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domenica 7 giugno 2020

Delle contraddizioni in seno al popolo: Stato e potere.



Su “La fionda” si sta svolgendo un dibattito di grande interesse che ha preso avvio il 21 maggio con un articolo[1] di Rolando Vitali, per poi alimentarsi in particolare con il denso articolo[2] di Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti del 27 maggio, e al momento concludersi con il pezzo[3] del 4 giugno di Lorenzo Biondi. La posta di questo scambio è l’analisi strategica del presente e delle forze che in esso si muovono, e quindi l’identificazione delle azioni politiche e relative alleanze. Dunque, è una posta di primaria importanza.
Per confrontarsi con queste posizioni bisognerà ricostruire gli argomenti portati, in particolare dall’articolo centrale, e descrivere cosa sta accadendo in questa fase, quale è la forza che muove la situazione, come si può tentare di reagire ad essa.




Parte prima: l’argomentazione.
L’articolo di Melegari e Capoccetti, che svolge un ruolo centrale di sistemazione delle analisi e dei concetti, muove dal corretto sentore di un disastro incombente sul paese per dedurne l’urgenza di un’azione e, insieme, da quella che chiama “asfissia politica” dell’area del sovranismo costituzionale, democratico e di ispirazione socialista, al quale sente di appartenere. Ed al quale sono diretti, di converso, gli strali polemici di Vitali. Chiama “asfissia”, ovvero la mancanza di fiato e quindi di vita, “politica” la condizione nella quale si respinge l’energia vitale degli unici che effettivamente si muovono. Questa mossa è prodotta, a loro parere, da una non ben chiara, ritrosia a comprendere, o ad accettare, che la presunta dicotomia tra la piccola borghesia ed i ceti dei lavoratori dipendenti proletari sia stata ormai definitivamente superata, o almeno confusa, dalle trasformazioni neoliberali seguite al crollo del “compromesso keynesiano”. La tesi dei nostri è che i due segmenti sociali non sono più analiticamente e operativamente distinguibili, o non sono più identificabili come opposti[4]. La questione del rigetto nascerebbe comunque dalla tendenza della piccola borghesia a “intese neocorporative”[5] che saldano la prospettiva di salariati e proprietari. Come sul punto si esprime Vitali. Per Vitali questa intesa sarebbe, infatti, orientata a riaffermare una sorta di “keynesismo nazionale”, rivolto alla protezione della media borghesia ma non del lavoro. O, per dirlo in un altro modo, l’egemonia è saldamente tenuta dalla borghesia. In questa parte della ricostruzione e critica di Melegari e Capoccetti all’articolo di Vitali c’è una certa indeterminazione terminologica che è segno della scivolosa natura dei ceti e gruppi sociali che si nomina. In primo momento, come risalta dal titolo, sono nominati i “ceti medi impoveriti, micro e piccoli imprenditori, commercianti, bottegai”, in un secondo l’intesa “neocorporativa” è attribuita espressamente a “salariati” (che nello schema marxiano sono proletari) nella loro connessione e solidarietà con i “proprietari”, infine, genericamente alla “classe media”[6].
Come sia, il problema politico è che queste frazioni di ceto, nominate, spontaneamente confluiscono a dare forza a settori di destra del quadro politico. E Vitali ne conclude che occorre abbandonarle, per ripristinare la condizione della “autonomia”[7] che porti ad un “nuovo modello sociale”, ponendo nuovamente la questione della gestione democratica dei mezzi di produzione, ovvero la questione dei consigli di fabbrica e produzione (o quella dei soviet).
Non è difficile segnalare giustamente l’afasia di questa posizione da parte di Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti.

