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domenica 18 febbraio 2024

A partire da Gershom Scholem, “Il nichilismo come fenomeno religioso”, la questione dell’elitismo e del messianismo politico.

 


Gershom Scholem fu, probabilmente, il migliore e più stabile amico di Walter Benjamin ma la sua vita si svolse, dopo un avvio comune, su strade e sentieri molto diversi. Filosofo, teologo e semitista proveniente da una famiglia ebraica tedesca, si trasferì molto presto in Israele e qui rimase fino alla morte, a ottantacinque anni, a Gerusalemme nel 1982. Nel percorso della sua ricerca fu uno studioso della storia delle religioni e, in particolare, della cabala oltre che dei movimenti mistici ebraici. In particolare del movimento sabbatiano (da Shabbĕtay Ṣĕbī). Vicino in gioventù al sionismo laico e socialisteggiante degli anni Dieci ne giudicò in modo severo l’evoluzione. In Walter Benjamin. Storia di un’amicizia[1], il suo libro sull’amico, dichiaro che “il sionismo si è ucciso vincendo”[2], distinguendo tra una versione mistico-religiosa ed una ‘pratica’ mirante alla soluzione politica ben nota. Una pratica che evoca da sé le forze della sua distruzione spirituale e precipita nella “disperazione del vincitore [che] è ormai da anni la demonìa peculiare del sionismo”. Il quale con Buber, e tanto più quando si fa materia in Palestina, si vuole come ‘sangue e vita vissuta’ e quindi razza.



Di questo complesso autore leggeremo ora solo una piccola, ma interessante, conferenza, tenuta in Svizzera nel 1974, Il nichilismo come forma religiosa[3], nella quale l’autore riassume la storia di alcune forme del misticismo ereticale e messianico ebraico e cristiano. Per cominciare vediamo intanto cosa definisce come ‘nichilismo’: l’atteggiamento di colui che contesta per principio qualsiasi autorità, che quindi non accetta alcun principio per fede, a prescindere da quanto sia essa seguita. Si tratta di un atteggiamento invero oggi molto familiare. Per questo vale la pena ripercorrere il racconto di Scholem.

Le formazioni nichilistiche hanno necessariamente una natura elitistica, in quanto per stessa definizione si separano e si considerano elevate, illuminate. Talvolta si tratta di una sorta di elitismo reattivo, dal margine e dal basso che mira alla distruzione del mondo per come è esperito per raggiungere da esso una via di uscita trascendentale. Esse compaiono in particolari momenti di crisi e non puntano a costruire nuove strutture, quanto alla distruzione di quelle che ci sono. Seguono una via, di natura necessariamente mistica, che conduce al progressivo abbandono delle strutture del mondo dell’esperienza comune e ad una conseguente destrutturazione dell’esperienza sensibile. L’esperienza mistica quasi necessariamente si accontenta della distruzione, e rivolge la corrosione della sua critica, in primo luogo, ai valori comuni ed alle autorità che ne garantiscono la validità[4]. Viene in esse negato il valore del mondo, in vista di un non precisato superamento.

 

Messianismi antichi e premoderni

Nella versione della gnostica antica, ad esempio, Dio diviene qualcosa di estraneo al mondo, anzi di antitetico. Ne derivano versioni particolari, come quella dell’egiziano Carpocrate, vissuto nel II secolo d.C., che difese la causa di Caino. I “cainisti”, quindi, si sentivano liberi di fare tutto allo scopo di esperimentare ed esaurire tutte le loro libertà. Si misero in pratica forme estreme di comunismo e di libertinismo.

Queste tendenze ricomparvero nei “fratelli del libero spirito” medioevali, la cui prima provenienza sociale era da ceti laici e non particolarmente colti. Ma con una fondamentale differenza: mentre gli gnostici traevano la loro ispirazione dal rifiuto della creazione, i nuovi eretici medioevali la divinizzarono. Si trattò di una mistica panteista di matrice quietista[5], la quale in genere rimase confinata in un insegnamento segreto e solo in pochi casi assunse forma attiva e rivoluzionaria. Per lo più restarono interni, durante il secolo XIV e XV, a comunità che cercavano di qualificarsi per una vita intensamente mistica, come i seguaci di Meister Eckardt[6]. Le componenti eretiche, mescolate e talvolta nascoste a quelle apparentemente del tutto canoniche, assunsero allora nomi come “gli spiriti alti”, o “nuovi”, o “liberi”. La ricercata libertà da ogni vincolo si intonò all’idea di essere parte di un’umanità superiore, non legata ad alcuna convenzione ed in alcune versioni mutò nei cosiddetti “adamiti” nel XII secolo. L’illuminato può infatti riconquistare la condizione paradisiaca prima della caduta nel peccato e quindi, gli adamiti oltre a girare nudi in appropriate circostanze, sostenevano una forma di comunismo radicale e pratiche violente contro le comunità infedeli.

