Sulla rivista
della Dedalo “Inchiesta”, n.195/2017
(qui sul sito “OndeCorte”), è stata pubblicata un’intervista
a Luciano Pregnolato sulle lotte degli operai della Fiat durante gli anni
settanta; il titolo è “Lotte operaie alla
Fiat negli anni ’70, il ’77 e Claudio Sabattini”.
Di questo racconto cercheremo di prendere l’esperienza,
e cercare attraverso di essa di traguardare in particolare l’umanità per come
si costituisce nella socialità e nella passione, ma anche nelle difficoltà e
nelle tensioni, attraverso il lavoro, in un luogo di addensamento come la
fabbrica fordista. Anzi, la più importante fabbrica fordista italiana. Luogo in
cui, all’epoca dei fatti, lavoravano 60.000 dipendenti in un’unica sede (Mirafiori)
in un enorme stabilimento di oltre 2.000.000 di mq, con 20 km di linee
ferroviarie interne, che è il più grande d’Europa.
Oggi non esistono fabbriche che raggruppano, in un
solo luogo, tanti lavoratori. Oggi FCA alle “carrozzerie” di Mirafiori (dove si
fa la macchina) impiega più o meno 5.000 addetti, tra i quali 1.500 tra “Presse”
e “Costruzioni stampi”, mentre 20.000 sono impiegati nell’indotto che negli
anni è stato decentrato. Ad esempio fanali e sistemi di scarico sono prodotti
dalla Marelli (sempre dello stesso gruppo industriale) che occupa 1.500
lavoratori, la Itca si occupa di stampaggio (uno dei vecchi reparti della fabbrica
negli anni settanta) e impiega 400 addetti. Poi ci sono qualcosa come 4.000
impiegati a vario grado del gruppo. Oggi a Mirafiori si produce solo l’Alfa
Romeo MiTo (ca. 80.000 esemplari all’anno programmati; negli anni settanta, con
60.000 addetti se ne producevano 800.000).
A Mirafiori poi si insediano oggi in “Officina ‘82” anche
attività direzionali e amministrative, informatiche, di accounting e di audit
(in un’area dismessa dove venti anni fa era il magazzino ricambi, ora
esternalizzato nella nuova organizzazione logistica); vi lavorano 1.500
addetti, ma solo impiegati, quadri e dirigenti. Ma ci sono anche sedi di altri
marchi (come “Abarth” e “New Holland”) ed altri servizi.
E’ chiaro che quindi il mondo è cambiato; ma proprio
per questo è utile guardare al mondo che era. Quello in cui ad esempio è
vissuto mio padre, dirigente (prima impiegato e poi quadro) all’Alfa Romeo in
tutti gli anni sessanta-novanta, prima ad Arese e poi a Pomigliano d’Arco.
Luciano Pregnolato, che fa questo racconto, è stato un
sindacalista della Fiom a Torino, della cosiddetta “V Lega”, area carrozzerie
della Fiat di Mirafiori. È dunque un testimone diretto sul campo. Il campo,
deve essere chiaro, è quello della “lotta
di classe”.
Esiste all’epoca una tensione politica, attraverso gli
eventi e le poste concrete, anzi proprio attraverso la dinamica dei corpi e
degli spazi, che trascende il singolo, pur importante, stabilimento ed anche le
intenzionalità individuali degli attori: il
sentimento collettivo di essere entro una lotta che trascende e incorpora
quelle di tutti. La lotta tra strutture che organizzano la vita stessa, oltre
che il lavoro. Precisamente lotta tra una struttura organizzata dal principio
della proprietà ed una, che si vuole costruire e far prevalere; organizzata dal
principio della socialità.
Il “cespuglio” di problemi che la questione del lavoro
apre può proprio essere traguardata anche rimemorando queste vecchie lotte perché
attraverso le parole del testimone sembra intravedere (anche, certo, attraverso
la memoria riflessa personale e familiare), nel produrre insieme, la traccia di
un ‘essere uomo’ degno. La vita nel
microcosmo della fabbrica, nella successione delle generazioni e nella
dialettica delle voci (anche faticosa, come si legge), strappa in qualche modo il
velo che mostra un vivere oltre il solo piacere e consumo individuale; un
essere per l’altro concreto fatto di reciproco interesse e passione comune. La condivisione
di questo essere.
Oggi che la piattaforma produttiva del capitalismo
favorisce vite separate, la sola ricerca individuale della felicità e del
godimento, scegliendo in qualche modo dallo scaffale posto alla nostra altezza
ciò che vogliamo, ma che al contempo potenzia la sua capacità ubiqua di
sorvegliare, estrarre e riconfezionare, mercificare tutto, possiamo trarre da
questa esperienza il lontano miraggio di un altro vivere? Di responsabilità, com-passione,
dovere, essere insieme per gli altri nella produzione di ciò che ha valore, di
ciò che è fatto dalle mani, dalla mente, dalla voce, dallo sguardo. Che si
incrociano?