Ma quale è, allora, la via di uscita da questi dilemmi? I nostri muovono dall’empirica confusione tra lavoratori salariati, organizzati dal capitale, e piccole borghesie, anche esse in relazione di subalternità con lo stesso. Una dicotomia che, appunto, non è più attuale.
Di qui si slitta direttamente, sotto l’impressione iniziale (come vedremo immediatamente decisiva nella prospettiva dei nostri) del fatto che a mobilitarsi oggi sono solo i ceti medi impoveriti, alla denuncia dell’avvenuto disciplinamento degli “strati sociali strettamente legati al campo produttivo”, e di quelli “più direttamente coinvolti nel funzionamento dell’amministrazione pubblica”. Non si muovono proprio perché più disciplinati[8]. Si tratterebbe di strati educati nel tempo ad aderire “alla soggettivazione imprenditoriale”. E si aggiunge, che “l’esercito proletario è stato sparpagliato per meglio disciplinarlo”[9].
In questo snodo decisivo dell’argomentazione avviene un curioso rovesciamento. Prendendo le mosse dall’impressione fattuale immediata dell’effettiva prevalenza dell’attivismo dei ceti medi impoveriti e disconnessi parzialmente (l’enorme esercito dei precari, dei finti autonomi, dei professionisti proletarizzati, dei disoccupati di fatto), si pone il problema dell’inattività degli altri ceti subalterni. Il rompicapo viene risolto passando sotto accusa la maggiore organizzazione, interpretata come connessione, via sindacato. Quindi il lavoro “buono” e continuo, se pur povero, viene descritto sorprendentemente come più sensibile alla “imprenditorializzazione”. E questa, infine, viene identificata come l’arma inattivante principale. Dunque, cade la conclusione: “mentre la piccola borghesia impoverita sembra effettivamente esprimersi nel registro dell’egoismo corporativo, per questi strati di lavoro dipendente la mera difesa degli interessi immediati, molti dei quali sarebbero in linea teorica facilmente collegabili ad una strategia anti-globalista e anti-unionista, appare quasi uno scenario utopico”. Insomma, si muovono gli unici che possono muoversi.
Questa considerazione è forse lo specchio del fatto che, fino ad ora, l’area del sovranismo costituzionale democratico e di ispirazione socialista è stato egemonizzato, in termini di composizione di classe, proprio da questi ceti intermedi indeboliti.
E la conferma empirica di questa conclusione controintuitiva, che chiude un problema, viene trovata nel fatto che il movimento di questi ceti era alla base della fiammata di consenso del M5S e in parte della Lega nel 2018. Staccandosi dalla sinistra globalista (e dalla destra altrettanto legata all’establishment europeista) questi segmenti, che portarono al sud il voto al 5S a percentuali mai viste in Italia, avrebbero insomma scelto un posizionamento di classe, senza averne coscienza. Le istanze di protezione e le difese identitarie a fronte del rischio percepito di ‘indigenizzazione’[10], sarebbero dunque il terreno di un “immediato posizionamento di classe”.
Insomma, per Melegari e Capoccetti, di qui si parte. Dal disagio e dalla periferia, si potrebbe dire, e non dai ceti ancora garantiti, che sono il residuale bacino di elezione delle sinistre[11].

Possiamo proporre un’interpretazione alternativa, ma prima torniamo un attimo indietro. Nel complesso discorso dei nostri, quale problema rendeva necessaria la mossa di attribuire ai lavoratori salariati (i cosiddetti “proletari”) l’orientamento alla soggettivazione imprenditoriale e, di converso, ai ceti medi “bottegai”, il ruolo di nucleo centrale della “maggioranza atomizzata” che va portato dalla propria parte perché strategico? Quello che fattualmente esiste nelle formazioni attive, anche se talvolta solo sui social, questa composizione. La dissonanza si risolve, attribuendo all’inerzia dei lavoratori “forti” (che poi lo sono sempre meno) un carattere inibente neoliberale. È, insomma, un artificio retorico che copre un paradosso: si muovono coloro che sono più lontani e meno quelli che in teoria sono più vicini, per posizione strutturale, a richiedere il superamento dell’inibizione neoliberale del ruolo del pubblico[12].
Se si accetta, però, la spiegazione posta ne deriva per gli autori che è “assolutamente strategico” portare dalla propria parte proprio questi, direi per primi questi (se non solo). In quanto solo così si può lottare “per” il potere dello Stato. Ovvero, in un altro passaggio-snodo dell’argomento, con lo Stato come campo del potere. Qui cade lo sguardo.
L’equazione è lineare: i ceti che si muovono sono i soli che possono farlo e, dato che l’obiettivo è prendere il potere, bisogna stare con loro[13].

Ma, non sfugge agli autori, che se si deve passare di qui, allora non si può porre la questione del potenziamento di Stato e servizio pubblico. I “bottegai” lo odiano, e la rigetterebbero, facendo venir meno la strategia di presa del potere. Allora bisogna aggirare il punto, articolando il discorso piuttosto sulla “nazione”, come dicono, “come forma di integrazione sociale”. Non è molto chiara, ma procediamo.
Inoltre, qui risorge la lezione di Ernesto Laclau e la cultura degli autori: la rivoluzione neoliberale avrebbe reso ormai insuperabile la destrutturazione dei corpi collettivi, e quindi ciò, in qualche modo, dissolverebbe anche “la distinzione e la dialettica tra interesse corporativo e interesse generale” e l’articolazione ascendente tra “lotta sociale e costruzione politica”. Come è lo Stato ad avere un potere in sé, che si può prendere, ed usare, nello stesso modo le maggioranze sociali sono formate dalla politica, ovvero dall’affermazione di una politica. Qui, in questa concezione specifica del politico, è, in altre parole, incorporata una concezione interamente strumentale delle maggioranze sociali, o, per dirlo diversamente, lo schiacciamento diretto e totale delle maggioranze sociali in maggioranze politiche.
Compare qui, in posizione operativamente strategica, la nozione di “catene equivalenziali”, come commistione, sporcatura, mescola, di interessi eterogenei e anche opposti, intorno ad una retorica di successo ed una adeguata narrazione e rappresentazione. Serve a tenere insieme, per il tempo che basta: chi odia lo Stato e chi, invece, lo vuole potenziare; chi vuole ascendere alla posizione dalla quale può nuovamente, e finalmente, sfruttare il lavoro debole (di commessi, impiegati, operai) per vincere la lotta della vita e raggiungere il proprio posto in essa, e chi, magari, vorrebbe ridurre il proprio grado di sfruttamento e guadagnare condizioni di lavoro più dignitose; chi ha bisogno di indebolire il lavoro per sfruttarlo e chi questo lavoro lo presta; chi abita le periferie e chi ne fugge disperatamente; chi si sente in basso e chi in alto.
Per quanto tempo? Anche poco, poiché detta il tempo il calendario politico. Il tempo di lottare “per” lo Stato, e non “nello” stesso, abbiamo letto.
Potrebbe essere qui la chiave per comprendere una frase altrimenti oscura come la dissoluzione de la “la distinzione e la dialettica tra interesse corporativo e interesse generale”. L’interesse generale, perseguito e raggiunto vincendo la gara (elettorale) “per” lo Stato, viene raggiunto anche funzionalizzando forze corporative al di là della loro stessa natura e scopi[14].