Nell’ebraismo invece trovarono forma due tendenze: una versione mistica che si svolse entro la regola del Talmud e forme messianiche, ispirate ad una astratta speranza e qualche utopia, per lo più dissimulata e passiva. Un caso principale illustrato da Scholem è quello di Shabbĕtay Ṣĕbī di Smirne e del suo profeta, Nathan di Gaza[7]. Nel 1665-66 la loro predicazione lacerò l’intero mondo ebraico, per l’autore si trattava di un delirio messianico apocalittico in cui si annunciava il passaggio a una nuova età di liberazione, sia interiore sia esteriore. La cosa sorprendente è che, però, sotto la pressione della dominazione turca Ṣĕbī si convertì all’islam. Questa apostasia della guida spirituale distrusse la fiducia dei fedeli. Emersero allora due posizioni: la prima concludeva che quella di Shabbĕtay era una falsa dottrina e quindi un episodio demoniaco. La seconda, viceversa, adattò una sorta di nuova cabbala eretica e sposò l’idea che il messia era in effetti andato a raccogliere, in segreto, scintille sante negli altri popoli. Da questa teoria di adattamento nacque anche una corrente estremista che teorizzò di imitare il messia dissimulandosi nelle altre religioni per fertilizzarle. Dopo la sua morte, nel 1676, le comunità si diffusero in Turchia, Nord Africa, Italia e Polonia. A Salonicco si convertirono all’islam, mascherando l’autentico contenuto messianico per il quale “la fiamma della vera fede arde solo di nascosto”[8]. Le tesi diventarono quattro: 1- l’apostasia del messia è, in realtà, il compimento di una missione che si profila contraria al divino, per distruggerlo dall’interno; 2- l’esteriorità e l’interiorità si separano e la dissimulazione si fa necessaria; 3- l’abolizione della Torà è il vero compimento della legge; 4- si sviluppa un dualismo mistico tra ciò che si può raggiungere con la ragione e la rivelazione.

In questa versione estrema l’abolizione della Torà venne difesa secondo l’esempio del chicco di grano che deve decomporsi e corrompersi per dare frutto e deve farlo nel nascosto della terra. Ne derivò una sorta di tesi paradossale della “santità del peccato” o della rivolta e violazione.

 

Tra le forme più radicali di nichilismo si trova quella di Jacob Frank (1726-1791), che nacque in Podolia, poi si trasferì in Romania, ed espresse una forma paradossale di “messia atletico”. Uomo rozzo, senza scrupoli, egoista e dispotico, Frank esprimeva una sorta di vitalismo energico, concreto. Assorbendo le dottrine libertine dei sabbatiani e dei bogomili[9], avviò una operazione di nascondimento, qualificandosi islamico, zorohaista, antitalmudico, e poi, tornando in Polonia, di nuovo cristiano. Il reale atteggiamento era però che tutte le religioni formali sono solo stadi di passaggio a cui il vero fedele si deve adattare, come se si trattasse di mettere e smettere un vestito, mentre si custodisce di nascosto la vera fede. Frank guidava per la via verso Esaù. La setta, dopo la morte di Frank, continuò a restare organizzata in Polonia, Slesia, Boemia e Moravia per un secolo.