Non bisogna mai tirare troppo i testi, come le
esperienze, che hanno un senso misurato su di sé, ma mi pare che queste domande
potrebbero essere lasciate galleggiare utilmente.
Luciano Pregnolato ci racconta quindi che la vicenda della
grande battaglia per “la mezz’ora” condotta con successo nel 1977 si inserisce
tra quelli che chiama “due grandi spartiacque”: il biennio 1968-69 e il 1980,
quando la Fiat, usando anche la mobilitazione contro il terrorismo, determinò
la sconfitta epocale del sindacato di fabbrica. Tra le due date cresce il potere contrattuale delle organizzazioni
dei lavoratori, o meglio, dei lavoratori in quanto organizzati.
Il potere è l’autentica posta di questa vicenda, in tutte le
sue espressioni, ma un potere che passa e si costituisce proprio nei rapporti,
nelle relazioni e nelle strutture organizzative degli uni e degli altri, nella
dinamica dei desideri e dei bisogni ed intorno ai veicoli di senso tramandati
(il più importante dei quali è la “lotta di classe”). Si consolida, sempre
fragile, ed al termine è revocato, nelle strutture come nelle parole attraverso
due dialettiche anche aspre: quella tra i
lavoratori ed il sindacato, che riesce a rappresentarli in quanto vi è in
rapporto profondo, e quella tra il
sindacato e la proprietà. La rottura della prima interrompe anche il canale
di potere che rendeva possibile l’altra.
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Claudio Sabattini |
La vicenda è raccontata a partire dall’arrivo, come
responsabile di segreteria per il settore auto di Claudio
Sabattini, quando Bruno Trentin lasciò in favore di Pio Galli. La fabbrica
nella quale si svolge la scena è un luogo insano e pericoloso, era migliorata
dagli anni sessanta, quando le condizioni di lavoro e l’ambiente “era
considerato un inferno”, ma non abbastanza. Con gli accordi del 1969, che
seguono ad un periodo di aspre lotte, viene istituita la mensa aziendale (che
la Olivetti di Adriano aveva da decenni, dal 1936), l’indennità di
trasferimento e la diaria di attesa per gli spostamenti da Torino a Rivalta, ma
anche accordi per la perequazione delle paghe, la rotazione su tre turni (si lavorava
45 ore settimanali), infine categorie e profili professionali, incentivi di
rendimento, regolamentazione delle linee di montaggio a trazione meccanizzata,
l’introduzione dei delegati di linea e del ‘tabellone’.
I delegati di
linea rivestono una particolare importanza strategica, perché creano con il
loro numero e la loro pervasiva presenza quel rapporto di fiducia, ed in primo
luogo conoscenza, che istituisce la base di forza del sindacato.
A seguito di questa dura lotta, e dell’accordo
strappato, la Fiat fu costretta a garantire rotazioni a garanzia della
sicurezza nei luoghi di lavoro più insalubri ed a creare le condizioni perché
gli operai esprimano una capacità di controllo sui tempi di lavoro. Dal 1969 nascono
i “Consigli di Fabbrica” (anche se
con differenze e tensioni mai del tutto risolte erano in Olivetti dagli anni
cinquanta), poi potenziati nel 1971, quando diventano 500.
Dal 1972 la fabbrica risponde a queste mobilitazioni
con l’introduzione dei primi robot che effettuavano la prima saldatura (quella
finale era condotta a mano). Le innovazioni tecnologiche vengono introdotte per
garantire “maggiore flessibilità” (la rigidità è una fonte di potere). Nel 1975
viene introdotto il “Digitron”, con carrelli minitrailer e magazzini
automatici, e realizzata un’isola di produzione a lato delle linee di montaggio,
in modo da non rendere più necessario lavorare con le braccia alzate.
Queste innovazioni tecnologiche, introdotte per
rendere più fluida la produzione e aggirare i nodi di conflittualità mutano il
modo di lavorare e rendono meno pesante il lavoro. Sono dunque un progresso
sotto alcuni profili, ma non cambiavano la natura della linea di montaggio,
come dice Pregnolato “non mutavano la natura del rapporto tra queste fasi produttive
e il processo complessivo che rimaneva un processo a catena, un processo vincolato”, p.84. Ovvero un processo
vincolato dalla struttura meccanica della produzione, dai tempi e ritmi
eterodiretti dall’infrastruttura tecnica (e dalla sua programmazione). Ci sarà,
su questo punto, un interessante dialogo con Luciano Lama che viene riportato
nel testo.