L’articolo ha una sua coerenza interna piuttosto chiara, ma regge su alcune inavvertite forzature. Il superamento della dicotomia, strutturale si direbbe, tra classi lavoratrici poste alla base della piramide sociale e i ceti intermedi, o per usare il termine la “piccola borghesia”, è dichiarata come conseguenza del crollo del cosiddetto “compromesso keynesiano”. Tuttavia, egualmente, viene dichiarato che dei due segmenti che non sarebbero più analiticamente distinguibili (ma dei quali si muove solo uno), è il primo ad essere il più compromesso con lo spirito neoliberale. Quindi è il primo a non essere un referente plausibile, ad essere meramente “utopico”. Dunque, se pure è vero che il secondo tende ad atteggiamenti neocorporativi, alla fine, per assoluta mancanza di alternative, la presa del potere dello Stato è possibile solo con il secondo per gli autori. Ciò sembrerebbe chiudere il discorso.

In verità lo spirito neoliberale pervade l’intera società. Tuttavia, nel momento in cui di questo viene focalizzato individualismo e “imprenditorializzazione” è davvero singolare sostenere che micro e piccoli imprenditori, autonomi, commercianti, ne siano meno impregnati di insegnanti, impiegati, operai e funzionari pubblici. Sganciando questa assunzione (anzi rovesciandola) si resta però in debito della spiegazione di un fatto: si muovono i secondi, per ora. Qui l’approccio culturale degli autori forse fa schermo ad una spiegazione più semplice: questi si muovono perché, lungi dall’essere una questione di cultura, per ora soffrono di più, subendo direttamente e senza le protezioni residuali del trentennio l’impatto di un arretramento della domanda aggregata interna e delle trasformazioni ipercompetitive (essenzialmente messa in contatto) dell’ultimo decennio. Si muovono perché per loro è più aspro lo scollamento tra la promessa di autopromozione o di elevamento e la realtà di scivolamento e stagnazione nella quale sono stati formati. Promessa sulla quale contano per ancorare l’autoriconoscimento in una logica di competizione verticale propria della soggettivazione come classe.
Ma spostare l’enfasi da una debolezza cognitiva ad una strutturale porta con sé anche una spiegazione alternativa dell’approccio neocorporativo, dell’odio per l’eguaglianza che l’azione pubblica porta con sé, della polarità esattamente opposta ad uno spirito socialista. Questi ceti e gruppi, quelli che Wright Mills chiamava in mezzo al trentennio “un’insalata di occupazioni”, fatta di dirigenti, professionisti, addetti alle vendite, impiegati, artigiani, piccoli e medi imprenditori, accomunati da molto poco oltre a certi parametri di reddito rilevati ex post e il desiderio di un certo status sociale, vogliono ascendere. Vogliono staccarsi dai ceti popolari e dai lavoratori, e vogliono, anzi che questi gli servano per farlo.
Il fatto è che non tutto è narrazione, esistono delle vischiosità determinate dalle posizioni rispetto all’insieme dell’organizzazione sociale ed il suo sistema di distribuzione delle risorse. Autonomi, professionisti, micro e piccoli imprenditori, “bottegai”, sono tutti datori di lavoro potenziali dei lavoratori dipendenti. Guardano il rapporto di produzione dall’altro lato. È vero che faticano ad essere realmente ‘ceto medio’, ovvero ad avere quella adeguata protezione dai rischi della vita determinata dal possesso dei capitali (relazionali, spaziali, culturali e soprattutto meramente economici), perché la crisi li ha erosi. Ma è proprio per questo, e non altro, che si muovono.
In altre parole, si muovono per riguadagnare la distanza che li qualifica ai loro occhi come ‘ceti medi’ e non per cambiare il sistema sociale di produzione che crea queste gerarchie. Si muovono per riaffermare le gerarchie ed il sistema neoliberale. Non è affatto un caso si muovano in direzioni neocorporative e non è un caso siano ostili a qualsiasi azione pubblica che non sia diretta ad un sostegno assistenziale esclusivamente a loro.

