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domenica 23 giugno 2024

Vincenzo Costa, La società dell’ansia


 

 

Il libro di Vincenzo Costa, La società dell’ansia[1], è del 2024 e si inserisce nel filone dei suoi testi politici di cui fanno parte Elites e populismo[2], del 2019, L’assoluto e la storia[3], del 2023, e Categorie della politica[4], del 2023. Nel blog Nella fertilità cresce il tempo (un verso di Pablo Neruda dal Canto General[5]), questi libri sono stati letti in altrettanti post[6]. Rispetto a questi, tuttavia, il testo sembra aprire un altro e nuovo filone di ricerca che si collega probabilmente con alcuni altri del medesimo autore, inseriti nella tradizione fenomenologica di cui Costa è uno dei principali cultori[7]. Si tratta comunque di un testo ambizioso: il tentativo, per ora abbozzato di creare una sorta di economia politica delle emozioni.

Ci sono alcuni bersagli polemici, più che altro rilevabili dai termini e dalle formule a volte tranchant adoperate: il primo è la cosiddetta “svolta linguistica”[8] e la successiva “svolta argomentativa”[9], quindi Habermas che le traduce entrambe in prescrizioni politiche e sociali negli anni Novanta; il secondo è il materialismo marxiano. E c’è un oggetto centrale: l’emergenza del legame sociale, ovvero dell’ordine sociale.

 



Dei due bersagli polemici principali (Habermas e Marx) il primo è più evidente, in particolare è criticata la centralità del suo concetto di “razionalità” come criticabilità di azioni ed affermazioni, e quello di “argomentazione” come relazione tra azioni linguistiche le quali si ancorano alla “costrizione non coatta” dell’argomento migliore universalisticamente ancorato[10].

 

Il problema che Costa sente è la disgregazione del senso nella società contemporanea, ovvero del senso socialmente costituito e condiviso (non già attraverso una discussione razionale). Quindi il problema che sente è quello dell’anomia e delle sue conseguenze sociali e psicologiche.

La “produzione del legame sociale” per l’autore deriva piuttosto dalle emozioni, ovvero dalla loro creazione sociale, emergenza e circolazione. Quindi non dal diritto, dalla ragione, dall’uso del linguaggio, ma da qualcosa che a queste importanti condizioni sta ‘sotto’: la presenza di una emozione comune, di un orientamento. In questo senso la produzione e riproduzione dell’ordine sociale è l’effetto di un’articolazione emozionale, e non principalmente dell’articolazione linguistica o discorsiva. Il problema habermasiano del coordinamento rivolto all’intesa, basato sul riconoscimento intersoggettivo di pretese di validità criticabili, pur di lunga tradizione nel razionalismo occidentale, è quindi scalzato alla sua radice. L’intesa è, in altri termini, sempre prediscorsiva prima di essere riscattata linguisticamente. Quando c’è coesione, lungi dall’essere all’opera un’intesa razionale e discorsiva, è perché esiste già un piano nel quale preesiste consonanza, in cui risuonano insieme le rispettive aperture al mondo (percezioni e cognizioni): quello delle emozioni. In assenza di una qualche sintonia emozionale non è possibile, per Costa, intesa meramente razionale.

Ma quali emozioni? Le emozioni che creano società sono connesse sul piano sociale con il sentirsi al sicuro, riconosciuti e protetti; in questo senso dall’insieme della società vengono creati e poi distribuiti “benefici emozionali”. Formula straordinaria, che rappresenta, per così dire, la ‘moneta di conto’ dello scambio sociale emozionale. Il ‘valore’ (emozionale) è quindi creato in comune ed in comune è distribuito, viene socialmente prodotto per effetto della sua stessa natura. Le emozioni sono, infatti, dei prodotti essenzialmente sociali. E sono dei prodotti che sono a loro volta ‘ripartiti’; e che, nell’esserlo, generano di per sé legami. Restando alla metafora dell’economia politica emozionale (formula che flirta con Marx, come questo faceva con Hegel), le emozioni sono le ‘merci’ che ci scambiamo reciprocamente.

