Pagine

venerdì 15 febbraio 2019

Richard Sennett, “Costruire ed abitare”




Questo libro, del 2018, conclude la cosiddetta trilogia dell’homo faber (composta da “L’uomo artigiano [1] e da Insieme[2]), inquadrando il modo di creare lo spazio nel quale la società si forma. Si tratta di un discorso sulla città ‘storta e sbilenca’; abitata da emigranti che parlano decine di lingue e contente ineguaglianze ‘accecanti’. L’ethos di Sennett, intellettuale certamente cosmopolita, come Sassen, abitante tra due città simili e diverse come New York e Londra, è orientato al “laboratorio aperto”, alla libertà garantita dagli incontri, dalla imprevedibilità e dalla differenza della grande città. Nella ricostruzione storica, e nella narrazione, che propone, come negli altri libri, costruiti sempre per grandi mappe e mosaici sottili, più che per sequenze lineari di concetti ordinati, il primo momento simbolico è la teoria urbana di Cerdà, alla metà dell’ottocento: una Barcellona che è attraversata da imponenti flussi migratori, che non trovano sbocco e stagnano entro la città, creando enormi problemi di salute pubblica. È la stagione degli ‘igienisti’, e di innovazioni tecniche continue, ma anche di nuovi concetti. Cerdà prende il modello della circolazione sanguigna, trovata da Harvey nel 1720, e l’eleva a modello della progettazione urbana (come noto impone alla città uno schema di strade a senso unico) e riorienta la costruzione della città.


Ma il discorso e l’attenzione alla città, sostiene Sennett, è fatta di attenzione alla sua forma fisica (“la ville”) e di attenzione alla urbanità della società che in essa vive (“la citè”).

Esempio di questo secondo sguardo è l’inchiesta di Friedrich Engels “La situazione della classe operaia in Inghilterra[3], ma anche grandi romanzi ottocenteschi sulla situazione della classe operaia e delle classi borghesi come quello di Balzac “Le illusioni perdute[4], e Stendhal “Il rosso e il nero”. Tutti testi in cui in modo diverso è descritto il carattere inquieto della vita urbana e della modernità, nella quale i vecchi rapporti prestabiliti e cristallizzati sono spazzati via, insieme ai pregiudizi. Insomma, come dice Baudelaire “la modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente”.

La “ville” è invece ancora rappresentata dai modelli e dai tentativi di Haussmann[5] o di Olmsted. Strutture urbane per garantire una città per tutti, valorizzazione dell’elemento socializzante della natura e spazio della nuova borghesia sono i temi che si intrecciano. In questa trasformazione ottocentesca irrompe la massa urbana, ed i suoi interpreti, come Gustave Le Bon (p.68), e si manifesta il tentativo di interpretazione monstre di Max Weber (p.75).



Nel novecento “citè” e “ville” divorziano. È da una parte la grande riflessione sulla società urbana della “scuola di Chicago”, Robert Park, nel quale si inquadra la città come comunità e se ne dà una definizione come prodotto della natura e della umanità. Dall’altra la “Carta di Atene”, del 1933, in cui la tecnologia, come per le odierne ‘smart cities’[6], cerca di ridurre la confusione urbana ed il caos (che per gli interpreti della “citè” è vitalità) in un nuovo ordine, necessariamente uniforme ed egualitario. Un esempio illustre il “Plan Voisin”.

Era la corrente dominante, il cosiddetto “movimento moderno”, contro il quale si alzò da una parte la voce di Jane Jacobs, e, dall’altra, Lewis Mumford[7]. Due alternative diverse all’urbanesimo ufficiale e modernista: il fabiano Mumford e l’anarchica Jacobs. Il buon vicinato e il senso di intimità, senza curarsi molto della qualità urbana, e le ‘città giardino’ di Howard che come tessuto cellulare da riprodurre organicamente andavano accuratamente progettate. Due diverse interpretazioni della città aperta.