Se la scelta fosse seccamente di scegliere tra ceti lavoratori e medi impoveriti, e il programma fosse favorire una trasformazione della società in senso socialista, bisognerebbe concluderne che, casomai, è con i secondi che non si può fare nulla[15].
Ma qui interviene il vero punto centrale dello sguardo dei nostri: prendere il potere dello Stato è il passaggio necessario per trasformare la società. Si prende questo potere vincendo le elezioni. Si vincono le elezioni assommando, per qualsiasi ragione e scopo effettivo, in un dato week end milioni di x su una scheda. Si fa, insomma, con quello che si ha.

Si tratta di un argomento forte. Ne oppongo un altro: quando anche si prendessero i ruoli politici, il potere non è contenuto nella figura organizzativa formalmente apicale, in nessun caso e tanto meno nella macchina pubblica statuale. Il potere, quello effettivo, ovvero quello di cambiare, è contenuto nelle relazioni circolanti in un molto più vasto sistema ed ha carattere continuo, non discontinuo. Come la parabola del M5S, ed in misura minore di Podemos, hanno mostrato in evidenza, un potere assunto sulla base di ‘catene equivalenziali’ troppo lasche, che aggirano i conflitti invece di trattarli e risolverli, trasmette debolezza nel momento in cui le figure formalmente apicali restano esposte alla vischiosa potenza del potere. Messi di fronte a procedure istituite automatiche, a funzionari che esprimono con forza reticolare specifiche culture ed indirizzi, che rispecchiano relazioni sociali, ad istituzioni ostili, ad una razionalità solida che gli si palesa e con la quale mai avevano avuto a che fare, questi hanno dovuto ripiegare in disordine. E questo arretramento, elettoralmente drammatico, che mostra l’inutilità di questa via e distrugge preziosissimi patrimoni di fiducia pubblica, lascia le cose esattamente come erano. Se accade la trasformazione della società è fallita.
Ad un vicolo cieco se ne contrappone un altro.
Certo, la polemica posta verso il pezzo di Vitali è ben scelta, e la critica, che da questo si assume, della “politica dei due tempi”[16], appropriata. In linea di principio, inoltre, l’idea di connettere le lotte, senza cadere in forme sterili di purismo, è intelligente. Ma una cosa è non “sovra-ordinare” tutto, un altro non porre le questioni dirimenti per paura di scoprirsi nemici. Chi è nemico lo resta. Non lo è per una questione di cognizione, di cultura, ma per una questione di rapporti oggettivi. Intendiamoci, i rapporti sono sempre oggettivi per un effetto di sistema totale, non in sé, dunque è sempre alle caratteristiche di questo sistema ed alla dinamica che bisogna guardare.

