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lunedì 8 luglio 2013

Wolfgang Streeck, Tempo Guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli 2013.


Woflgang Streeck è il Direttore del Max-Planck Institute di Colonia e docente di sociologia nella medesima Università, nato nel 1946 e dunque non più ascrivibile alla categoria dei giovanotti ambiziosi, ha insegnato a Francoforte, a New York, a Monaco e Berlino, ha scritto libri con Crounch e Schafer. In questo libro sono riprese le lezioni del 2012 a Francoforte in onore del pensieri di Adorno. Emerge un testo complesso ed ambizioso che muove da una rilettura della crisi finanziaria e fiscale del “capitalismo democratico” (cioè di quell’assetto particolare del capitalismo letto dall’angolazione delle sue relazioni con il principio democratico di organizzazione sociale e politica) anche alla luce del lascito delle teorie della crisi francofortesi (Habermas ed Offe). Il testo comunque va molto oltre una rilettura di una datata teoria sociale, arrivando a conclusioni che, pur nella stilizzazione necessaria ed in qualche unilateralità magari evitabile, rivestono interesse per la lettura del presente.

Streeck propone di vedere nelle evoluzioni “lunghe”, leggibili con senno del poi, del sistema economico gli effetti dispiegati sino all’oggi di un fenomeno che inizia alla fine degli anni sessanta e fu colto al suo inizio dalla teoria francofortese (nella quale, peraltro, l’autore si è  formato). La dissoluzione del capitalismo democratico nell’assetto del dopoguerra. Quel capitalismo che era espressione di un compromesso tra le elité e le classi lavoratrici, uscite fortemente rafforzate dalla esperienza della guerra. Schematicamente, la fine dell’assetto di Bretton Woods conduce ad una successione di espedienti per tenere in vita gli effetti del compromesso, senza pagarne il prezzo in termini di minore redditività al capitale, tramite via via: l’inflazione, il deficit di bilancio pubblico, la deregolamentazione e il debito privato. Fino alla crisi del 2008 entro la quale siamo ancora immersi.

La dinamica centrale è, per l’autore tedesco, effetto della volontà delle elité di esorcizzare la crisi, prendendo tempo e anzi “comprandolo” per mezzo del denaro. Ciò allo scopo di disinnescare i conflitti sociali che altrimenti sarebbero divampati con effetti potenzialmente destabilizzanti. Si tratta di un processo strettamente connesso alla finanziarizzazione progressiva dell’economia ed anche della produzione. Tralasciando la, pur interessante, critica della teoria della crisi francofortese (accusata sostanzialmente di non vedere la capacità di azione strategica del capitale, immaginandolo come sfondo e non come attore) e la valorizzazione della lettura di O’Connor sulla crisi fiscale dello stato, del testo mi pare sia da rimarcare la proposta di considerare centrale la dialettica tra l’azione “intenzionale” dell’attore sociale plurimo rappresentato dal capitalismo globale che possiede e/o dispone di capitale (“coloro che dipendono dal profitto” –cioè dalle risorse che residuano alla remunerazione del lavoro e degli altri fattori di produzione e restano disponibili al detentore del capitale applicato-) e quella di chi dispone del lavoro (“coloro che dipendono dal lavoro”), p.40. Il primo ha lavorato, negli ultimi quaranta anni, per liberarsi dei vincoli indotti dal compromesso sociale del 1945. In questo passaggio epocale abbiamo visto dunque la perdita di centralità di quelle che Streeck chiama le “istituzioni keynesiane” (sindacati e associazioni datoriali entro l’arena della politica nazionale) in favore di “istituzioni hayekiane” (organizzazioni e istituzioni tecniche sovranazionali, democraticamente non responsabili). Dal punto di vista del capitale, infatti, un assetto è legittimo quando riconosce le imprese come massimizzatori dell’utilità e quindi del profitto e quando ovviamente questo è adeguato. Nell’assetto keynesiano le stesse, invece, erano viste più come “macchine del benessere” (p.43). In questa chiave le crisi economiche (il cui motore economico è, per Streeck, lo sciopero dei capitali che rifiutano di impegnarsi ove non vedano adeguati ritorni) sono, in effetti, il risultato di una crisi di legittimazione dal lato del capitale. Le crisi si risolvono, quindi, quando si dà un equilibrio che il capitale può leggere come equo.

