol far pensare lo siano’, pensò Mario.
Mentre due Humvee accelerarono nella campagna verso la minaccia,
correndo a velocità sostenuta e sparando, Mario respirò lentamente. Se fosse
stato un attacco diversivo israeliano ora sarebbe arrivato il missile, e non ci
sarebbe stato nulla da fare.
Nulla da fare.
Chiuse gli occhi, mentre attendevano.
Li riaprì quando il mezzo si rimise in movimento. Era tutto
finito.
Arrivarono nel pomeriggio.
Elif era stata preparata con cura araba, un tajhiz al-mayyit
rigoroso. Le donne avevano lavato il corpo, con acqua pulita e foglie di
canfora, il sudario con cinque teli bianchissimi era stato disposto con cura,
senza cuciture. Tutti eguali davanti alla morte. Il Salat al-janazah era stato
compiuto all’aperto. Ma la povera amica era morta da cinque giorni, e dunque
era stata messa in una improvvisata camera con ghiaccio, scavata sotto la
sabbia.
La trovarono così, come era possibile nelle circostanze. Orhan era
distrutto dal dolore, l’onore e la cura che la comunità locale aveva dato alla
morte della sua amata moglie, malgrado fosse turca, in qualche modo rese più
presente la perdita. Mario guardò quel povero corpo, che era stato una donna
brillante e piena di passione per la vita.
‘Finis rerum’.
La sollevarono con dolcezza, la misero nella cassa che avevano
portato dentro i suoi teli e la ricoprirono di foglie di canfora e petali di
rose bianche. Orhan poggiò un anello sul corpo.
Il ritorno fu tranquillo. La comunità locale li accompagnò con
dieci macchine scoperte ed armate.
Giunti alla villa, si incontrarono con Nabil.
Aveva preparato le casse con i tesori da portare a Londra.
Lo trovarono sotto l’ulivo, “grazie, cari amici”, disse.
“Ma io resto qui”.
Annuirono.
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