 

Scrive Costa, in una formula sintetica e centrale:

 

“una società è allora innanzitutto un modo di produzione e distribuzione delle emozioni. Funziona quando la ripartizione emozionale genera legami sociali e implode quando una parte della società non trae sufficienti benefici emozionali[11].

 

Se non c’è scambio di benefici emozionali il legame sociale collassa. Ci si sente estranei e ci si chiama fuori. Quel che viene opposto tradizionalmente a questa proposizione, la quale pone al centro le emozioni, è la ricerca della razionale egemonia discorsiva; ovvero la costruzione di soggettività prive di emozioni che siano radicate in tradizioni. Nel senso di emozioni che siano state trovate e non scelte. È qui che si prendono le distanze da tutta una tradizione del razionalismo occidentale che risale almeno a Hobbes[12], passata per i philosophes francesi[13], strutturata nell’idealismo tedesco[14] oltre che dall’esplicitamente citata Teoria dell’agire comunicativo[15]. Tutto lo sforzo della modernità occidentale, richiamata da Habermas come illuminismo incompiuto, è rivolto a superare gli assetti consuetudinari, razionalizzandoli. Centrale in questa descrizione è la sistemazione di Max Weber, se pure in modo ambivalente (lasciando aperta la possibile interpretazione che i significati e la validità universale rivendicati ai ‘fenomeni culturali’ dell’Occidente siano solo da questo percepiti e non fondati erga omnes[16]) confina le forme tradizionali a “costume” (sitte), ovvero ad “abitudini all’agire acquisito”, sorde, e funzionanti come inconsce sequenze di azioni ed orientamenti[17]. Si tratta di un processo, la razionalizzazione ed il disincantamento, usualmente attribuito all’emergere della classe dei ‘borghesi’ in contrapposizione alla vecchia nobiltà della terra, nel quale un’idea di ragione ricondotta alla preminenza della razionalità-diretta-allo-scopo, è rivendicata come più avanzata e progressiva. Sullo sfondo di una potente filosofia della storia, a partire almeno da Vico, ogni cosa è quindi esposta alla fredda logica del calcolo. Anche se l’erede della tradizione francofortese (ma anche di quella ermeneutica) pone in campo un più ampio concetto di razionalità, e dei processi connessi, indubbiamente il concetto-cardine di “mondo della vita”, nella versione adoperata, si espone alla critica di Costa. Si tratta, infatti, di porre l’enfasi in quelli che chiama “legami sociali comunicativi”, ovvero la comprensione non pienamente consapevole di linguaggi, idee, valori. La comprensione, in processi rivolti all’intesa non coatta, muove qui dalla previa condivisione di un corpus di conoscenze ed interpretazioni scontate[18]. Per Habermas, “il mondo vitale è un serbatoio o uno sfondo di certezze ed evidenze non problematizzate ma problematizzabili man mano che diventano rilevanti per una situazione”[19].  Esso è costituito da contenuti cognitivi, più o meno complessi, retti dalla “impalcatura” di “concetti del mondo” e corrispondenti “pretese di validità”, presupposti come provvisoriamente aproblematici dagli attori in interazione. Ancora con le parole di Habermas: “il mondo vitale immagazzina il lavoro interpretativo svolto dalle generazioni precedenti; esso é il contrappeso conservatore contro il rischio di dissenso che sorge in ogni processo effettivo dell'intendersi”[20]. 

L’obiettivo di tutta l’impresa è, dunque, la creazione di orientamenti all’azione che siano innovativi, condivisi, riflessivi e razionali. Tramite, precisamente, l’operato interpretativo di partecipanti che lo svolgono in comune; motivando razionalmente le intese raggiunte senza ancorarsi semplicemente alle pur presenti ovvietà culturali, tradizione, norme. Un simile processo, qui solo schematizzato, genera “razionalizzazione sociale”, la quale si fonda su una “zona critica” in cui una “intesa conseguita in modo comunicativo dipende da autonome prese di posizione del tipo si/no su pretese di validità criticabili”[21]. Pretese che, se accolte dai parlanti, implicano una sorta di ‘decentramento’ progressivo, o tema-per-tema, della comprensione del mondo. Secondo il diagramma teorico di Habermas la razionalità di una comunicazione è, da leggere, in rapporto con la sua capacità di attivare le potenzialità comunicative implicite nella comunità verso la quale è diretta e la cui azione intende contemporaneamente normare, sviluppare in senso espressivo ed orientare in quello cognitivo.  Ciò significa che la razionalità è in rapporto con la criticabilità e la capacità di fondazione. 