Anche attraverso questi dibattiti l’urbanesimo si articola come disciplina a cavallo tra l’arte di costruire e quella di abitare.

Allargando lo sguardo Sennett ci presenta un modo informale di abitare nel Nehru Place di Delhi, nel quale si impegna in una delle sue migliori descrizioni dense assolutamente non riassumibili. Città che crescono vorticosamente, spesso nelle quali si abita provvisoriamente, per pochi anni, in cui si creano sempre nuove richieste. Ma anche città globali, effetto della mondializzazione, effetti di massicci investimenti “core”[8], per i quali “i pianificatori sono diventati gli schiavi dei progetti”.

Poi ci sono le immense città vuote, create per dare sbocchi ai capitali ed impegnare le imprese, in Cina, le autostrade verso il nulla, scommesse su una crescita continua che potrebbe anche non esserci (p.126).

E l’esaltazione, in questa ubriacatura per lo sviluppo determinato dai flussi di capitali liberi, in cerca parossistica di impiego, delle “classi creative” di Richard Florida.


Altri temi del libro, labirintico come tutti quelli di Sennett, sono il peso degli altri, dell’abitare con l’alieno, con il fratello, nel ghetto o con il vicino. La capacità di mescolare le classi sociali o di creare quelle che Robert Putnam ha chiamato le “good fences” (recinzioni ragionevoli), diversità tollerabili perché a distanza (p.162).
L’idea è che la città per essere sana deve essere un “sistema aperto”, non deve impoverire l’esperienza, rifiutare i diversi, ma non deve neppure avere una crescita convulsa, non deve inseguire semplificazioni tecnologiche che riducano l’esperienza del luogo (e quel tanto di inaspettato che deve esserci), non deve essere priva di attrito. Deve essere sempre riappresa, come diceva Clifford Geertz.
Un luogo deve essere anche toccato, ascoltato, annusato (p. 196).

Allora nella parte finale di questa ricognizione sull’abitare e le sue strutture, si trovano cinque “forme aperte” in chiave di progettazione urbana:
-        gli spazi sincronici, nei quali sia possibile un uso misto dello spazio,
-        le punteggiature, segni monumentali e segni ordinari, nei quali ci siano punti esclamativi e virgole. Piccole scale, segni arbitrari anche disseminati, che creino punteggiature spaziali (p. 240),
-        la porosità e le membrane,
-        gli incompleti, gusci e forme-tipo (p. 253),
-        i multipli, spazi ibridi e con identità molteplici, instabili e squilibrati (p. 265),

E alcuni esempi di tecnica della produzione di spazio, anzi di coproduzione (processi di progettazione coinvolgenti con la comunità): pensare nel contesto e praticare una progettazione adattiva.

Il senso del libro si coglie alla fine, e con esso il legame con gli altri libri della “trilogia del fare”: membrane porose tra le comunità, forme-tipo che variano da un luogo all’altro, “pianificazione della semina”, sono solo escamotage. Il problema è di evitare l’enfasi sul controllo, che è autodistruttivo. Evitare l’ordine della “Carta di Atene” o delle attuali “smart cities”, la smania di controllare tutte le forme, di pensare tutto come funzione, efficienza, concorrenza.

Bisogna praticare, invece, una modestia che è anche etica: vivere tra i molti senza presumere di avere da insegnare, cercare “la ricchezza di significati, anziché la chiarezza di significato”.

Praticare, cioè, l’etica della città aperta.




