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sabato 29 giugno 2013

Paul Krugmann, quando l'economia ha cuore.

Il libricino di Paul Krugman, Fuori da questa crisi adesso!, è fondamentalmente un libro morale. Come sono sempre i libri di economia autentici. Perchè l'economia è la disciplina delle scelte. E queste sono sempre morali. Si tratta di decidere cosa è più importante.
Il centro del libro è nella battuta di Oscar Wilde che Paul adatta nelle primissime pagine <<gli economisti [i cinici] conoscono il prezzo di tutte le cose e il valore di nessuna>>. Ciò che conta veramente, nella crisi attuale, non è la somma dei beni di consumo o del denaro, ma le vite rovinate, le quattro persone in cerca di lavoro per ogni posto disponibile, il futuro che si perde. Al contrario del ritornello che si sente sempre (ci ritorniamo con Bini Smaghi) del concentrarsi sul futuro, è la disoccupazione che toglie il futuro a tante persone, che erode le loro capacità, distrugge le potenzialità future di crescita. La disoccupazione giovanile al 40% in Italia (nel libro è ancora al 28%) sta devastando milioni di biografie, le sta incanalando in un percorso di marginalità, sottocupazione e dequalificazione. Sta determinando il futuro industriale e il ruolo dell'Italia nel mondo dell'inizio millennio. Molto più del debito, molto più di ogni altra cosa.
Questa è la lezione che Krugman ci lascia. L'economia della depressione, richiamando un famoso saggio di Keynes, non è un problema del "motore dell'economia", ma "un problema tecnico, di organizzazione e di coordinamento" (p.32). Viene ricordato un discorso di Schaube del 2010 nel quale la moglie gli ha sussurrato <<quando usciremo di qui, ci daranno delle fruste, così potremo flagellarci>>, la sua lunga dichiarazione di una crisi con radici profonde alla quale occorre adattarsi, entrando in una prospettiva più austera. L'economia, in queste posizioni, viene letta come una dinamica che ha una sua moralità, nella quale gli anni espansivi si pagano, perchè si è esagerato, perchè sono stati senza freni. Una moralità da predicatore, che si ritrova in tanti discorsi, da destra e sinistra, ma che è fuori luogo.
L'economia non ha un'anima morale, è solo il nome che diamo all'insieme delle interazioni tra le persone e le organizzazioni. Quando il 40% delle persone giovani e libere vorrebbe lavorare e non lo può, mentre migliaia di fabbriche sono chiuse, milioni di uffici vuoti, decine di milioni di persone non hanno abbastanza per comprare ciò che desiderano, non c'è una lezione morale da trarre, c'è solo un immenso spreco.
Dunque per Krugman, alla fine, "è tutta una questione di domanda" (p.35) il motivo è che "noi non spendiamo abbastanza". Chi la considera una stupidaggine, in base alla "legge di Say" ed all'idea che la spesa pubblica sottragga solo risorse agli operatori privati; cioè all'idea che ogni soldo speso è sottratto ad altro uso che si sarebbe comunque manifestato. Per confutare tale posizione Krugman rievoca il suo vecchio cavallo di battaglia della "cooperativa di babysitter" (una economia chiusa basata sullo scambio di buoni di lavoro volontari entrata in una crisi per carenza di buoni e tesaurizzazione dei rimanenti, risolta con "un'espansione monetaria"). Il problema è di rompere la "trappola della liquidità" (p.43), cioè la tentazione di tenere chiusi nel cassetto i "buoni" per la paura di non averne quando servono (nella cooperativa, quando avrò bisogno di una babysitter).
L'obiezione, ce lo sentiamo dire sempre, è che non è questo. E' una crisi "strutturale". Mancano le competenze nei lavoratori o sono nel settore sbagliato, la nostra economia non è più adatta ai tempi, alla competizione internazionale, alle nuove tecnologie, ... A queste tesi Krugman oppone analisi dei dati che mostrano come la crisi sia presente ovunque, che ci troviamo di fronte ad un "impoverimento generalizzato" (p.49) causato dal generale calo di tutte le attività economiche.