Parte seconda: la fase.
Vediamo allora di descrivere cosa si muove nella fase. Poniamo alcune affermazioni:
1.      E’ da tempo in corso una spirale verso il basso, che alla difficoltà di riproduzione del capitale, per la progressiva scomparsa della domanda interna (e contrazione dell’estera), in tutte le sue articolazioni (incluso la quota di capitale che si esprime nei ceti oggetto dell’attenzione dei nostri) risponde in modo miope riducendo ancora di più i salari, aumentando la competizione tra lavoratori, importandoli se necessario, e garantendo che sempre più costi siano assorbiti dallo Stato. Alla fine, la protezione dei profitti privati, assecondandone le inclinazioni allo sfruttamento crescente, aggrava il problema e danneggia tutti.
2.      Ma questa dinamica è vissuta in modo asimmetrico, almeno per livello di urgenza, tra coloro che sono connessi con le catene del valore in qualche modo, sia pure a diverso livello di centralità e valore aggiunto, e coloro che ne vivono al margine, impiegati in una insalata di lavoretti, di occasioni, espedienti, variamente visibili e variamente sommersi[17].
3.      È vero che la tradizione divisione di classe, tra lavoratori salariati, lavoratori autonomi e gestori dei capitali, si è in questi ultimi venti anni enormemente articolata e complessificata, secondo molteplici linee. Divaricandosi almeno in posizioni intermedie, con amplissimi strati di lavoratori precari, intermittenti, ‘atipici’, deboli o debolissimi, esposti a qualunque turbolenza e senza alcuna rete (in mezzo tra i “salariati” e gli “inoccupati”). Inoltre, finti autonomi, persone che assommano tante piccole attività semi-professionali, hobbistiche, artigianali, quasi-commerciali, persino internazionali, pur di cumulare una qualche capacità di reddito, sempre esposta sull’orlo del baratro e sempre aperta alla speranza del ‘decollo’ (in mezzo tra sottoccupati e ceti medi imprenditoriali). Finte classi medie in aspettativa, spesso sovracculturate. Terzo, ci sono i piccolissimi capitali ed i loro solo provvisori gestori, incapsulati nelle nicchie locali più improbabili, dediti ad equilibrismi continui, costantemente ristrutturati e sempre affannosamente in cerca di ossigeno e credito da un sistema in costante restringimento, come una garrota. La stratificazione di segmenti di classe e di attività è, infine, scalata in una gerarchia di ambienti geografici declinante sull’asse tra centri metropolitani, mediamente più densi, attivi ed interconnessi, e quindi ricchi di opportunità, e aree periferiche, notevolmente più diradate, lente e povere.
4.      Di tutto questo mondo che soffre, si muovono -salvo frange quantitativamente irrilevanti di attivisti- solo coloro che riescono ad organizzarsi per linee corporative, reciprocamente impermeabili. Si tratta dell’avvio di un “assalto ai forni”, condotto per fazioni. I ristoratori, i commercianti, gli operatori turistici, i professionisti, le piccole imprese, le grandi, le banche, assicurazioni, il settore edile, ... chiunque abbia la possibilità di mostrarsi come gruppo e di avere qualche organizzazione di riferimento e supporto. Assalto di chi ha più voce, chi ha organismi stabili, oliati e ben relazionati in grado di rappresentare (è il caso delle grandi imprese che si appoggiano sulla stentorea voce di Confindustria). Tutti organismi internamente egemonizzati dalla relativa frazione di capitale e dai suoi gruppi dirigenti.
5.      Percependo chiaramente questo movimento che va, senza soluzione di continuità, dalle frazioni di ceti medi impoveriti, ma organizzati, alle grandi organizzazioni datoriali, con una mossa del cavallo[18] di grande impatto, i grandi paesi guida della Ue hanno proposto una meccanica a tre punte per affrontare la crisi derivata dallo shock pandemico mondiale: un significativo stimolo rivolto alla ristrutturazione del funzionamento dei sistemi economici nazionali in direzione di efficientamento, integrazione funzionale, gerarchizzazione territoriale; il sostegno temporaneo, fortemente discrezionale e quindi strettamente negoziato sotto il tavolo, della Bce alla liquidità; la minaccia pendente di richiamare lo squilibrio del rapporto debito/Pil, destinato ad esplodere nel breve termine, riattivando il Fiscal Compact. La prima punta agisce secondo la logica dei fondi strutturali ed è potenzialmente asimmetrica (sicuramente in relazione al tempo), e quindi è redistributiva ma trasmette anche, nella sua meccanica concreta, rafforzamento del principio d’ordine centro/periferia[19]; la seconda agisce tramite il Pepp, recentemente rafforzato, ma è soggetto al complesso quadro aperto dalla sentenza della Corte Costituzionale tedesca[20], e comunque come d’uso esprime anch’esso una logica d’ordine; il terzo è inevitabile, dato che in questo quadro è altamente improbabile esista il capitale politico per scrivere nuovi trattati ed approvarli, con l’austerità torneranno i suoi effetti.
6.      Ma qui cade il punto. La meccanica delle tre punte divaricherà il paese ulteriormente, rinsalderà i ceti medio-alti, in particolare delle aree e filiere centrali, consentirà a tutti coloro che direttamente o indirettamente riusciranno ad accedere al beneficio della redistribuzione (che sarà calibrato nei tavoli molteplici sulla verticale Berlino, Bruxelles, Parigi, Roma e i tavoli di concertazione aperti in quest’ultima) di rialzarsi, tornando in zona confort (e quindi disattivarsi), mentre lascerà i veri ceti popolari e del lavoro, e le frange più periferiche dei ceti medi e autonomi, sul bagnasciuga, appesantendoli con una netta riduzione del welfare (e quindi del reddito indiretto) e con i ventilati, ulteriori, indebolimenti e flessibilizzazione richiesti a gran voce. Non è per caso che questi odiano lo Stato e l’azione pubblica.

In questo quadro, quale è la forza che muove la situazione?
La forza in campo è di natura sistemica. Il sistema di potere uscito dalle due guerre sta andando fuori dei suoi cardini, ed ogni centro di potenza e di aggregazione dei capitali reagisce cercando di ricreare internamente l’ordine e canalizzando le forze. Di fronte ad una dinamica di riorganizzazione e concentrazione di potere e capitale che è andata avanti, accelerando, almeno negli ultimi trenta anni e mentre si giungeva abbastanza evidentemente al limite della tenuta socio-politica e quindi economica (la seconda dipendendo in modo profondo dalla prima), lo shock pandemico ha spinto la situazione ad un tale punto di fragilità da rompere il sistema di vincoli inibenti.
Sta partendo, allora, una grande operazione di rafforzamento del controllo “carolingio”, germanocentrico, rivolto a sostenere i campioni “core”, aumentare l’integrazione subalterna e organica delle filiere produttive europee, segmentandole meglio da quelle esterne. Nel farlo si creeranno ulteriori vie di deflusso finanziario ed umano dai paesi periferici. Questo meccanismo potrebbe surrogare, anche se parzialmente, ai contraccolpi possibili della frammentazione geopolitica mondiale, andando a sostituire gli investimenti in beni capitali della Cina e creando una forma sui generis di ‘domanda interna’ di tipo propriamente imperiale. Il sistema europeo, lungi dal diventare realmente ‘federale’ evolverebbe in direzione di una relazione sistemica centro/periferia probabilmente con elementi di novità, ma più vicino al modello della relazione tra Stati Uniti e paesi del continente (Nord e Sudamerica) che non a quella interna agli Stati Uniti stessi.