La dottrina che ci appare è espressione di una forma molto pura di nichilismo non dissimulato. Il mondo visibile non è una creazione di Dio, altrimenti sarebbe perfetto, eterno e le creature immortali, è dunque malvagio e corrotto, ma il vero mondo resta nascosto. Il vero Dio (ed il vero mondo) è tenuto nascosto da una potenza, Esaù (fratello maggiore di Giacobbe), intorno al quale si estendono mondi nei quali la libertà e la vita sono indomite. Il nostro mondo sensibile, nel quale regna la morte, è governato invece da ‘leggi indegne’ che bloccano la via verso il “fratello maggiore”. Occorre, quindi, porre fine a tutte le leggi di questo mondo che sono solo statuti di morte i quali violano la dignità dell’uomo. La via verso la vita è quindi il nichilismo, consiste nell’attraversare tutte le leggi, superare ogni convenzione e religione, rigettarle. Consiste nello ‘scendere nell’abisso’, dove ogni legge è annientata. La vita passa dunque per la distruzione, è essenzialmente libertà da ogni vincolo e legge. Una forma radicale di anarchismo cento anni prima di Bakunin.

Lo stesso Frank scrisse: “ovunque è passato Abramo, il primo uomo, si è costruita una città. Ma dove vado io, tutto sarà distrutto. Sono venuto per distruggere e annientare – ma ciò che costruirò durerà in eterno[10]. Se l’obiettivo era di liberarsi di ogni catena della mente, era necessaria però una rigorosissima disciplina. Una disciplina militare, capace di passare se necessario anche “per le fognature più immonde”. In questa dottrina si uniscono “la libertà della vita anarchica intesa come ideale da perseguire e la disciplina del soldato come via da seguire”[11], oltre all’ “onere del silenzio”.

 

Alcuni motti riportati da Scholem: “se qualcuno volesse espugnare una fortezza, non ci riuscirà finché se ne discute, ma dovrà riuscirci con tutte le sue forze, come anche noi dobbiamo farci strada nella nostra via in silenzio”, “quello che il cuore sa non può dirlo alla bocca”, “non ci servono eruditi che si mettano a insegnare una dottrina, semmai si tratta di sopportare l’onere del silenzio”, “quando si va dall’altra parte, bisogna tenere la bocca chiusa. È come nel tiro con l’arco: quanto più a lungo si è capaci di trattenere il respiro, tanto più lontano volerà il dardo”.

 

Gli ultimi cascami di questa setta si fusero con i nascenti semi illuministi di avanguardie ebraiche che continuarono ad esprimersi in linguaggio mistico, ma convertendo la dottrina del mondo falso ed autentico in un ideale di progresso secolarizzato.

 

Messianismi contemporanei

Scrivevo sopra che questo atteggiamento, intrecciato di messianismo apocalittico e distruttivo, radicalmente scettico e nichilista, ha una familiarità con alcuni atteggiamenti contemporanei. Figli della disperazione e della crisi, della caduta delle tradizioni critiche e delle relative comunità. Espressione inconsapevole dell’individualismo contemporaneo e dell’elitismo ad esso connaturato (per il quale ciascuno si sente incoraggiato a identificarsi come unico, illuminato, portatore di una visione irriproducibile), “fratelli del libero spirito”, appunto. Quel che tendono a formarsi nelle condizioni di una contemporaneità di disorientamento e disgregazione delle identità politiche e sociali tradizionali e consolidate sono ‘bande di fratelli’ armate contro tutto il mondo.

Questo atteggiamento esprime il bisogno di trascendenza che è una delle condizioni necessarie del politico, il superamento lodevole di un atteggiamento quietistico troppo condiscendente, ma anche il vuoto nel quale questo si realizza. Sono possibile due linee di critica a questi atteggiamenti: da una parte il citato, e largamente inconsapevole, elitismo che nasce da una postura nichilista che basta a sé stessa; dall’altra, l’assorbimento dei progetti e delle strutture ideologiche presenti nel catalogo dei ‘ribelli’, senza distinguere tra progetti e obiettivi.

L’aggregazione intorno a vaghe parole d’ordine e sentimenti reattivi, imperniati sul rigetto del ‘normale’ e la ‘libertà’, la fissazione sulla fase di critica distruttiva di tutte le nozioni e strutture dell’esperienza comune, l’attribuzione al mondo stesso di una natura demoniaca generalizzata, conduce ad una sorta di orgoglio ereticale. Al sentirsi uno ‘spirito alto’, un ‘libero pensatore’, o, ‘illuminato’ ed a forme di ‘delirio messianico apocalittico’ inconsapevole (per usare le drastiche parole di Scholem). Chiaramente in questo meccanismo, psicologicamente comprensibile in presenza di condizioni esistenziali considerate ad un tempo incomprensibili e insopportabili, produce automaticamente la propria marginalizzazione e neutralizzazione.

