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mercoledì 10 settembre 2025

I corpi di Gaza. Un racconto.

 

Quello che segue è un racconto estratto da un libro in preparazione del tutto atipico per me. Si tratterà di un romanzo filosofico che esplorerà la crisi della modernità e l'emergenza di nuove identità e cosmotecniche in un futuro prossimo e remoto. L'opera si articola per ora in sedici racconti interconnessi che, come tessere di un mosaico, costruiscono un'unica, complessa narrazione che si estende per oltre un secolo, dal 1910 al 2080. Il punto di partenza è la frammentazione: dai vecchi mondi che crollano (l'artigianato francese di Françoise, la comunità hillbilly di Jack Donovan) alle rovine di Gaza dove il passato e il presente si confrontano (le missioni di Nabil e Mario Mascali che sono di seguito presentate). Man mano che il lettore procede, i fili narrativi si uniscono in una trama che attraversa continenti e generazioni. Scopriremo la lotta di Mbali in Sudafrica contro una tecnica che aliena ed estrae valore, la ricerca di Xuan in Cina per una cosmotecnica radicata nella tradizione confuciana e taoista aperta allo spirito del marxismo e la lotta per la liberazione. Tutti diventano i pilastri di una riflessione sulla necessità di una pluralità di mondi e del superamento del colonialismo culturale occidentale.

Al centro del romanzo si troverà il dramma che abbiamo davanti a noi. Quel capitalismo tecnocratico senza freni che si nutre del vuoto di senso e trasforma la vita umana in isole di disperazione da cui estrarre emozioni e ricordi da mettere a valore. Il protagonista, Giovanni Mascali, un imprenditore e intellettuale che nel romanzo morirà alla metà del secolo in corso e sarà incorporato in un cyborg, incarna la crisi dell'identità in un'epoca di ibridazione radicale. La sua “rinascita” non sarà un miracolo, ma un doloroso percorso per riconquistare l'umanità attraverso la lotta, la scoperta della relazione e il riconoscimento di sé nell'altro. Il suo nuovo corpo e IA personale, il Guǐhún (fantasma), creato da Xuan in Cina, diventerà un compagno e un archivio vivente, un'entità che non solo facilita la sua esistenza ma lo spinge a confrontarsi con il passato che non può dimenticare. La sfida culminerà quando Giovanni e la sua “Rete Cyborg” - un'alleanza di ibridi e pensatori che si oppongono all'egemonia delle IA che infantilizzano e sfruttano l’umano – insieme ai suoi amici di sempre, svilupperanno un “Codice” per disturbare il “tacito” del pensiero occidentale (il suo universalismo astratto ed etnocida) e riaprire la possibilità di un futuro plurale. Un attacco concluderà il romanzo. Sarà portato a termine da un vecchio nemico ed innescherà una reazione a catena che metterà in discussione la logica ferrea e funzionalista che governa il mondo.

Le domande del romanzo sono cosa significhi essere umani in un mondo dominato dalla tecnica? È possibile un nuovo Codice, che pieghi la tecnica all’umano senza spezzarla, incrinando il potere delle macchine?


 

 

 

I corpi di Gaza

 

2025, Gaza, Palestina

 

Nabil

Passare dall’Egitto era stato più difficile del previsto. El-Khatib non era un cognome che nel mondo fosse sconosciuto, a 52 anni ormai gli apriva tutte le porte, ma non al posto di frontiera egiziano di Gaza. Tutte le sue credenziali, la fama, le mostre prestigiose e i contatti con il mondo dell’arte internazionale improvvisamente scomparvero davanti al passaporto palestinese. Nabil si sentì trascinato indietro.

Seduto su quella scomoda sedia di plastica gli sembrò di vedersi a venti anni, quando nella sala di attesa della segreteria di Oxford attendeva di essere chiamato. Un ragazzo spaventato e fuori posto. Ma ora era peggio, dopo trenta anni un annoiato funzionario grassoccio lo aveva sottoposto ad un minuzioso interrogatorio in un claudicante inglese che gli faceva male alle orecchie. Poi aveva dovuto ottenere che il suo Istituto a Londra garantisse una somma davvero vergognosa come cauzione, e lo avevano schedato.