Parte terza: che agenda politica?
Come agisce questa forza sulle dinamiche e le contraddizioni in seno al popolo richiamate in questa discussione?
In primo luogo, comprendendo quale è il progetto di paese nel quadro del progetto europeo e nella competizione mondiale. In secondo luogo, chiarendo chi se ne giova e quali altre linee di frattura si aprono (e quali si chiudono). In terzo luogo, identificando chi ne paga le spese.

La questione è di capire, in una situazione dinamica, non tanto chi si muove oggi, ma chi è nella posizione di fare leva per agire nel conflitto in essere contrastandone la forza motrice. Contrastandola per indurre l’avvio di un riequilibrio dei rapporti di forze che possa indurre degli elementi di socialismo, dei quali c’è assoluto bisogno. Senza i quali nessuna soluzione potrà essere trovata neppure ai dilemmi sistemici sommariamente descritti. Per fare questo non si deve partire dalla mera fotografia dell’esistente, immaginando che chi oggi è attivo o inattivo lo resti sempre, e non bisogna immaginare la questione del potere come un episodio singolo. Una “presa”. Bisogna comprendere, e bene, cosa è per noi il popolo e cosa sono i suoi nemici. Sapendo che verso i nemici si combatte, verso il popolo si lavora a creare unità di interesse e sentire.
In sé la contraddizione tra chi intende elevarsi abbassando gli altri, ovvero aumentando il saggio di sfruttamento a proprio vantaggio, e chi ne subisce l’azione sistemica è una contraddizione antagonista. Che può sia scivolare in una relazione con nemici, sia essere ricondotta ad una dimensione organicamente equilibrata, ma solo se viene trattata espressamente[21]. Inserendo i desideri, le pulsioni, e le ambizioni delle diverse soggettività sociali in un quadro non competitivo, socialista, appunto. Si tratta allora di distinguere tra inimicizia e divergenza (di rappresentazione, teoria delle funzioni sociali, prospettiva temporale). Tra la lotta e la discussione.
Nella misura in cui le molteplici divisioni di classe indicate in questi interventi sono riconducibili ad una contraddizione in seno al popolo, e non ad un rapporto tra nemici, si può in linea di principio ricondurre e saldare in un più ampio progetto. Ovvero lavorare alla costruzione di un blocco sociale capace di cambiamento. Come ebbe a dire Mao: “le contraddizioni in seno al popolo sono contraddizioni che esistono sulla base di una fondamentale identità degli interessi del popolo”[22]. La fondamentale identità degli interessi, che, sola, può definire per noi la nozione di “popolo”, emerge quindi direttamente dalla lettura storica della fase. Dall’interesse a interrompere la spirale verso il basso, comprendere l’unità dei marginali, e degli intermedi con i lavoratori tutti, ad uscire dalla logica dell’assalto egoistico ai forni, ad ostacolare e ricondurre ad interesse realmente generale la mossa delle tre punte. Anche le contraddizioni che possono essere considerate per se stesse antagoniste, come quelle tra chi ha interesse diretto ed immediato a massimizzare l’estrazione di plusvalore per sé (ad esempio, pagando meno un aiutante domestico, un impiegato, un segretario, un commesso), possono essere volte, comprendendo le caratteristiche strutturali di fase, a contraddizioni non antagoniste, e quindi “nel popolo”. Sapendo che, come appunto scrive Mao: “tutte le questioni di carattere ideologico e tutte le controversie in seno al popolo possono essere risolte solo con metodi democratici, con i metodi della discussione, della critica, della persuasione e dell’educazione; non possono essere risolte con metodi coercitivi e repressivi.” È essenziale che, per ottenerlo, si immagini la situazione in modo dinamico e si parta dall’atteggiamento della ricerca dell’unità, passando attraverso una critica aperta e franca, una discussione aperta, volta alla correzione di errori e incoerenze, per puntare nuovamente all’unità[23]. Tenendo conto contemporaneamente degli interessi degli individui, dei collettivi e dello Stato. Identificando l’unità specifica e necessaria tra classe e nazione. O meglio, tra le classi alleate e complementari e la nazione nella sua indipendenza e capacità di autodeterminazione.

Tornando all’ottimo articolo di Melegari e Capoccetti, è insomma chiaro che si tratta di una situazione complessa e che non si presta a divaricazioni a priori tra amici e nemici (a meno, naturalmente, non si rivelino per tali su qualche posta concreta nell’ambito del processo politico). Tuttavia, è anche chiaro che non c’è una scontata identificazione di tutto l’arco dei marginali e subalterni come “popolo”. Ma tutto questo è, naturalmente per effetto del format dell’articolo, costretto in formule. Ed allora si salta a definire il ceto medio come orizzonte permanente dell’azione politica: “un’alleanza necessaria e senza scadenza”.
Certo, hanno ragione Melegari e Capoccetti, a temere che una qualche “assiomatica di classe” (quella contro la quale, peraltro, lavorava anche il testo di Mao) impedisca di cogliere le opportunità che pure il tempo riserva, ma la questione non è di quanto aspettare, quanto di dove andare.
Perché il problema non è di prendere lo Stato, come fosse una macchina. Ma è di cambiarlo. E questo può avvenire solo se le forze sociali che trasportano verso di esso restano attive e consapevoli dietro le spalle, stringendo e limitando ad un tempo. O, meglio, se in esse, come un pesce nell’acqua, si nuota. Se la ‘base sociale’ e la ‘base di massa’ restano in una relazione organicamente coerente ed adatta alle sfide della fase.