Per concludere questo excursus, l’esplicito obiettivo, chiarito in Il pensiero post-metafisico[22], è dunque determinare in modo non coattivo, ma sotto la spinta della razionalizzazione, da una parte la perdita dei sostegni convenzionali e, dall’altra, l’emancipazione dalle forme naturali di dipendenza. Ciò si oppone alla comprensione della modernità come mero ampliamento di ambiti di opzione per decisori razionali e disfacimento, senza resti, dei tradizionali “mondi della vita” per prendere in considerazione solo prestazioni funzionalmente specifiche.  Ma anche, e questo è il punto, ogni tentazione di ricaduta nel calore e nella protezione di luoghi chiusi ed avvolgenti esperienze “comunitarie”.

 

Rispetto a questa influente posizione, e lunga tradizione, Costa prende le distanze dalla centralità del discorso sui ‘valori’, i quali funzionano disgregando le “comunità emozionali”. Con questa formula, che rinvia ad un’adesione reciproca preriflessiva tra vicini e ‘parenti’, viene attaccata tutta la proposta di doveri astratti, che agiscono tramite colpa e vergogna, e che agiscono per ‘assorbire la vita emotiva in quella razionale’.

La vita emotiva implica, al contrario, una situata apertura storica e la concezione dell’esistenza come punto di concrezione di specifici modi di sentire e articolazioni emozionali. Se si dimentica questo, e si cerca di disattivarlo razionalisticamente, in questo ripetendo in modo mutato una mossa che viene dalla tradizione habermasiana, sui ottiene l’effetto che i discorsi sui valori, sganciati dal sentire-in-comune, divengono spontaneamente strumenti per creare un’egemonia fatta di inibizione, e di ‘colonizzazione discorsiva’ dell’esistenza. Si ha a che fare, in tal caso, con dispositivi che, di fatto, finiscono per dire come si dovrebbe sentire, generando una sorta di “alienazione emozionale”. Ovvero, generando il distacco dalle proprie emozioni che si trovano ad essere alla fine esterne al proprio sé; in qualche modo reificate ed imposte socialmente. Emozioni che sono connesse con il senso che la propria vita è in mano ad altri e fuori della propria disponibilità.

 

Di qui, articolando un discorso che fa leva in sostanza sull’esperienza di messa a rischio della vita e di esposizione alla sua durezza, che molti fanno nell’attuale società neoliberale, Costa individua nei discorsi sui valori, e nelle altre strutture discorsive agitate nella sfera pubblica, la fonte della alienazione emozionale denunciata. Si parla qui, concretamente, della sfera del discorso woke e dell’uso disciplinare del “politicamente corretto”[23], o di quella che Sahra Wagenknecht, chiama la ‘lifestyle-linke[24]. Di discorsi fatti per produrre effetti di distinzione tra chi, facendoli propri, mostra pubblicamente di avere i buoni valori e meritare di essere eletto e chi, subendoli, è al contrario respinto tra i rozzi, reazionari, arretrati, falliti. Ovvero tra i colpevoli. Questi discorsi muovono e provocano, al contempo, la citata ‘alienazione emozionale’. E agiscono attivamente sulle distribuzioni e articolazioni delle emozioni preriflessive che, in sostanza, ordinano la società. Nel senso che attivano o inibiscono azioni, plasmano la vita sul piano che più conta, quello emozionale.