Questo, in particolare, lo aveva colpito come un pugno. Ma la collezione della famiglia Al-Ridwan, e quindi di Husayn Pasha, doveva essere salvata. Poteva diventare la base del lavoro sulla memoria palestinese per decenni. Nabil si fece forza.

La stanza era piccola, calda, dominata da un ventilatore a soffitto che lentamente girava cigolando, sembrava sul punto di cadere da un momento all’altro. Lo avevano portato qui con una macchina che correva decisamente troppo velocemente nel traffico incredibile del Cairo, sembrava voler quasi uccidere qualcuno. C’erano almeno altre dieci persone, Nabil le stava studiando. Quella coppia con il bambino in particolare, lui aveva probabilmente quaranta anni e lei trenta, il figlio dieci. Non smettevano di parlare ma non li capiva bene. Scavò nella sua memoria, ma quel dialetto del Sud gli risultava contemporaneamente familiare e lontano. Ascoltandolo, mentre forse una parola su tre aveva senso, si ricordò di quando nella grande casa del padre vennero quei domestici che parlavano così, venivano da Khan Younis. Lui li aveva guardati come se fossero degli animali strani. Ma piano piano il loro bambino era diventato familiare, e ne ricordava ancora la vitalità gioiosa, come era? Ahmed, gli sembrava… Sì, Ahmed.

Alla fine, lo lasciarono passare.

Al Gaza border crossing la situazione era complessa, con la ripresa del monitoraggio Ue le sue credenziali avevano qualche peso, il nome anche. Respingerlo poteva costare uno scandalo internazionale, se pure goccia nel mare (ma il mare è, alla fine, fatto di gocce). L’autorizzazione dall’Autorità Palestinese (con il tacito assenso di Hamas) era stata ottenuta per via diplomatica dalla famiglia Al-Ridwan, che lo aveva invitato, ma ricominciarono egualmente gli interrogatori.

<Per sicurezza>, dissero. I funzionari palestinesi lo sentivano come un estraneo. Non capivano l’accento, gli sembrava inglese, e lo vedevano come uno sradicato. D’altra parte, Nabil si era sentito così per decenni, con la sua cultura diasporica, né Occidentale né araba, ma non aveva mai ritenuto che fosse un problema. In fondo, si era detto, dividere le persone sulla base dell’appartenenza nazionale o di una presunta omogeneità razziale è il fondamento dell’imperialismo.

Qui lo vedeva al rovescio. Ma, si chiese, se ogni individuo, se lui, Nabil, potesse essere descritto senza resti come irrimediabilmente membro di una razza, o categoria, o genere. Categoria che non può essere compresa, accettata, assimilata, da tutte le altre, allora non saremmo di fronte alla meccanica stessa del terrazzamento coloniale? Tutto in lui si ribellava a questo. Lentamente emerse un’indignazione che non riusciva a nascondere.

Come intuendolo, il funzionario disse, “quale è il problema, signor El-Khatib? Dobbiamo completare i controlli e aspettiamo la conferma scritta. Lei mi sembra troppo nervoso”. Sembrava sospettoso, dietro la sua scrivania grigia.

Nabil lo guardò. Aveva forse venticinque anni, capelli neri ed occhi neri, pelle leggermente olivastra, un’uniforme mimetica, che sembrava americana. Si vedeva bene che si sentiva importante, con il suo addestramento da Guardia Presidenziale e la bandiera palestinese ricamata sul petto. Parlava un misto di arabo e americano e sembrava in fondo annoiato. Al suo fianco un poliziotto con la sua uniforme blu, leggermente stropicciata, taceva, come intimidito.