Si tratta di un conflitto tra principi di giustizia, dunque. Precisamente tra la “giustizia dei mercati”, che vede adeguato un assetto quando la distribuzione è in corretto rapporto con la produttività e con il profitto da questa derivante, e la “giustizia sociale”, che vede in campo dei “diritti” indisponibili o “minimi”, la cui soddisfazione precede, e  prescinde, dalla remunerazione dei fattori di produzione e del capitale (p.78). Come è noto la teoria economica liberale (ed il suo campione Hayek, preso nel testo a costante obiettivo polemico) delegittima la “giustizia sociale” ed i “diritti” come irrazionali, in quanto generatori di falsi incentivi e “rischi morali” e come competitivi al principio di efficienza. Anzi, tende a vedere la prima come semplice legge di natura.

Ma se questa è la dinamica il conflitto fondamentale si sposta sul terreno della democrazia, sul quale il principio di organizzazione del mercato, in caso di incapacità di comprare la lealtà della maggioranza di “coloro che dipendono dal lavoro”, resta costantemente a rischio di provocare reazioni difensive e instabilità capaci di ostacolare l’accumulazione. Le istituzioni Keynesiane svolgevano il compito di governare tale rischio al prezzo di una riduzione di redditività del capitale. La tensione fondamentale delle istituzioni Hayeckiane è, invece, con la democrazia (p.25).

Buona parte del testo si estende nell’analisi (sia pure stilizzata) della crisi ricorrente nelle sue dimensioni bancaria (“troppo credito a troppi”), finanziaria (il deficit accumulato per decenni e gestito via via con inflazione, poi lasciandolo accumulare nello Stato, poi nel debito privato, infine nuovamente nello stato), economica (in termini di alto tasso di disoccupazione e credit crunch). Si è trattato di una lunga crisi, aperta dalla rottura del compromesso (anche a causa della crisi energetica del ’72, con la raggiunta consapevolezza che la riduzione delle risorse disponibili necessitava di una modifica radicale dell’accordo implicito con il lavoro) e dal conseguente richiamo dei margini di profittabilità, con progressiva erosione delle quote del reddito distribuito al lavoro, tendenziale debolezza della domanda e dei consumi. Una crisi gestita a breve termine con espedienti volti a “guadagnare tempo”; e con una varietà di strumenti progressivamente abbandonati perché diventati disfunzionali al capitale (cioè ostacolo al “giusto ritorno” del capitale investito). Più precisamente, inizialmente lasciando correre l’inflazione, che però si esaurì nella stagflazione della seconda parte degli anni settanta; quindi nella soluzione di lasciar correre il debito, non potendo compensare le uscite necessarie per garantire la pace sociale con maggiori tasse (in particolare ai ceti superiori); poi, raggiunto il limite di questa politica il cui costo per la gestione del debito arrivava a livelli rischiosi, passando al “credito facile” direttamente ai privati privi di livelli adeguati di redditi da lavoro ma desiderosi (come il sistema) di consumare (p.58). Allora “la triplice crisi attuale è la conseguenza del crollo della piramide debitoria, costruita dalle promesse di un capitalismo della crescita che da tempo non era più tale per la gran parte della popolazione dalla cui cooperazione e dalla cui disponibilità esso dipende più di quanto vorrebbe” (p.61).

Ma questa soluzione richiede, in effetti, la ridefinizione del rapporto tra politica ed economia. Proprio perché dipende “più di quanto vorrebbe” dal consenso il capitalismo contemporaneo “hayekiano”, non potendo più disporre della “formula della pace” né nella versione Keynesiana (che rifiuta), né in quella del consumismo finanziato a debito (che non può più permettersi perché ha raggiunto i suoi limiti), deve passare per la depoliticizzazione dell’economia. Lo strumento è una diplomazia finanziaria e governativa internazionale separata e contrapposta alla partecipazione democratica (p.67). Cioè nel passaggio alla ridistribuzione affidata ai soli strumenti di mercato, alla sola “giustizia dei mercati”. In questo contesto si capisce molto meglio il richiamo al trade-off tra efficienza ed equità richiamato da Bini Smaghi in "Morire di austerità". Strumenti operativi di questa rivoluzione sono le banche centrali indipendenti (dalla democrazia rappresentativa), la politica fiscale costituzionalizzata (e dunque, di nuovo, al sicuro dalle maggioranze politiche), il sistema delle autorità indipendenti (dalla politica).