Dall’altra parte, espone al rischio di assorbire ogni tradizione che gli si presenti come, a sua volta, ‘eretica’ e ‘liberata’. In particolare, di assorbire lo sforzo egemonico pluridecennale della ‘nuova destra’ del Grece e del suo leader Alain de Benoiste[12], con il suo gramscismo demarxistizzato che viene proposto a partire dalla fine degli anni Sessanta. Differenzialismo, etnopluralismo e antiegualitarismo nel Grece, si unisce alla lotta all’universalismo e si fonda su antropologie come quella di Lorenz e Gehlen, a tendenze separatiste e comunitarie. Nel suo sviluppo produce idee largamente presenti nelle aree di opposizione contemporanee, quasi divenute senso comune, come quella di sostituire nella scelta del politico (ovvero dell’amico e del nemico[13]) alle diadi ‘destra/sinistra’ quella ‘alto/basso’ di provenienza medioevale. Ed a partire dagli anni Ottanta avvia un dialogo con l’antiutilitarismo di Serge Latouche, il comunitarismo di Costanzo Preve, le critiche di Danilo Zolo. Ma anche con autori come i teorici angloamericani (o francocanadesi) come Alisdair MacInthyre, Michael Sandel, Charles Taylor e Christopher Lasch. Tutti pensieri ed autori indispensabili e personalmente frequentati[14]. Un simile assorbimento egemonico, se inconsapevole e non mediato da una serrata critica, rischia di portare con sé l’elitismo organico, l’antiegualitarismo aristocratico, il differenzialismo separatista, il populismo qualunquista, il radicalismo etno-identitario e le comunità di destino nelle quali l’ordine è dato da una tradizione ipostatizzata, l’antimodernismo e antiscientismo propri del decennale sforzo egemonico descritto. Ovvero di assorbire i valori dell’egemonia delle controculture disponibili limitandosi ad un rovesciamento reattivo.



Se è vero che gli autori sopra citati (da Latouche a Lasch) sono indispensabili alla costruzione di una prospettiva critica con il liberalismo realmente esistente e con le forme imperiali dell’universalismo occidentale (che entro certi limiti è comunque parte della nostra propria tradizione), tuttavia occorre trovarne una versione indipendente dalle strade tentate, ormai da sessanta anni, dalla Nuova Destra e dai suoi numerosi travestimenti. Come scrivevo nel mio Classe e partito[15], il passo di montagna che va superato è conciliare materialismo e messianesimo, collocando una ben calibrata utopia dal punto di vista dei vinti (e non di una presunta ‘comunità organica’ nella quale vinti e vincitori siano uniti in un ‘destino’ che non muta i rapporti sociali), manifestandosi come aspirazione al riscatto che resiste contro ogni forza, ma si radica nella storia e nella materia.

Come scrivevo[16] la cosa può anche essere riscritta con il linguaggio dell’ultimo Losurdo. La traiettoria è scolpita dalla tesi centrale del Losurdo attento lettore di Hegel[17]: bisogna tenersi lontani dall’aderire alle forme di universalismo astratto, messianismo e radicalismo ribellista, ai “cattivi infiniti”, al contempo però comprendendo la profonda esigenza di trascendenza umana. L’impresa può essere rivitalizzata solo se ha pieno rispetto del “movimento reale”, nella concretezza dei conflitti e contraddizioni, e impara quindi a muoversi nel “conflitto delle libertà[18]. Dunque, tra le altre cose, se impara a non avere timore della necessità di gestire il potere.

 