“Nessun problema, sono solo stanco”, rispose prudentemente.

“Va bene, signor El-Khatib, ma la sua storia è insolita, abbiamo bisogno di essere sicuri che la famiglia Al-Ridwan l’abbia davvero invitata. Quando arriverà il loro emissario potrà andare”.

Sospirò e abbassò lo sguardo.

Un’ora dopo era sulla macchina nera dell’autista dei Al-Ridwan, con a fianco l’emissario. Nabil lo squadrò, senza dare l’impressione di guardarlo. Alto, robusto, forse quaranta anni, sicuramente armato, molto sicuro di sé e in qualche modo minaccioso. Aveva una corta barba e una piccola cicatrice sul collo. Guardava fisso davanti a sé e aveva detto sì e no cinque parole, da quando era venuto.

La sua presenza era stata sufficiente.

Con una strana timidezza Nabil si guardò intorno mentre la macchina abilmente si muoveva nelle strade di Gaza. Attraversare Rafah fu abbastanza difficile, dai poco meno di trecentomila abitanti che aveva prima dell’ottobre era salita a quasi un milione e mezzo, una marea di persone sradicate costrette in campi profughi a perdita d’occhio. Dovevano fare una quarantina di chilometri, fino a Gaza City, nel quartiere Rimal, un tempo splendido con le sue ambasciate, biblioteche e gallerie d’arte. Passarono per Khan Younis e al Check point riconobbe immediatamente il dialetto della sua infanzia, quello di Ahmed. Il bambino gli tornò davanti agli occhi, sentiva la risata inconfondibile, quasi un sussulto, gli occhi che a tratti erano come velati di tristezza, ma erano solo attimi. Gli sembrò di sentire l’odore di casa.

Si riscosse, la macchina ripartì, il suo compagno di viaggio aveva detto due parole incomprensibili, ma erano bastate. Forse era bastato lo sguardo.

Sentiva l’odore della frutta e delle spezie nelle bancarelle poverissime che la macchina sfiorava, a velocità improbabile. Sembrava che l’autista temesse qualcosa, un cecchino, un missile, ma forse era solo l’immaginazione di Nabil. Forse era solo abitudine.

Forse.

Passando per Deir al-Balah videro un convoglio umanitario. L’autista si fermò subito a cinquecento metri di distanza. Il suo compagno scese, sembrava nervoso. Guardava ovunque e tirò fuori dal bagagliaio un canocchiale con il quale seguì la linea dell’orizzonte. Sembrava tutto a posto. Si mise alla radio e parlò con brevi frasi secche, da militare.

Aspettarono dieci minuti e poi tornarono indietro per prendere una svolta cinque chilometri prima. Intorno c’erano solo palmeti e serre distrutte. Ogni tanto crateri di bombe. Quasi nessuno in giro ed i pochi che passavano lo facevano in fretta.

Entrarono a Gaza City dopo un’ora e altre due deviazioni. Sembrava tutto distrutto. Avvicinandosi al quartiere di Rimal la situazione migliorava.

Al Check point fu rapido, l’uomo vestito di nero si fece vedere e disse qualcosa a monosillabi, alzarono la sbarra. Nabil vide solo le Guardie presidenziali con i mitra che si spostavano.

Dopo cinque minuti, erano alla villa.

La tenuta Al-Ridwan aveva vissuto tempi migliori. Un alto muro la circondava, ma l’intonaco era caduto in più punti e alcune aree erano state ricostruite alla meglio. Il cancello di ferro battuto era imponente, ma a tratti arrugginito. Percorsero il viale, attraversando un parco che era ormai incolto da tanto tempo. Lontano vide un olivo che poteva avere almeno cinquecento anni, con un tronco contorto spesso alcuni metri, una chioma ampia, una forma disegnata dai secoli. Dominava lo spazio, intatto.