 

Ma quale è, quindi, l’origine sociale di questo sentimento di ansia, di questo stato permanente che avvolge la vita di molti? L’origine sociale dell’ansia è da rintracciare nell’intera atmosfera determinata dalle società contemporanee che è intervenuta man mano la precarietà si è fatta strada. Quando ognuno si è trovato crescentemente esposto al rischio di essere valutato; e il successo in assenza di strutture stabili (familiari e altro) si è trovato interamente esposto alla meccanica del giudizio sociale. L’ansia si è imposta, quindi, come anticipazione di una vergogna possibile e la sua produzione è diventata una specifica tecnica di potere. Nel senso specifico che gli uomini e le donne, ansiosi ed esposti, sono sempre costretti ad essere iperattivi; si trovano sempre sull’orlo del fallimento esistenziale e per questo sono sempre pungolati, disperati, mobili e anche, al contempo, artatamente felici. Nel senso che una parte del ruolo sociale che ognuno è chiamato a rivestire impone di dover tassativamente vestirsi di un abito di felicità. Essendo la rabbia, la depressione, l’ansia manifesta spia del fallimento.

 

Questa epidemia di ansia, circola, viene in un certo senso quindi ‘capitalizzata’, si fa “motore stesso del modo di produzione capitalistico”[25]. Questa è quella che l’autore chiama la “insicurezza ontologica”. Un’insicurezza che deriva direttamente dalla sottrazione del futuro, quindi della capacità di progettarsi, di inserirsi in un progetto[26]. Di fuggire alla sensazione di un’esistenza che si libra nel vuoto. Un’esistenza che finisce per essere sola e assediata contemporaneamente. Ovvero soli anche se con gli altri e, al contempo, assediati dagli altri.

 

Allora, oltre ad attivarsi, il soggetto ansioso è portato a produrre e consumare quanto più possibile, per aumentare il proprio rango e distaccarsi in una società sempre più ineguale e sempre più ingiusta. Una società nella quale è il concetto di meritocrazia (un’impossibilità ontologica, dal momento che ogni sé, e ogni dotazione è costruita socialmente e non individualmente) a fare da attivatore del senso di competizione di tutti verso tutti. Una competizione sentita sia come normale sia come legittima. Nel quale contesto anche il sapere stesso è acquisito e percepito come una sorta di arma, rivolta contro gli altri[27].

Questa dinamica, proseguendo la metaforizzazione del gergo marxiano condotta durante tutto il testo, determina una “lotta di classe emozionale”. Ovvero, la lotta condotta agendo le emozioni, e suscitandole, come elemento di distinzione della classe. Per cui avere certe emozioni, sentirsi superiori, colti, riusciti e felici, è elemento della distinzione, del rango. Fare certi discorsi, brandire dei termini, dei concetti, delle frasi, è indicatore certo dell’appartenenza alla classe (superiore). Al converso, farne altri, scivolare su termini diversi e ‘retrogradi’, toccare dei tasti, produrre delle frasi, è il segno dell’appartenenza ad altra classe. Quella da combattere e inferiore.

 

Ma, al contempo, occorre anche combattere il legame ascrittivo, quello che si è trovato nascendo o venendo socializzati, quello che non si è scelto individualmente. Di cui non ci si è liberati, disincantandosi. Combattere, cioè, il legame che protegge. Chi vince la “lotta di classe emozionale” non ha infatti bisogno di sicurezza, non chiede protezione (se non per il gruppo elettivo, al quale ha scelto di aderire, che è invariabilmente sia giusto sia vittimizzato). Produce una sorta di torsione, per così dire, alla necessità di fondare l’io (il problema centrale della modernità almeno occidentale) su autointerpretazioni esplicite, scegliendo cosa è di importanza cruciale e cosa non lo è; definendo la propria mappa morale. La torsione deriva dalla gestione individualista del processo, per cui si scelgono insieme le narrazioni e gli interlocutori (escludendo altri). Ma, per usare qui le parole di Taylor: “una società di persone tese all’autorealizzazione e le cui affiliazioni vengono considerate sempre più come revocabili, non può sostenere quell’identificazione forte con la comunità politica che la libertà pubblica richiede”[28].