Riprendendo alcune parti del libro citato autorappresentarsi e comprendersi essenzialmente come “ribelli”, o come “dissenzienti” induce l’assoluta indisponibilità a ragionare in direzione dei vincoli obiettivi e delle condizioni di possibilità delle azioni di governo, per non perdere la purezza eroica della postura radicale. L’ambiguo diventa quindi subito contraddittorio e l’incompleto immediatamente insufficiente; il parziale diventa radicalmente perverso, ingiustificabile, arbitrario e incomprensibile. Ci si chiama quindi fuori, per non condividere alcun elemento della logica di governo, dichiarando con ciò il proprio strutturale disinteresse a occuparsene, e ci si fa gloria della propria marginalità (anche nel dibattito). Ci si sente “illuminati”, “risvegliati”, ottenendo almeno una, comprensibile, compensazione morale[19]. Peraltro, non ci si avvede di essere scientemente manipolati da una tecnica, di provenienza commerciale (messa a punto dai talk show anglosassoni e importata a suo tempo in Italia da autori a loro modo geniali come Gianfranco Funari), che consiste nel forzare argomenti e toni per creare come reazione una polarizzazione simmetrica. In questo modo si crea subito attenzione, ma nel campo semantico e valoriale della provocazione iniziale. La formazione di due opposte tifoserie sottrae inoltre ossigeno a qualunque altra, più riflessiva, posizione che è costretta a difendersi contro gli argomenti-fantoccio creati nella disputa. Lo schema ha il potere di distrarre, occultare e manipolare l’opinione pubblica ed è perfettamente coerente con l’ambiente dei social, nel quale potenti algoritmi generano isole di dibattito e sciami di pseudo-argomenti in collisione. In questo modo, per via di asfissia, letteralmente, si controlla la controinformazione e si orienta l’opposizione. Si tratta di un potentissimo, quasi invincibile, dispositivo egemonico nel quale l’opposizione assume fatalmente la veste di una reazione prevista e prevedibile da parte di chi avvia l’informazione e la determina[20].

Il punto è che questa “sinistra rivoluzionaria” (ma anche quelle forze che si dichiarano “oltre la destra e la sinistra”) nel momento in cui pensa sistematicamente sé stessa come chi non ha alcuna compromissione con tutte le forme di potere (e quindi da ogni discorso sui vincoli, le conseguenze), dalle quali rifugge inorridita, si rivela incapace di condurre una lotta coerente, sul piano ideologico oltre che su quello immediatamente politico, contro lo smantellamento dello stato sociale che colpisce alla fine le proprie stesse vite. Anzi, al di là delle etichette retoriche in effetti, in ogni singolo caso concreto (in quanto non si può dare stato sociale senza esercizio del potere burocratico, senza distinguere tra diritti, senza conflitto delle libertà), si schiera con l’attacco neoliberale a esso. Ma senza saperlo.

Inoltre, essa si autorappresenta come “difensore delle cause perse”, eroe solitario, intransigente, come voce che chiama nel deserto. La critica e la sorveglianza si muta, per via di radicalizzazione, in impolitica, in rifiuto di confrontarsi con i problemi legati all’organizzazione di un mondo comune; la volontà di rendere alla luce si rovescia nell’oscurare, nel rendere passivo, nell’impedire la leggibilità. La passione politica diventa forza vocata alla distruzione dell’azione collettiva, in favore della vaga idealizzazione di un luogo “altro” e “sano” (necessario, per creare il punto di leva dal quale denunciare come “insana” l’azione politica tutta). Questo “corpo” è chiaramente il “popolo”, che è implicitamente rappresentato come unitario, senza divisioni, omogeneo. Secondo la classica lettura di Rosanvallon, questa modalità della impolitica si afferma perché “l’idea di alternativa si è erosa” e la

percezione stessa della radicalità ha cambiato natura. Essa ormai ha abbandonato la prospettiva di un grande avvenire, immaginandosi invece con le modalità di una voce morale inflessibilmente preposta a stigmatizzare i potenti o a risvegliare i dormienti. La radicalità oggi è semplicemente il dito quotidiano che denuncia, il coltello che gira in permanenza le piaghe del mondo e non più il cannone che cerca di prendere d’assalto la cittadella del potere al termine di una battaglia decisiva.[21]

 

Come ricordava anche Gramsci, insomma, le forme di “blanquismo” [non per caso, insieme a Proudhon e contro Marx una delle fonti della Nuova Destra di de Benoist], tutto fatto di frasi, di declamato ribellismo, sovversivismo, antistatalismo concreto e idealizzazione, sono in realtà delle espressioni di apoliticismo e di evasione dalla realtà (psicologicamente e socialmente comprensibile) e quindi in effetti, contrariamente a quel che sembra, anche dal conflitto sociale. Il conflitto reale non prende mai, infatti, la forma pura di un angelo contro un demone, ma ha sempre quella, ambigua, del “conflitto delle libertà”. È, seguendo la formula hegeliana, “apprendimento di ciò ch’è presente e reale, non la costruzione di un al di là, che sa Dio dove dovrebbe essere”[22]. In questo modo, rifiutando di compromettersi con le ragioni, si perviene alla sostanziale rinuncia a modificare l’esistente e il ribellismo si rovescia nel suo contrario (e dal suo contrario viene spesso usato).