Immagine che contiene aria aperta, cielo, erba, pianta

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La villa aveva due piani, ma sulla facciata c’erano i segni di un’esplosione avvenuta nelle vicinanze. Un angolo sembrava essere stato ricostruito, ma non era stato finito. L’atrio era grande, fresco, pulito.

Una voce lo chiamò.

“Professor El-Khatib?”.

Si fece avanti Layla Al-Ridwan, una donna sui trenta o trentacinque, alta e bella, con i capelli raccolti e gli occhi scuri e profondi. Aveva parlato in un impeccabile inglese oxfordiano.

Nabil si sentì a casa.

Aveva una semplice tunica, fermata da un monile d’oro piccolo ma davvero bello.

“E’ un grande piacere, ed un onore, riceverla. Abbiamo seguito per anni il suo lavoro”, sorrise la giovane donna.

“Un grande onore per me essere qui”, rispose Nabil.

“Sa”, continuò lei con un sorriso, “sicuramente non lo ricorderà, ma ho visto la sua bellissima mostra sull’assenza al Moma, nell’ottobre del 2020. Ci hanno anche presentati”.

Nabil non lo ricordava, ma annuì per cortesia. Era stato un evento, il suo saggio su “L’assenza come patria” aveva fatto molto discutere. Artisti del calibro di Farah Al Qasimi, Walid Raad, Mona Hatoum, Zineb Sedira e Abed Haddad avevano attratto l’occhio del mondo.

Gli offrirono un caffè arabo preparato con antica maestria, in piccole tazze finjan, e dolcini. Dei baklava e ma’amoul. Fu versato molto lentamente, in silenzio, con cura ed attenzione, più volte.

Si sedettero su un divano che aveva visto tempi migliori e lo gustarono.

Seguì un attimo di silenzio.

 

Immagine che contiene interno, divano, interior design, Divano letto

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Nabil si guardò intorno. La sala era grande, le pareti piene di specchi, ma alcuni erano rotti. I Majlis bassi, lungo le pareti erano pieni di cuscini imbottiti in velluti. Di colori vivaci, blu notte e porpora. Alcuni ricamati a mano e antichi. Il divano su cui si erano accomodati sembrava davvero antico, in legno intarsiato e braccioli scolpiti in un legno scuro. La seduta in broccato dorato. Il kilim turco era spento, ma aveva al centro un medaglione rosso ben visibile. Le tende erano pesanti, in seta grezza ocra e rame, ricamate, accompagnavano le pareti anche drappi in tessuti beduini, forse molto antichi, a testimoniare una famiglia che aveva regnato cinquecento anni fa, prima dei turchi.

Dominava tutto l’arazzo che, per primo, aveva attirato la meravigliata attenzione di Nabil. Si avvicinò per guardarlo. Enorme, su una intera parete, raffigurava Gerusalemme del XVI secolo, era sbiadito e aveva bisogno di un urgente restauro. Avrebbe potuto essere il pezzo forte della collezione.

Questo non poteva assolutamente essere perduto.

Layla si avvicinò.

“E’ nella nostra famiglia da sempre”, ora parlava in arabo.

“È bellissimo”, rispose Nabil con un sospiro involontario, non riusciva a staccare gli occhi che esploravano ogni dettaglio, registravano le strutture, le forme, le proporzioni tra le masse ed i colori. La sapienza con la quale ignoti artisti, ma abilissimi, avevano alternato i colori e la materia, registrando nella forma la trascendenza del potere ed il carattere sospeso tra due mondi della città che aveva visto il mondo passare.

‘Solo su questo potrei lavorare per anni’, pensò.

Rispose in arabo, dopo una pausa, “non si può lasciare che Israele lo distrugga, la memoria del tempo e la storia del mondo è qui, davanti a noi”.

“È vero”, rispose la nobildonna, “ma noi non possiamo più proteggerlo, qui tutto cade”.

Questa idea aprì uno squarcio nel petto di Nabil. Si voltò di scatto e si allontanò, quasi con furia.