La natura di questa acqua è il punto dirimente; non è questione di retorica, di narrazione, di colpo di mano. Il punto è che se si vuole essere cambiamento bisogna che le contraddizioni siano individuate, affrontate, risolte. Che gli amici siano distinti dai nemici, lo Stato dal potere.




[3] - Lorenzo Biondi, “Ripensare la composizione di classe”.
[4] - Non è del tutto chiaro a cosa si riferisca, nel testo, il concetto di superamento della dicotomia.
[5] - Ricordiamo che il termine “neocorporativo” è riferito storicamente non già alle corporazioni medioevali che si dissolvono nel primo ventennio del XIX secolo in vista della trasformazione in proletariato di fabbrica, ma alla costruzione ideologica e pratica dei fascismi, tutti, che puntano su una organizzazione della società verticale, alla quale aderiscono lavoratori e capitalisti, uniti dall’interesse di sezione economica, anziché da quello di classe. Interesse dei commercianti, appunto, della logistica, delle diverse branche dell’industria, e via dicendo.
[6] - Sulla classe media e la sua crisi si veda Arnaldo Bagnasco, “La questione del ceto medio”, 2016; Christophe Guilly, “La società non esiste”, 2018; Branko Milanovic, “Mondi divisi”, 2005; e per una lettura storica il classico Paolo Sylos Labini, “Saggio sulle classi sociali”, 1974.
[7] - Nota formula della sinistra extraparlamentare degli anni settanta. L’autonomia della classe dalle dinamiche del capitale.
[8] - Anche questa è una nota formula della sinistra extraparlamentare degli anni settanta ed echeggia le critiche di Autonomia Operaia (1973-1979) e, prima, Lotta Continua (1969-1976) al sindacato, colpevole di riportare l’energia operaia in un quadro di compatibilità borghese.
[9] - Considerazione, questa, che si muove in altra direzione.
[10] - Ovvero della incidenza dell’immigrazione nelle aree di vita periferiche di questi ceti che, pur se salariati, condividono la debolezza economica con buona parte delle classi medie inferiori, alle quali appartengono peraltro.
[11] - Talvolta solo con divisione di età, i padri al Pd ed i figli alla sinistra radicale.
[12] - Peraltro, alcuni dibattiti chiave, come quello sul Covid e le misure di protezione sociale via distanziamento, o quelle sui complotti che sarebbero dietro ogni azione pubblica, come le vaccinazioni, l’autorizzazione a introdurre nuove tecnologie di telecomunicazione, gli obblighi generali, mostrano che in realtà anche l’area attiva è molto lontana dal volere un ruolo del pubblico centrale, e condivide, pur senza esserne cosciente, l’ostilità neoliberale ad ogni forma di regolazione.
[13] - Noto, a margine, che l’argomento di impossibilità è interamente di natura culturale, questi, i ceti lavoratori dipendenti e/o proletari, sarebbero più compromessi con il neoliberalismo, ovvero con la sua modalità di costruzione del soggetto. Alla stessa conclusione si poteva arrivare anche avanzando argomenti di tipo organizzativo (ma allora ne discendeva un terreno di lotta), o materiale (ma allora la soggettività imprenditoriale sarebbe stata un cattivo marcatore).
[14] - A questa posizione, se fosse corretta, si potrebbe replicare in molti modi. Uno è che non funziona così, non ci sono strumenti e scopi, separati. Nelle formazioni sociali, forma, strumento e scopo sono con-fusi. Dunque, non si può utilizzare forze contro la propria natura, manipolandole linguisticamente. Sullo specifico del corporativismo ci si può riferire all’ultima delle lezioni sul fascismo di Palmiro Togliatti. In essa, dedicata appunto al “corporativismo”, che in Italia prende la forma “socialista” di “realizzazione del principio di collaborazione di classe nell’ambito dell’organizzazione economica”. In linea generale questa è la sintesi dell’elemento posto dal capitalista e quello del lavoratore. L’elemento “essenziale e sostanziale”, senza il quale non si parlerebbe di corporativismo nella condizione di una società capitalista, è la collaborazione di classe, ovvero l’eliminazione del concetto stesso di lotta di classe per via della condivisione di obiettivi e la relativa collaborazione. Come opportunamente sottolinea il nostro, questa idea della collaborazione corporativa non è specifico, né invenzione, del fascismo. Si trova nel proudhonismo e in alcune correnti socialiste o nelle versioni cattoliche ispirate dalla “Rerum novarum”. Ma qui cade proprio il punto politico, e la leva, in quanto la collaborazione tra interessi frontalmente contrapposti, nella stessa organizzazione, non è realmente realizzabile. Ci sarà sempre la prevalenza dell’uno o dell’altro. Cfr. Palmiro Togliatti, “Lezioni sul fascismo”, Editori Riuniti, 2019, in particolare p. 160.