Come ricorda una vasta letteratura[29], la sicurezza che l’unico modo per evitare l’epidemia di ansia socialmente prodotta, è un prodotto di una riconosciuta dipendenza reciproca che può essere solo in parte ‘scelta’, ma è anche ‘trovata’[30].

 

Nella società dell’insicurezza ontologica e sociale, viceversa, si cerca di essere indipendenti, si vive come sconfitta ogni relazione profonda e si percepisce il sé come in lotta con gli altri, comparato sistematicamente con essi, e vincente per forza. Quindi, per affermarsi in questa autopercepita lotta, è necessario esibire i simboli del successo. Sia materiali, sia morali ed esistenziali, è indispensabile come detto mostrarsi felici, riusciti, carichi di emozioni positive.

Emozioni che sono prodotte sia socialmente, sia nella interna fabbrica personale. Sono simulate e quindi create; attivate da processi di causazione alla cui radice c’è questo desiderio disperato di gestire l’ansia da prestazione. Di sfuggire alla depressione sempre alla porta. Tra depressione ed ansia, dice Costa, c’è una relazione interna di somiglianza, l’una guarda all’altra e l’una, la depressione, è la soluzione all’altra, l’ansia che altrimenti si affaccerebbe.

 

Quindi, l’esistenza ansiosa, creata dalla società dell’insicurezza sistematica, al contempo la distrugge. C’è qui una retroazione (anche essa di sapore marxiano riscritto) per la quale la produzione sociale dell’ansia distrugge le proprie condizioni materiali di produzione e incammina la società verso la finale dissoluzione.

 

L’alternativa, di fronte al baratro al quale ci affacciamo, è da cercarsi nella logica del dono[31], e nella comprensione della circolazione della ricchezza, da riattivare, come circolazione delle emozioni e creazione di una diversa economia politica delle stesse.



[1] - Vincenzo Costa, La società dell’ansia, Inschibboleth edizioni, Roma 2024

[2] - Vincenzo Costa, Elites e populismo. La democrazia nel mondo della vita, Rubettino editore, Soveria 2019

[3] - Vincenzo Costa, L’assoluto e la storia. L’Europa a venire, a partire da Husserl, Morcelliana Brescia 2023

[4] - Vincenzo Costa, Categorie della politica. Dopo destra e sinistra, Rogas edizioni, Roma 2023.

[5] - Si veda il post “Nella fertilità cresce il tempo”, 30 novembre 2013.

[6] - Rispettivamente, nel novembre 2022 Elite e populismo, nel dicembre 2023 L’assoluto e la storia, nel gennaio 2024 Categorie della politica.

[7] - Tra questi almeno, Costa, V., Fenomenologia dell’intersoggettività. Empatia, socialità, cultura, Carocci, Roma 2010; Costa, V., Distanti da sé. Verso una fenomenologia della volontà, Jaca Book, Milano 2011; Costa, V., Esperienza e realtà. La prospettiva fenomenologica, Morcelliana, Brescia, 2021.

[8] - La “svolta linguistica” è un vasto movimento intellettuale che è solito riferire alla ricezione del lavoro di Wittgenstein, Frege, Russell, che muovono da un’analisi del linguaggio quanto più possibile rigorosa, come unico possibile accesso al sapere. Il termine è stato reso noto da Richard Rorty, che nel 1967 ha curato il libro collettivo “The linguistic turn”. Dell’ampio movimento possono far parte anche filosofi fenomenologici e post-idealisti come Martin Heidegger e Hans-George Gadamer.

[9] - La “Svolta argomentativa” è più praticata, come termine, nella filosofia del diritto, in opposizione alla scuola del diritto positivo, e i suoi rappresentanti sono Perelman con Lucie Olbrechts-Tyteca in Trattato dell’argomentazione, Einaudi, 1968, alla metà degli anni Sessanta, Robert Alexy, soprattutto nel suo libro del 1978 Teoria dell’argomentazione giuridica, Giuffrè Editore, Milano 1998. In modo più esteso può essere riferita anche al lavoro di Jurgen Habermas che fa espresso riferimento a Toulmin ed il suo Gli usi dell’argomentazione, Rosemberg & Sellier, 1975 in diversi passaggi cruciali.