Quindi la proprietà introduce innovazioni di processo
(come la cosiddetta “polmonatura”, ovvero l’esistenza di stock di riserva tra i
segmenti delle linee) per impedire che uno sciopero limitato ad una interrompa
automaticamente anche le altre a valle.
Un’altra innovazione, le cabine di verniciatura, nel
1978, fu oggetto di uno scontro tra i lavoratori e la proprietà perché l’introduzione
delle tecnologie, che cambiavano i processi di fabbrica, non era stata discussa
e concordata e perché la Fiat voleva interamente trattenere i relativi vantaggi
di produttività, senza condividerne una parte con i lavoratori (introducendo
premi e superminimi). Intorno a queste due rivendicazioni, racconta l’autore, “ci
fu una discussione difficile”, sia nelle assemblee sia nei consigli di
fabbrica. Si manifestò qui una dialettica tra generazioni di lavoratori, dove i
giovani, che avevano maturato esperienze nei movimenti studenteschi, a volte
anche universitari, alzavano il livello delle aspettative e rifiutavano i
limiti interiorizzati dall’esperienza dei più anziani; il clima, insomma, si
radicalizza.
L’anno precedente c’era stato uno scontro molto aspro
nella vertenza del 7 luglio 1977, uno sciopero generale che ferma l’intera
città di Torino e ci sono duri scontri con la polizia per tutto il pomeriggio. L’origine
è la richiesta della società di ridurre i tempi di lavoro in quanto aveva
riscontrato che in alcuni casi gli operai finivano prima e si riposavano. Si sta
parlando di pochi minuti.
Il sindacato obietta che il controllo dei tempi di
lavoro è una conquista degli anni passati e non può essere unilateralmente
deciso dalla proprietà. La questione (che si pone in particolare nella lunga
trattativa che impegna l’anno successivo) è davvero cruciale: chi controlla i tempi di lavoro? L’operaio
è un soggetto o un utensile?
Su questa questione, seminale per la sensibilità
socialista (tanto da essere oggetto dell’attenzione del giovane Marx, che sull’alienazione costruisce la pietra
fondativa della sua posizione politica) matura in quegli anni una frattura con
parte del mondo confederale e con il Pci, ne parla nei suoi termini anche Bruno
Trentin in “La
città del lavoro”. Il 3 maggio 1978 Pregnolato ricorda una
chiacchierata con Luciano Lama che, in piena trattativa, dà ragione alla Fiat
secondo l’assunto che se qualcuno riesce a guadagnare dieci minuti vuol dire
che i tempi programmati sono troppo larghi. Bisogna asciugarli perché “sono sbagliati”.
Come scrive Trentin, qui c’è un punto: perché sono gli spostamenti degli
equilibri di potere nei luoghi di lavoro che contano. E questi non sono spesso,
in quegli anni come adesso, “percepiti come
tali dalle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio” (T.,
p.164). La rottura che segue alla perdita di questa sensibilità (che potrebbe
anche rubricarsi come abbandono del senso della “lotta di classe”) smarrisce l’intera
analisi tentata da Marx stesso dei rapporti di produzione, come dice Trentin “il
carattere irriducibile della contraddizione tra capitale e lavoro e la stessa
genesi dell’accumulazione capitalistica non risiedeva nella quantità di
appropriazione di un ‘surplus’ rispetto alla remunerazione della forza lavoro ‘astratta’.
Essi risiedevano prima di tutto nella separazione fra il lavoratore concreto e
i suoi strumenti specifici (materiali e culturali) di produzione”.
Il conflitto che
pone una questione di tempi, è in realtà questione quindi di potere. Cioè questione di essere soggetti e non oggetti,
anche nelle condizioni del lavoro diretto (è anzi, come dice correttamente Pregnolato,
questione del lavoro diretto, dell’organizzazione del lavoro, del superamento
della linea), mette in causa, come dice Trentin “l’autorità esclusiva dell’imprenditore
sull’organizzazione dei fattori produttivi e sulla prestazione del lavoro”. A
questa pretesa, che alla sensibilità odierna appare ovvia, si oppone in quegli
anni una volontà collettiva organizzata, che porta diverse esigenze e anche
idee. Il punto centrale della ‘rivoluzione taylorista’ e quindi fordista,
passivamente accettata come espressione di mera logica tecnica da parte importante
del movimento dei lavoratori (in Urss come altrove), è il potere. È chi detiene
il potere e quale sapere è pertinente, quello diffuso e incarnato nelle mani
esperte e negli occhi educati dei lavoratori, o quello astratto e concentrato
nella disciplina dei tecnici, degli ingegneri e delle loro macchine
temporalizzanti. Il vecchio leader sindacale ne parla in alcune memorabili
pagine (intorno alla pagina 100), quel che viene quindi espropriato da Taylor è
il sapere.