Proprio in quel momento l’uomo in nero si affacciò sull’atrio e disse qualcosa a Layla che Nabil non riuscì a cogliere. Lei chiese scusa e si allontanò verso l’ingresso.

Restò da solo.

Ne approfittò per guardare meglio la sala. Su un tavolo c’era un leggio con un manoscritto aperto.

Si avvicinò. Era un codice miniato probabilmente del XIII o XIV secolo. Gli occhi esperti di Nabil lo classificarono.

Un Corano, nello stile calligrafico Muhaqqaq, decorato con arabeschi di oro zecchino, con le Sure decorate in blu, rosso e verde. Margini con elaborati e raffinatissimi decori geometrici e floreali. Una incredibile e rarissima legatura mamelucca. Un pezzo unico ed inestimabile.

Dietro, in una piccola libreria i dorsi con pesanti legature di cuoio e nomi sbiaditi in arabo di trattati arabi. Si avvicinò, si trattava di Ibn Taymiyya e Ibn ʻAṭāʼ Allāh al-Iskandarī. Nabil si ritrasse istintivamente. Era di fronte alle fonti del sufismo: la Fatwa sul popolo Hims e La saggezza dei maestri (Ḥikam Ibn ʻAṭāʼ Allāh). Gli sembrò anche di leggere sul dorso, I giardini dei devoti (Rawḍat al-Muḥibbīn), di Ibn Qayyim al-Jawziyya. Qui il grande Trecento arabo si presentava in scena.

Una vertigine gli impedì di vedere anche il Commento sull'Anatomia del Canone di Avicenna (Sharḥ tashrīḥ al-Qānūn), di Ibn al-Nafīs, con il quale si retrocedeva di un secolo. Testi antichi di ottocento anni, esposti alla polvere ed alle bombe.

Layla rientrò.

“Professor El-Khatib, le presento Mario Mascali, un amico italiano che ha avuto il coraggio di raggiungerci in questi giorni tragici”.

Si fece avanti un uomo sui settanta, alto e robusto, energico, con uno sguardo diretto e penetrante, intelligente ed autorevole. Era vestito all’occidentale, con un abito impolverato e stropicciato, ma di alta sartoria. Attraversò con pochi passi la distanza tra di loro e tese la mano con un sorriso.

“Buongiorno, professor El-Khatib, la sua fama la precede, è un piacere conoscerla”, disse in un inglese perfetto, con lieve inflessione italiana.

“Buongiorno, il piacere è mio”, rispose Nabil.

Si guardarono negli occhi, riconoscendo a vicenda il loro posto nel mondo.

“Il dott. Mascali è un imprenditore italiano che è socio della Koç Grubu, che tra le sue tantissime attività ha anche l’energia, il suo settore”, disse Layla.

“Sì, e il mio amico Orhan Yıldız della Koç ha perso la moglie Elif in un bombardamento qui, a Gaza”, aggiunse Mario con uno sguardo triste.

“Elif era anche mia amica, una donna meravigliosa, intelligente e sensibile, lo dovevo accompagnare a prenderla. Era mio dovere”, terminò.

Nabil e Layla lo guardarono perplessi. Venire a Gaza in mezzo alla guerra era pericolosissimo, farlo per accompagnare un amico, rischiando tutto, era davvero insolito.

“Ricevervi è un piacere, e, naturalmente la famiglia Al-Ridwan è a vostra disposizione, signor Mascali, ma state correndo un rischio enorme, ogni giorno un drone israeliano ci può esplodere sopra la testa, un cecchino spararci ad un posto di blocco, o possiamo saltare su una mina. In effetti per lo più non ci muoviamo da casa”, disse Layla.

“Lo so”, risposte Mario con un lento sorriso, “ma non potevo restare a casa a guardare tutto questo. Ho bisogno di guadagnare il diritto di chiedere perdono, o almeno di sperarlo.”