[10] - Scrive Habermas, “l’intuizione fondamentale che noi colleghiamo all’argomentazione sotto l’aspetto del ‘processo’ sta nell’intenzione di convincere un uditorio universale e di conseguire il consenso generale per una certa espressione”, in Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino 2022 (ed. or. 1985), p. 76.

[11] - Costa, La società dell’ansia, cit, p.10

[12] - Si veda, ad esempio, il De cive, in cui le facoltà ‘della natura umana’ sono ricondotte a quattro ‘generi’: forza fisica, esperienza, ragione, passioni. La “naturale inclinazione degli uomini a provocarsi a vicenda”, quindi, deriva dalle passioni e dalla ‘falsa stima di sé’, cosa che, unita al ‘diritto’ porta alla famosa formula per la quale “lo stato naturale degli uomini, prima che si riunissero in società, era la guerra; non solo, ma una guerra di tutti contro tutti” (Thomas Hobbes, De Cive, Editori Riuniti, Roma, 1979, p. 87).

[13] - Charles de Montesquieu (1689-1755), Voltaire (1694-1778), Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), Denis Diderot (1713-1784), Jean-Baptiste d’Alembert (1717-1783), Condorcet (1743-1794).

[14] - Da Kant ad Hegel. Il cui punto di partenza è “l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità”, dove per minorità Kant intendeva l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro (ovvero della tradizione e delle sue emozioni non linguisticamente riscattate). Ovvero, muove dal rifiuto di ogni dogma e di ogni tradizione (di tipo religioso, politico, economico, culturale) e l’esortazione a “camminare da soli”.

[15] - Jurgen Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1986 (ed.or. 1981).

[16] - “I problemi di storia universale saranno inevitabilmente e legittimamente trattati da chi è figlio del moderno mondo culturale europeo con questa impostazione problematica: quale concatenamento di circostanze ha fatto sì che proprio sul terreno dell’Occidente, e soltanto qui, si siano manifestati fenomeni culturali che pure – almeno secondo quanto amiamo immaginarci – stavano in una linea di sviluppo di significato e di validità universale?”, Max Weber, Sociologia della religione, Ed. di Comunità, Milano, 1982 (ed or. 1920), p. 3.

[17] - Max Weber, Economia e società, Ed. di Comunità, Milano, 1974, p.28

[18] - Habermas, op.cit.

[19]- Idem.

[20]- Idem.

[21]- Idem.

[22] - Jurgen Habermas, Il pensiero post metafisico, Laterza

[23] - Cfr, ad esempio, Jonathan Friedman, Politicamente corretto, Meltemi, Milano, 2018. Cfr, il relativo post del giugno 2018.

[24] - Sahra Wagenkhnect, Contro la sinistra neoliberale, Fazi Editore, 2022, Roma.

[25] - Costa, La società dell’ansia, op. cit., p. 54.

[26] - Si può pensare per questo concetto all’opera di Charles Taylor. Ad esempio, Charles Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Bari, 1994; e Charles Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993.

[27] - Costa, La società dell’ansia, cit., p. 98.

[28] - Charles Taylor, Radici dell’Io, op.cit., p. 617.

[29] - Sia psicologica, sociologica, come di filosofia morale.

[30] - Costa, La società dell’ansia, cit., p. 104.

[31]  - Qui si torna ovviamente, e sempre, a Marcel Mauss, Saggio sul dono, Einaudi, Torino, 1965 (ed.or. 1950); e Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1994 (ed.or. 1945).


1 commento:

  1. Grazie Alessandro, grazie soprattutto per aver colto le molte cose implicite, la struttura meno evidente del testo, che per essere breve e chiaro ha dovuto rinunciare a indugiare su molte delle cose su cui hai richiamato l'attenzione. Un carissimo saluto. Enzo

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