La questione è che populismo, ribellismo e messianismo non sono idee, sono forme di “falsa coscienza necessaria”[23] che scaturiscono dalle condizioni oggettive di vita delle classi subalterne e dei popoli oppressi. Ma sono forme che ne neutralizzano potentemente la stessa azione. tendendo a rovesciarla in sostegno all’oppressore e in capitolazionismo.

 

Necessità

Il punto davvero non banale è quindi come conservare un modo di essere radicale, nel pensiero e nella prassi, ma sfuggendo all’elitismo (che si nasconde spesso dove non si vede e si attende). Uno spunto possibile è lavorare per interrompere la connessione ed implicazione reciproca di progressismo e messianismo, ma conciliare, di converso, trascendenza e materialismo[24]. “Materialismo” è qui inteso in senso generale come connessione con la materia, con la vita, con la storia (e la tradizione, la base dell’esistenza).

 


Uno dei nodi è cosa significa essere ‘oltre la destra e la sinistra’ e cosa non significa[25]. Da un punto di vista semplice indica l’opposizione a quelle forze che si presentano sulla scena elettorale come ‘di destra’ o ‘di sinistra’, ma condividono tutto ciò che è oggi essenziale (ovvero la struttura economica, il posizionamento geopolitico, l’ancoraggio nel liberalismo). Da un punto di vista culturale significa rispondere ad una domanda del tempo presente non eludibile: cosa trattiene nell’ordine concettuale il tempo presente ed impedisce l’aprirsi di un nuovo mondo che, pure, spinge alle porte?

Riferirsi alla “comunità” non è in sé sufficiente. Né lo è opporla semplicemente alla ‘classe’, cercando di riferirsi al concetto di ‘blocco storico’ di gramsciana (e leniniana) memoria. Se, palesemente, la costruzione della ‘classe’ non può essere oggi (ma non lo è stato mai) presunta a priori con riferimento alle strutture della produzione, la definizione delle alleanze (ovvero del ‘blocco storico’) rinvia al tema antecedente della egemonia. Ovvero, gramscianamente, alla costruzione di questa.

E qui si presentano degli snodi che non possono essere tagliati semplicemente con l’ascia del “oltre la destra e la sinistra”. Entrambi sono termini performativi e non presenze in sé, ma la ‘comunità’ di fronte alla ‘classe’ punta ad affermarsi piuttosto come ‘presenza’, come ‘esistenza’. La ‘comunità’ è, in altre parole, ciò che esiste prima del ‘getto’ politico. E' infatti legata strettamente al concetto di memoria ed a quello di tradizione. Qui ci sono alcuni snodi cruciali sensibili allo sforzo egemonico delle Nuove Destre prima descritto sommariamente: la ‘comunità’ esiste ‘organicamente’ (de Benoist), o piuttosto è un progetto che unisce persistenza nel mutamento e contaminazione nell'apertura? E' qualcosa di puro, o, piuttosto, di intrinsecamente spurio, contaminato, complesso e plurale? Un fatto o un obiettivo, ‘natura’ o ‘cultura’?

 

Senza sciogliere questi nodi, guadagnando una reale indipendenza dalle egemonie delle destre (nuove e vecchie) e delle sinistre liberali (anche travestite in panni aristocratici[26]), non si potrà che fallire nel riattivare un politico capace di futuro. Al meglio si otterranno ‘bande di fratelli’ serrate nei loro rifugi e armate le une contro le altre (questo è l’attuale destino di tutte le diaspore delle vecchie culture politiche, socialista, comunista, democristiana, ed anche delle nuove forme di radicalismo più o meno ‘rossobruno’).

 

La prima mossa da fare è un reale ‘andare al popolo’, ovvero liberarsi degli abiti del maestro e del profeta. Distinguere, comprendere, aiutare, individuare il giusto spazio della critica, coltivare insieme l’utopia e il progetto. Recintare e dissodare il podere, con modesta determinazione, cercare le parole ed il pensiero, avere spinta e misura[27].