Aggiunse, a voce più bassa, “la mia società ha fatto filtrare tutti gli aiuti che ho potuto, e sono venuto anche ad assicurarmi personalmente che non vadano alle persone sbagliate. Non servirà a molto, ma non posso altro.”

Entrò nella sala Orhan Yıldız, avvicinandosi tendendo la mano. Aveva circa quaranta anni, forse cinquanta, i capelli brizzolati e il viso aperto e franco. I suoi occhi verdi facevano uno strano effetto.

“Buongiorno, Gentile signora Al-Ridwan” (Al-Ridwan Hanımefendi) disse con tono quasi cerimoniale.

“Buongiorno, professor El-Khatib”, rivolgendosi a Nabil.

Tornando a rivolgersi a Layla, aggiunse, “anche se la mia società, la Koç è nata negli anni Venti del Novecento, le famiglie che ne sono l’antico cuore sono legate da secoli di commercio con la vostra famiglia. Dall’Anatolia al levante, i commerci ci hanno tenuti in contatto”.

“E poi, la nuova energia ci ha fatti reincontrare con il nuovo millennio”, rispose Layla, sorridendo a quelle improbabili, ma cortesi, genealogie.

Ripeterono il rito del caffè.

“Domani dovremo andare a cercare di raggiungere Elif, poi useremo i canali delle nostre aziende, per portarla a casa, possiamo aiutarvi in qualche modo?” offrì Mario.

“Sarebbe prezioso”, rispose Nabil, “io sono qui per mettere in salvo la collezione della famiglia Al-Ridwan, ma farla uscire non sarà affatto semplice. Soprattutto perché sembra che l’esercito israeliano abbia un gusto particolare nel distruggere la storia di Gaza”.

“Fino a che siete in questo quartiere nessuno vi può toccare”, risposte Layla “se non dall’aria, ovviamente”.

“Ma se usciamo Gaza City è un posto pericoloso ed il resto della regione è un incubo”, completò.

“La Koç non può essere toccata da Israele, sarebbe come dichiarare guerra alla Turchia”, disse allora, con una punta di orgoglio Orhan.

“Ed anche la nostra compagnia non manca di relazioni, a Washington come a Pechino, spero che il Mossad lo tenga presente”, aggiunse Mario.

“Forse lo farà. Ma l’IDF e le Special Forces non sempre sembrano rispondere ad un comando centrale. La nostra sensazione è che Israele stia perdendo coesione e unità, questo la rende ancora più pericolosa”, rispose Layla.

“Capisco”. Rispose Mario, “ma dobbiamo fare quel che possiamo. Come ho detto prima proprio non potevo restare a guardare”.

Tutti tacquero.

Si diedero appuntamento dopo una settimana. Mario e Orhan sarebbero tornati con Elif e con i camion marchiati Koç per prendere le collezioni. Ovviamente insieme a nutrite forze armate, per una volta dalla parte giusta.

La mattina partirono, usando cinque Humvee blindati con i marchi delle società e dei droni di sorveglianza.

Nabil passò la settimana a selezionare, classificare, ordinare e imballare la straordinaria collezione della famiglia.

Nel suo diario scrisse: <tutto questo è la storia dell’umanità. Non può andare perso, sono le radici. Non dei palestinesi, né dell’Occidente, o dell’Oriente (o di quella assurda formula del “Medio Oriente”), sono le radici della nostra assenza. Qui c’è tutto. E quindi c’è la dimostrazione che da ogni angolo del mondo si vede l’umanità, la cultura umana nel suo complesso. Si vede, ed è sempre diversa>.

Ora, finalmente, aveva capito che non bisogna sentirsi diasporici, non c’è una nobilità nell’essere sradicati, o oppressi, che la vaghezza delle letture decostruttive, sulle quali si era a lungo esercitato, erano manierismo.

Davanti alla serietà della morte, la distruzione, la dignità e la forza del popolo palestinese che vedeva davanti a sé, davanti all’ulivo, ritto, Nabil capì che il passato è con noi. Allo stesso tempo trascorso. Irrimediabilmente.