[15] - E’ ovvio che questa conclusione sarebbe meramente oppositiva. Con quel che si muove si entra sempre in relazione, ma conoscendone caratteristiche e agendo entro le contraddizioni esistenti, tra queste e la situazione, per determinare il sistema di alleanze ed egemonia idoneo a produrre la trasformazione necessaria. Non per aderirvi.
[16] - Ovvero di quella tattica che vede un primo momento di formazione di un Comitato di Liberazione, volto a ripristinare lo spazio democratico con chiunque (quindi anche con forze come la Lega, che molto ambiguamente perseguono questa agenda) per poi, in secondo tempo, lottare per l’affermazione degli interessi di classe, schierando i vecchi alleati su sponde contrapposte.
[17] - I primi, i visibili, sono circa 25 milioni, solo 4 impegnati in attività manifatturiere e gli altri nel vastissimo e complesso mondo dei ‘servizi’. Qui si va dai 6 milioni di persone del commercio, i 5 milioni della Pubblica Amministrazione i 2,5 dei servizi di intrattenimento e 3,2 di attività professionali. I secondi sono stimati in circa 4 milioni di persone. Poi abbiamo i disoccupati effettivi, che dovrebbero essere 6 milioni.
[19] - Andranno in questa direzione gli investimenti, coordinati e orientati dalla Ue, secondo i desiderata anche del nostro sistema industriale e datoriale. Ad esempio, Carlo Bonomi anticipando il “Piano strategico 2030-50” che Confindustria presenterà al governo in autunno, ha indicato le priorità essenziali in: investimenti in innovazione e ricerca, capitale umano, sostenibilità ambientale e sociale delle produzioni, nuove forme organizzative e contrattuali, qualificazione e sostegno alle filiere dell’export. Tradotto tutto ciò si avranno concentrazioni di investimenti in sistemi di digitalizzazione dei processi industriali (“industria 4.0”), il cui fornitore essenziale è Siemens, e della finanza (“FinTech 4.0”), criptovalute e App, oltre che capacità di Big Data sempre più evolute, ulteriore segmentazione verso l’alto ed il basso della formazione (con probabile estensione verso il basso della Dad ed altre tecniche di “efficientamento didattico”), inserimento di normative e standard tecnici che inducano ad una maggiore intensificazione del capitale organico e quindi concentrazione utilizzando come cavallo di troia la necessità di implementare la sostenibilità, forme contrattuali ancora più flessibili, potenziamento della estroversione dell’economia. Molte di queste cose sono presenti e tradotte in incentivi pubblici nel “Piano Transizione 4.0” del Ministero dello Sviluppo Economico che era allegato alle prime bozze del Decreto Rilancio e sarà certamente proposto in occasione degli Stati generali dell’economia, appena avranno raggiunto un accordo.
[21] - Anche in questa direzione gioca rileggere il testo togliattiano, in particolare le indicazioni sul lavoro da fare entro i sindacati fascisti (l’ambiente più ostile si possa immaginare), non lavorando per sabotarli bensì perché in essi siano sollevate le questioni, posti in evidenza i nodi critici, sollecitata l’esplicitazione dell’azione a difesa dei lavoratori, pungolati e se del caso reclamati i fiduciari fascisti di fabbrica. Comprendendo ogni spazio come “complesso di rapporti di classe” le cui potenzialità sono da esprimere, sfruttando interamente le possibilità offerte dalla situazione. Cfr. Palmiro Togliatti, “Lezioni sul fascismo”, cit., p.105 e seg.
[22] - Mao Tze Tung, “Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo”, 1957, XI sessione allargata della Conferenza suprema dello stato.
[23] - Come scrive: “partire dal desiderio di unità, distinguere chiaramente la ragione dal torto per mezzo della critica o della lotta e raggiungere una nuova unità su una nuova base”.

1 commento:

  1. Buongiorno Visalli, posso consigliarle due libri che secondo me meritano una bella recensione.
    Uno è La tragedia dell'euro di Ashoka Mody. Non ho ancora preso in mano il libro, ma per quanto ho avuto modo di capire tramite diverse citazioni, sembra un lavoro molto ampio e organico, una sorta di enciclopedia della questione Euro. Il prestigio dell'autore e la sua terzietà, per così dire, un economista indiano naturalizzato americano, dovrebbero deporre a suo favore presso un'ampia gamma di potenziali lettori. L'altro è Le luttes des classes en France au XXI siècle di Emmanuel Todd, una descrizione stupefacente della situazione francese, da uno dei maggiori intellettuali e interpreti della storia contemporanea viventi. Di suo, imprescindibile è anche L'invention de l'Europe, che probabilmente andrebbe integrato con il suo più recente volume sull'origine dei sistemi familiari.

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