[1] - Nel libro, del 2008, l’ex allievo di Hannah Arendt e marito di Saskia Sassen, avvia una ricognizione del sapere pratico nel quale l’uomo, superando la distinzione tra mente e mano, trova nell’esperienza del contatto con la materia, nel fare, una dimensione intersoggettiva e di relazione con il reciproco riconoscimento. Il processo del fare è rivelazione, grazie a ragione e sentimento, dell’essere umani, applicando non tanto una tecnica, quanto una ‘maestria’, connessione tra mano e testa e di queste con la voce. Quindi gli artigiani, per il lavoro fatto bene per se stesso e non per un qualsivoglia risultato. Un lavoro che è fatto nel modo giusto, non strumentalmente, non ottimizzante, non massimizzante: giusto. Come sottolinea Sennett, ad ogni artigiano (falegname, tecnico, direttore d’orchestra) sta a cuore il lavoro ben fatto. Qualcosa per il quale si vive. E’ questo atteggiamento, che la modernità fa ‘esplodere’, spezzetta e divide mano e testa nel momento in cui sottopone tutto alla competizione. Quella che Dardot e Laval, giustamente, chiamano “La nuova ragione del mondo”, smonta quel lavoro tecnico che aveva valore in sé nel definire insieme strutture della personalità e socialità. Il lavoro tecnico definisce una sfera di abilità e conoscenze che trascendono le capacità verbali dell’uomo. Che sono inafferrabili, per le quali il lungo testo di Sennett cerca di attivare la nostra sensibilità moltiplicando gli esempi e i racconti. Come dice: “l’azione, soprattutto il lavoro di buona qualità, non ha luogo in un vuoto sociale o emotivo; il desiderio di fare bene una cosa è un test decisivo per la nostra identità, una prestazione personale inadeguata ferisce in maniera diversa rispetto alla ineguaglianze dovute alla posizione sociale ereditata o alla esteriorità della ricchezza: riguardo quel che siamo – va bene agire, ma perseguire attivamente un lavoro ben fatto e scoprire che non siamo capaci di compierlo corrode il nostro senso di sé” (p.99). Prendere più seriamente il lavoro è una delle strade per essere liberi.
[2] - In questo libro, del 2012, mette sotto attenzione la capacità di collaborare, e quindi anche la capacità di gestire le differenze irriducibili. Siamo impediti dall’esplosione delle ineguaglianze e dall’effetto silos, creato da organizzazioni moderne che sono disegnate per separare, per impedire la coesione (e quindi la sua minaccia), e che creano compartimenti stagni, separazione funzionale, frequente movimento. Lavoro spezzettato, a breve termine, senza carriera. Gli avversari della capacità di lavorare insieme sono il capitalismo manageriale e competitivo e la sinistra politica. Ricostruendo l’evoluzione di questa trasformazione, anche in questo secondo libro Sennett individua quella profonda trasformazione delle norme sociali secondo la quale non è più disapprovato lo sguardo a breve termine, la speculazione, la ricerca del profitto immediato. Oggi un giovane laureato può aspettarsi, nella sua vita lavorativa, di cambiare almeno dodici volte il lavoro e tre volte la tipologia di competenze utilizzate. Dunque oggi “nessuno è insostituibile”, ma “gli uffici sono vuoti” (di relazioni). In certo senso, il modello è diventato il “consulente”, con abilità portatili e attaccamento passeggero. La stabilità diventa quasi un marchio di disonore; ci si aspetta che una persona “dinamica” cambi lavoro ogni pochi anni. Insomma, per come la mette Sennett, “il tempo agisce come un acido corrosivo, che intacca l’autorità, la fiducia e la collaborazione” (p.182). Ci sono due avversari che sono nominati: uno esterno, la forma della ragione capitalista; un altro interno, la “sinistra politica”, verso la quale spende una parte del libro che parteggia per la cosiddetta “sinistra sociale” (Owen, Kropotkin) e le cui strade fa dividere al principio del novecento.  
[3] - Che abbiamo letto qui.
[4] - Romanzo del 1843, nel quale Balzac descrive un giovane della provincia che si trasferisce a Parigi, dove perde sia l’integrità morale sia la fortuna.
[5] - Sul quale si può leggere questo vecchio articolo.
[6] - Si veda, ad esempio questo post.
[7] - Si veda, ad esempio, “Tecnica e cultura”, 1934
[8] - Oggetto di molte analisi ed interessanti di sua moglie Saskia Sassen. Si veda ad esempio “Londra si autodistrugge

Nessun commento:

Posta un commento