Rispetto a questa semplificata lettura c’è un altro elemento rilevante nella situazione europea che va considerato: il sovraindebitamento degli Stati li rende ostaggi dei cosiddetti “mercati”, che ne diventano azionisti di fatto. Gli Stati sono, in altre parole, costretti a bilanciare gli interessi di due insiemi di stackehoders diversi e per molti versi opposti, i prestatori di capitali e i cittadini. E deve mantenere la fiducia di entrambi. Questa condizione “inaugura una nuova fase nel rapporto tra democrazia e capitalismo” (p.106). Ne nasce un autentico dilemma tra l’obbligo di rassicurare i mercati, onorando i debiti e soprattutto mostrando che si farà anche in avvenire (cioè che questi sono “sostenibili”) e la crescita dell’economia messa in forte stress dalle misure di risparmio ed austerità. “Il conflitto distributivo tra popolo dello Stato e popolo del mercato viene proiettato su un nuovo piano … la posta della politica del debito in gioco è drammatica. L’assegnazione di compiti di controllo e di regolazione fiscale a un organismo di governance internazionale che presieda ai singoli governi nazionali rischia di risolvere il conflitto tra capitalismo e democrazia a favore del capitalismo, realizzando una vera e propria espropriazione dei mezzi di produzione dalle mani della politica dei popoli nazionali” (p.112). Ci ricorda lo studioso tedesco che in questa retorica capita di vedere rappresentate le nazioni (oltre la loro articolazione e struttura sociale, culturale, identitaria) come soggetti “morali”; nascono le nazioni che “sanno tenere i conti in ordine” e persino quelle che – come scolaretti dispettosi – “non hanno saputo fare i compiti a casa”. I paesi “pigri” che devono riformarsi sul modello dei paesi “virtuosi”.

Nella terza parte del libro viene ricostruito il ruolo della costruzione europea, soprattutto dopo le riforme di Delors, nel garantire una profonda trasformazione in direzione liberista. Principali attori di tale dinamica protratta nel tempo sono il diritto alla concorrenza e il ruolo assunto dalla Corte di Giustizia Europea. Quindi l’unione monetaria con le restrizioni nelle capacità di azione degli Stati che comporta. In questa vasta arena europea abbiamo visto nel tempo perdere di rilevanza la politica nazionale e lo scambio politico (nel triangolo sindacato, organizzazioni datoriali e Stato) in favore della centralità assunta dai mercati finanziari e dalle autorità di vigilanza transnazionali, oltre che dalle autorità monetarie politicamente irresponsabili (p.132). L’ultima fase sarà il passaggio delle consegne dallo “stato debitore nazionale” allo “stato consolidato internazionale”, immune alla pressione della politica. Dunque alla centralità della distribuzione delle risorse via mercato, anziché via politica. Il consolidamento fiscale porterà, in altre parole, alla necessità di sopportare una forte ineguaglianza che relegherà (come se non fosse già sostanzialmente così) la politica alla semplice funzione di intrattenimento (magari con governi tecnici). In questo contesto trova razionalità anche quella riduzione della partecipazione facilmente registrabile in tutta Europa.

Non è facile individuare alternative, l’autore ricorda come nel contesto di una moneta unica la necessaria convergenza tra i livelli fondamentali delle economie (non avendo la possibilità di bilanciare con svalutazioni il deficit di competitività) dovrebbe portare a trasferimenti tra nord e sud molto superiori a quelli tra Nord Italia e Sud Italia (che stima nel 5% del PIL, poi scesi a 3) o tra Germania dell’Est e dell’Ovest (ca. il 3%). Ma il Nord Europa con la Francia hanno 163 milioni di abitanti con un reddito procapite di 31.000 euro, mentre il sud 128 milioni con un reddito di 23.000 euro  (26.000 l’Italia). Il volume dei trasferimenti è evidentemente insopportabile.

Malgrado ciò, o forse a causa di ciò, l’autore non trova facile spiegare “perché insistono per restare fedeli all’euro i governi di quei paesi che finora non hanno avuto nulla in cambio, se non un mucchio di debiti” (p.175). Mentre in Germania la coalizione che lo sostiene è fondata sulle industrie dell’export ed i sindacati, nel sud è probabilmente una spuria alleanza tra la classe media urbana che apprezza la mobilità e la disponibilità di merci di importazione a basso prezzo ed i “modernizzatori”, che apprezzano la disciplina indotta ai sindacati ed il vincolo esterno in generale.


Soluzioni disponibili l’autore non ne vede. L’unico spazio di manovra dagli stretti margini disponibili nella situazione dello Stato, costretto a dare conto ai due stackeholders ed alle istituzioni democraticamente irresponsabili sovranazionali, è nel denaro creato dalle banche centrali. Cioè nel gioco ripetuto di creare debito per sopravanzare quello esistente. Questa è la via di bolle-crolli, in sequenza presumibilmente accelerata. L’altra via è nella creazione di sufficiente inflazione per tempo adeguato. Un gioco rischioso (p. 195).