La posta e il funzionamento della mondializzazione
come dispositivo di disciplinamento potente del mondo del lavoro, e la sua trasformazione
in mondo del consumo sempre più dipendente da strutture insostenibili (e quindi
depotenzianti e decapacitanti) di debito e credito è dunque questa. La proprietà
della Fiat lo capisce benissimo, e si capisce, alla luce di questa posta, anche
la determinazione con la quale è portata avanti.
La vertenza del 1977 fu quindi, per la Fiat, l’ultima
grande vertenza di gruppo ed affrontava i temi degli investimenti, dell’ambiente
di lavoro, delle innovazioni tecnologiche, dei problemi organizzativi (ad
esempio la programmazione di turni e mansioni), delle componenti del salario,
della ricomposizione delle mansioni, della riduzione dell’orario di lavoro.
Conclusa con quella che dal suo punto è una sconfitta
la Fiat capisce che andava riorganizzata una controffensiva: nella fabbrica e
nel paese.
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La marcia di 40.000, 1980 |
L’articolo è ovviamente ben più ricco di quanto queste
povere note possano rendere, e attraversa quindi molti dei piani di frattura e
delle lotte egemoniche anche entro il campo della sinistra di quegli anni, ed
al termine si concentra sulla controffensiva e le sue modalità che la proprietà
imbastì nel 1979-80. Vivendo noi ancora nel cono d’ombra di quella vicenda vale
la pena parlarne: la vertenza del 1979 parte dalle nuove cabine di verniciatura
e fu radicalizzata dai nuovi assunti (per effetto delle lotte precedenti erano
stati assunti, dopo una lunga pausa, alcune migliaia di nuovi operai) che
rifiutavano la mediazione dei più esperti. Questa lotta generazionale, e i
legami di alcuni dei nuovi compagni con ambienti estremisti fuori della
fabbrica (dove il movimento sindacale tutto si era scontrato, anche aspramente,
con “i movimenti”, come molti ricorderanno) fu sfruttata dalla proprietà in
cerca di rivalsa sul piano strategico (ovvero in cerca del recupero del
potere). Romiti e Callieri usarono abilmente il tema delle possibili
infiltrazioni terroristiche (che ovviamente c’erano) “per riprendersi il
comando della fabbrica” e quindi tornare alla gestione unilaterale di tempi,
luoghi e uomini.
La miccia fu l’accusa di terrorismo verso 61
lavoratori (che furono poi assolti dai tribunali) e la richiesta della società
di licenziare alcune migliaia di lavoratori in qualità di “fiancheggiatori”. Sono
vicende che ricordo personalmente; mio padre come ho detto in quegli anni era
delegato sindacale dei dirigenti nello stabilimento di Pomigliano d’Arco dell’Alfa
Romeo, e con la dovuta riservatezza, trasmetteva a casa anche a noi figli,
appena maggiorenni, la tensione che si respirava nella fabbrica. In particolare
ricordo il rifiuto della scorta a seguito delle minacce individuali giunte
dalle Brigate Rosse attraverso volantini trovati nei luoghi di lavoro che, per
la precisione delle identificazioni, non potevano che essere stati scritti da
qualcuno interno. Tuttavia l’Alfa, allora nelle Partecipazioni Statali, non
reagì con la programmata ed intenzionale determinazione della Fiat, anzi
coinvolse in qualche misura i lavoratori nel tentativo di isolare gli
estremisti.
La Fiat rifiutò questa logica e avviò 14.000
licenziamenti in 35 giorni, ovviamente scegliendo gli operai più attivi e tutti
i delegati delle lotte, tutti i “compagni dell’Flm” (in Alfa ancora negli anni
novanta i delegati sindacali non possono essere licenziati).
Anche se poi si giunse ad un accordo (che parte del
sindacato giudicò favorevolmente) questa vicenda “sanciva l’espulsione del sindacato dalla fabbrica”.
Questa espulsione avvenne in sostanza perché tagliò le
relazioni intime e la rete arteriosa che connetteva il sindacato, attraverso i
suoi delegati di linea eletti dal basso, con il corpo dei lavoratori. Da allora
il sindacato si ritira nelle relazioni istituzionali, perdendo il legame con i “consigli”
(come lamenta anche Trentin), ed allontanandosi dai conflitti perde anche autorevolezza
in entrambe le direzioni e capacità di formare le questioni nel corpo vivo dei
problemi. Quello che Pregnolato chiama “il punto di caduta” della trattativa,
viene quindi sganciato dalla formazione del consenso (che è al più ricercato
affannosamente in seguito).
Una lezione che va molto oltre la singola, per quanto
importante, vicenda.
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