Siamo in un "momento Minsky" (p.55) -o momento Willy il coyote- nel quale una lunga stabilità economica ha generato -con il suo eccesso di ottimismo prolungato- un eccesso di debito rispetto ai valori degli asset. Questo lo dicono anche i fautori dell'austerità, bisogna notare, però, che in sé il debito non rende più povera la società, perchè -ci ricorda Krugman- "il debito di qualcuno è il credito di qualcun altro. Dunque la ricchezza totale non viene minimamente intaccata dall'entità del debito". Il debito in sé non è necessariamente un problema e non è un problema morale. Chi si è indebitato non è colpevole (non più di chi gli ha prestato i soldi).
Proseguendo nell'analisi del momento l'autore discute la crescita "straordinaria" degli anni ottanta e novanta, nella quale alcuni sono diventati sempre più ricchi, allargando la diseguaglianza e ponendo le basi per la crisi. Una relazione chiaramente complessa (p.100); l'analisi dei dati mostrano che in effetti al crescere della diseguaglianza i consumi non sono scesi, la cosa si spiega per un effetto di imitazione a cascata che ha generato attese di consumo non sostenibili per le fasce via via non raggiunte dall'espansione di reddito. Queste quindi si sono indebitate. Poi ci sono le scelte politiche sbagliate, la deregolazione, le "porte girevoli" e via dicendo (che, per Krugman, hanno pesato di più).
Senza andare ad analizzare tutta la ricostruzione della dinamica (anche accademica) che l'autore fa delle teorie economiche che hanno contribuito a sottostimare la crisi in arrivo, giova forse soffermarsi su due questioni che sono trattate nell'ultima parte, perchè sono centrali nel dibattito: il deficit e l'inflazione.
Per Krugman mentre il danno della disoccupazione è reale e gravissimo, quello del deficit è un problema gestibile. Intanto non va mai rimborsato (p.161), poi in questo momento c'è una enorme liquidità causata dall'eccesso di risparmio (cioè dalla trappola della liquidità) che può essere impiegato per finanziare il debito. Nuovo debito con il quale si può "curare" il precedente. L'idea è simile a quello che farebbe un'impresa in possesso di un buon investimento remunerativo per avviare il quale ha bisogno di capitali, li prenderebbe e li restituirebbe dagli utili dell'investimento ottenendo una posizione finale migliore. Lo Stato può fare di più, perchè in fase di depressione ci sono ingenti risorse inutilizzate e dunque un piano di spesa pubblica a debito non compete con il settore privato inattivo, ma trasferisce debito dal settore privato al pubblico che lo può gestire meglio. La dimostrazione a pag. 168.
La seconda paura "fantasma" è l'inflazione. In condizione di trappola della liquidità la moneta non genera inflazione (come, del resto si vede benissimo), al contrario avremmo bisogno di un'inflazione del 4% per uscire meglio dalla crisi. Krugman adduce tre ragioni: più spazi per la politica monetaria (sale il tasso a breve termine), riduzione del debito in termini reali, aumento della competitività per riduzione dei salari nei paesi periferici europei (p. 187).
Quindi viene il capitolo sulla caduta dell'euro. Causata dagli shock asimmetrici che intervengono dopo una lunga "eurobolla". Il meccanismo base è che nella moneta unica, e sotto il coordinamento bancario incompleto generato, la Germania ha a lungo prestato capitali -in cerca di migliore remunerazione- alla Spagna ed agli altri paesi periferici che li hanno prestati nel settore immobiliare. Il riscaldamento economico ha portato incremento dei salari che hanno superato di molto quelli tedeschi. Ciò ha portato crescenti disavanzi commerciali che hanno rinforzato la dinamica. Soluzione: politiche monetarie espansive e fiscali espansive in Germania e di contenimento nei paesi periferici (il nostro).
Insomma, una tipica ricetta neokenesyana, utilizzare lo stato per superare la trappola della liquidità e ampliare la domanda (creando le condizioni per investimenti privati) in un contesto di politiche monetarie fortemente espansive, senza preoccuparsi per un poco del debito e dell'inflazione. Più o meno quello che sta facendo Obama.

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