Ciò che, a suo parere, sarebbe necessario è invece di riconoscere le differenze e lasciar scomparire l’euro nella sua forma attuale, sostituendolo con un sistema monetario flessibile (sul modello di Bretton Woods), “togliendo le basi dell’invidia e dell’odio” (p. 213); naturalmente accompagnando tale azione da controlli sui movimenti di capitale e da un profondo ripensamento dei confini della globalizzazione.

Una simile mossa richiederebbe di revocare in dubbio il “dovere” di ripagare sempre e comunque i debiti, a qualunque titolo contratti, ed a costo di qualunque conseguenza. Viene citato l’interessante libro di David Graeber (“Debito. I primi 5.000 anni”) che ricorda come in taluni casi sdebitare il sistema sia la soluzione più razionale (p.187).


In conclusione, il libro rappresenta una potente sintesi di uno scienziato sociale che contempla il vicolo apparentemente senza uscita nel quale l’occidente sembra essersi infilato per effetto di dinamiche di lunga durata e della incapacità di trovare uno stabile assetto capace di andare veramente a vantaggio di tutti, come promesso dalla cultura illuminista dalla quale nasce la contemporaneità. La descrizione del sistema economico e sociale determinato dal modello di riproduzione economico e produttivo contemporaneo resta, anche a causa probabilmente del filtro disciplinare dell’autore, sottodeterminato rispetto alle componenti tecnologiche potentemente all’opera nella trasformazione degli anni settanta-ottanta. Le tecnologie trasformative messe in campo sul finire degli anni settanta e le modalità organizzative ed anche culturali loro proprie, sono infatti un altro vero e proprio “attore” sulla scena. Questa considerazione non può che aggiungere motivi di pessimismo.

Altra dimensione, non sufficientemente considerata, è l’irruzione sulla scena dei popoli della terra, che proprio le tecnologie trasformative prima citate hanno reso non più escludibili dalla partecipazione alla costruzione e distribuzione di ricchezza. Nessuna possibile soluzione può prescindere da queste due dimensioni del problema.

Forse, comunque, poiché nessuno può cucinare nelle bettole del futuro, questi brevi appunti che Streeck ci lascia, possono essere utili per ricalibrare la direzione, più che l’arrivo. QuinQuin

2 commenti:

  1. Per approfondire: http://www.zeit.de/2013/21/anti-euro-juergen-habermas-wolfgang-streeck/seite-1
    Habermas discute con Streeck e gli oppone una idea meno pessimista della partita in gioco, al contempo reiterando le ragioni dell'allargamento dallo Stato Nazione all Unione (la cui determinazione democratica non è chiusa, ma ancora in gioco) nel contesto della resistenza alla economia globalizzata e finanziaria contemporanea.

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  2. Nel dibattito, che si sta sviluppando i questo preciso momento, tra Streeck ed Habermas, un nodo è nell'ipotesi di Streeck secondo cui il "capitale" si muova con logica di gruppo (cioè sia capace di azione collettiva) la cui logica sia intellegibile, sia pure a grandi linee. Si tratta di un'ipotesi sicuramente "forte"; il capitale è, in altre parole, un "attore sociale". Habermas non sembra condividere tale ipotesi interpretativa (che chiamerebbe del "Macrosoggetto"). In conseguenza si affida alla propria concettualizzazione delle dinamiche sociali "linguistica" e acentrica. Non è che non si diano decisioni ed azioni, ma queste sono contingenti (pur rispecchiando, di volta in volta, costellazioni individuali di forze e discorsi). Mancherebbe, in altre parole continuità e direzione (se non a posteriori). Si potrebbe dire che quella di Streeck è una posizione più marxiana e "complottista". Anche la soluzione proposta (tornare agli Stati nazione) da Streeck è, per Habermas, indisponibile. Al contrario bisogna andare avanti e procedere al completamento del progetto dell’Unione Europea attraverso l’integrazione politica, fiscale e culturale. Un progetto che passa per un nuovo soggetto di scala europea capace di solidarietà. Con il non irrilevante corollario (escluso fattualmente da Streeck) che saranno necessari trasferimenti compensativi tra provvisorie aree forti e deboli del continente in vista dellla riduzione delle ineguaglianze.
    Nell'interesse di lungo periodo di ognuno.

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