Coltivare la speranza che non ‘un altro mondo’, ma ‘questo mondo’ è possibile; che le possibilità sono in esso. Ma ciò significa intanto che invece di separarsi spiritualmente bisogna connettersi.

 



[1] - Gershom Scholem, Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, Adelphi, Milano 1992 (ed. or. 1975).

[2] - Scholem, cit., p. 269

[3] - Gerhard Scholem, Il nichilismo come forma religiosa, Giuntina, Firenze 2016 (ed.or. 1977).

[4] - Op.cit., p. 16

[5] - Il quietismo è un atteggiamento passivo, che prescrive una sorta di quiete interiore a fronte degli eventi avversi della vita, una accettazione e rassegnazione. Nel cristianesimo prescrive l’assenza di desideri e la sottomissione alla volontà di Dio, l’atarassia, atteggiamento proprio dello stoicismo greco e l’epicureismo e il taoismo di Laozi sono atteggiamenti consimili.

[6] - Meister Eckardt è un mistico e teologo cristiano tedesco nato nel 1260 e morto intorno al 1327, membro dell’Ordine Domenicano e fautore di una profonda unione diretta e interiore con Dio. Alcuni suoi insegnamenti sono stati oggetto di una bolla di condanna nel 1329, anche se successivamente è stato riabilitato. Uno dei concetti chiave presenti nei suoi scritti è la dottrina dell'abbandono (Gelassenheit). Eckhart insegnava la necessità di abbandonare tutte le cose create e persino le proprie immagini mentali di Dio per raggiungere una comprensione più profonda e unione con la divinità.

[7] - Gerhard Scholem, Sabbetay Sevi il messia mistico 1626-1676, Einaudi, Torino 2001

[8] - Gerhard Scholem, Il nichilismo, Op.cit., p. 51.

[9] - I bogomili furono un movimento religioso dualista di natura gnostica che si affermò nell’attuale Bulgaria nei secoli X e XI. “Bogomil” significa “amico di Dio”, oppure “amato da Dio”. Il movimento ha avuto numerosi impatti, ad esempio, tra i successivi Catari (in Francia e Italia). La dottrina prevedeva una lotta cosmica tra bene e male e dichiarano essere il mondo materiale creato da una forza maligna e intrinsecamente malvagio. Criticavano apertamente la ricchezza ed il potere della Chiesa e ne rifiutavano i sacramenti.

[10] - Op.cit., p. 64

[11] - Op.cit., p. 66

[12] - Si veda, Matteo Luca Andriola, La Nuova destra in Europa. Il populismo e il pensiero di Alain de Benoiste, Paginauno 2019

[13] - Coppia fondatrice del politico per Schmitt.

[14] - Rinvio al mio blog “Nella fertilità cresce il tempo”.

[15] - Alessandro Visalli, Classe e partito, Meltemi, Milano, 2022

[16] - Ivi, p. 371.

[17] - Si veda in particolare l’importante D. Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, La scuola di Pitagora, Napoli 2011.

[18] - Termine cruciale nell’ultimo Losurdo scolpito a partire dal libro del 2013 La lotta di classe.

[19] - Sulla paradossale logica rovesciata (e mimetica) di questo sentirsi “risvegliati” e “illuminati”, perché coraggiosamente e individualmente si è riusciti a “unire i puntini” si veda l’utile ricostruzione che il Collettivo Wu Ming 1 fa nel suo Wu Ming 1, La Q di complotto. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Alegre, Roma 2021.

[20] - Devo questa riflessione, in questa chiara forma, a un post di Paolo Desogus, che ringrazio.

[21] - P. Rosanvallon, La politica nell’età della sfiducia, p. 239.

[22] - G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto [1821], Laterza, RomaBari 1987, p. 13.

[23] - Per questo concetto, esattamente in questa applicazione, si può leggere anche l’ultima opera di Costanzo Preve.

[24] - Visalli, cit., p. 44.

[25] - Per un perspicuo modo di trattare il tema rinvio a Vincenzo Costa, Categorie della politica. Oltre la destra e la sinistra, Rogas Edizioni, Roma, 2023, ed al mio post di commento a questo link https://tempofertile.blogspot.com/2024/01/vincenzo-costa-categorie-della-politica.html  

[26] - Cfr. la convincente critica di Costa, op.cit.

[27] - Visalli, op.cit., p. 238

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