Quel che va salvato è il presente. E tutto qui era presente.

 Mario e Orhan si mossero velocemente, la missione era stata preparata con cura ed il coinvolgimento del governo di Ankara, tuttavia i rischi erano enormi. Le diverse fazioni palestinesi erano sotto estrema pressione. Non si poteva escludere che gruppi salafiti-jihadisti legati a Daesh - deboli ma molto determinati - li considerassero bersagli legittimi. Peraltro, anche alcune fazioni di Hamas avrebbero potuto identificarla come un’azione straniera, da combattere per principio. La stessa IDF poteva “distrarsi” e dare un segnale alla Turchia, per non parlare delle milizie dei coloni, pericolosissime.


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Sulla strada costiera, per paura delle mine, il convoglio procedeva lentamente, in quanto i droni lo precedevano con i loro sensori. I marchi Koç, sul fianco e il tetto, erano visibili anche al buio, dieci uomini armati erano a bordo e pronti a tutto. Campi ridotti a crateri, ulivi divelti, palme annerite, ogni tanto qualche casa distrutta. Mario era silenzioso, sul suo tablet guardava il territorio dai satelliti. Orhan parlava in turco, rapido.

All’improvviso ci fu un boato.

I due blindati davanti si aprirono e gli uomini si affacciarono sul tetto portando una mitragliatrice ciascuno.

“Un razzo?” chiese Mario.

“Forse”, rispose il Caposquadra.

Freneticamente chiamarono il gruppo di controllo, che allertò i canali diplomatici con le fazioni note. <Fermate l’attacco. Missione di recupero, non ostile. Ripeto, fermate l’attacco. Protezione diplomatica Ankara>.

Non ci fu risposta.

Un Humvee fu sfiorato da un razzo. Si sentirono crepitare armi automatiche leggere.

“Non è un attacco militare. Probabilmente gruppi jihadisti”, disse il Capoquadra.

‘O qualcuno che vuol far pensare lo siano’, pensò Mario.

Mentre due Humvee accelerarono nella campagna verso la minaccia, correndo a velocità sostenuta e sparando, Mario respirò lentamente. Se fosse stato un attacco diversivo israeliano ora sarebbe arrivato il missile, e non ci sarebbe stato nulla da fare.

Nulla da fare.

Chiuse gli occhi, mentre attendevano.

Li riaprì quando il mezzo si rimise in movimento. Era tutto finito.

Arrivarono nel pomeriggio.

Elif era stata preparata con cura araba, un tajhiz al-mayyit rigoroso. Le donne avevano lavato il corpo, con acqua pulita e foglie di canfora, il sudario con cinque teli bianchissimi era stato disposto con cura, senza cuciture. Tutti eguali davanti alla morte. Il Salat al-janazah era stato compiuto all’aperto. Ma la povera amica era morta da cinque giorni, e dunque era stata messa in una improvvisata camera con ghiaccio, scavata sotto la sabbia.

La trovarono così, come era possibile nelle circostanze. Orhan era distrutto dal dolore, l’onore e la cura che la comunità locale aveva dato alla morte della sua amata moglie, malgrado fosse turca, in qualche modo rese più presente la perdita. Mario guardò quel povero corpo, che era stato una donna brillante e piena di passione per la vita.

‘Finis rerum’.


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La sollevarono con dolcezza, la misero nella cassa che avevano portato dentro i suoi teli e la ricoprirono di foglie di canfora e petali di rose bianche. Orhan poggiò un anello sul corpo.

Il ritorno fu tranquillo. La comunità locale li accompagnò con dieci macchine scoperte ed armate.

Giunti alla villa, si incontrarono con Nabil.

Aveva preparato le casse con i tesori da portare a Londra.

Lo trovarono sotto l’ulivo, “grazie, cari amici”, disse.

“Ma io resto qui”.

Annuirono.

 



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