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venerdì 28 febbraio 2014

Jan Werner Muller “L’Europa non ha strumenti per affrontare le minacce alla democrazia”


Jan Werner Muller è uno storico del pensiero politico che insegna a Princeton, ed è l’autore di L’enigma democrazia, un interessante libro che abbiamo già letto. Ora scrive questo articolo/intervista per Limes nel quale lo studioso attira la nostra attenzione sulla crisi della democrazia rappresentativa in particolare in Europa, e avvisa che il malinteso senso di sicurezza che deriva dall’assenza di un avversario sistemico, con una cultura ed ideologia formata, un programma economico della democrazia liberale potrebbe essere una illusione percettiva. Potrebbe essere guardare l’oggi con gli occhiali del XX secolo. Cioè aspettarsi uno “scontro ideologico” in un’epoca di disincanto.
Un esempio è il governo Ungherese; nel contesto di politiche fortemente illiberali si registra l’incapacità della Commissione Europea, del Parlamento stesso, di ricondurre il paese ai “Criteri di Copenaghen”. La minaccia è insomma almeno bifronte: il deficit democratico di alcuni stati membri e quello degli stessi organi comunitari.

Quindi un’ulteriore minaccia viene dal metodo “orientato ai processi, frammentario, senza alcuna grande soluzione” della Merkel. Purtroppo per Muller non ci sono in vista alternative, “non è pensabile che Martin Schulz diventi un vero rivale”, perché non ha una vera base nazionale. La Grande Coalizione, dunque, funzionerà soprattutto in politica interna, non sarà una cesura sul piano europeo. Lo studioso, del resto, non vede svolte radicali e semplificatorie all’orizzonte: anche l’eventuale smantellamento dell’eurozona sarebbe un enorme shock, ma certamente –per Werner-Muller- qualsiasi strada alternativa (cioè la prospettiva “Stati Uniti d’Europa”) va giustificata e discussa molto più esplicitamente. I processi democratici dovrebbero essere infatti capaci di apprendere dai loro errori e di auto aggiustarsi. Questo è peraltro tradizionalmente il modo in cui vengono giustificati. Il dibattito sull’euro deve allora partire dalla messa in questione del concetto di democrazia. Cioè dalla tematizzazione della democrazia nelle condizioni post-statuali.
Al contrario, “una delle sfortunate eredità della crisi dell’euro è che ora pensiamo e parliamo quasi esclusivamente di Stati-nazione omogenei come oggetto di analisi politica e presupponiamo che la politica europea sia una questione d’interessi nazionali che possono essere impostati uno contro l’altro (Germania contro Grecia, ecc.)”. Prendono forza, quindi, gli stereotopi nazionali e le spiegazioni in termini di “cultura omogenea” alla base delle unità statuali. Su questo punto insiste sempre anche Habermas: bisogna focalizzare una rappresentazione per interessi politici (ed io direi anche economici) al di là dei confini. Quindi comprendere “i presupposti di fondo che caratterizzano i diversi attori politici europei”, attraversando le loro identità nazionali, insieme alle lezioni della loro storia (e di quella comune).

Del resto la dinamica politica democratica, pur con la sua tendenza al rinvio ed all’indecisione, ha un vantaggio decisivo sia di efficacia (capacità di produrre un’azione che faccia la differenza) sia di trasparenza. Per dirlo con le parole di Muller: “quale sistema politico è più ‘efficiente’ della democrazia? L’autoritarismo? Qual è meno corrotto? L’autoritarismo? Penso che queste siano pericolose illusioni”. Persino la burocrazia (peraltro certo non assente, anzi tutt’altro, in ogni altra possibile forma di governo conosciuta) è una necessità non aggirabile. Certo migliorabile. Muller in questo contesto mette in questione, con interessanti parole, l’opinione che Bruxelles sia il luogo di una elefantiaca burocrazia. Dato il livello di competenze e la missione che gli viene attribuita forse è il contrario: l’idea che si possa controllare l’armonizzazione di 28 bilanci e politiche economiche con le scarse risorse di bilancio e tecniche è un azzardo.
Anzi è un azzardo indicativo, i sostenitori dell’Unione Politica alla tedesca, in effetti, vogliono imporre una “camicia di forza” standard ed automaticamente derivante da poche regole (l’enfasi delle regole automatiche ed indipendenti, sui processi politici è, come noto, un “must” del pensiero liberista, assolutamente in chiave antidemocratica). La “camicia di forza finanziaria” è, insomma, una delle tendenze antidemocratiche (nel suo filone tecnocratico) dalle quali bisognerebbe guardarsi.

Anche questa tendenza (condivisa dal 50% degli italiani, secondo recenti sondaggi) secondo cui la democrazia potrebbe funzionare benissimo senza partiti è contrastata da Jan Werner-Muller. Qui c’è anzi un “crocevia decisivo”: la democrazia è sotto l’attacco dei “populisti” (“che pensano vi sia solo un’autentica e omogenea volontà popolare”) e contemporaneamente dei tecnocrati (“che sostengono vi sia una sola risposta politica giusta per ogni problema”). A volte (come in alcuni toni del Movimento cinque Stelle, in particolare nella versione di Casaleggio) l’insieme delle due.
Si tratta, cioè, di farsi un’immagine di compattezza e uniformità che nega conflitto e partigianeria. A lungo la retorica del “capo al comando”, e del “partito dell’amore” berlusconiano ci ha educato a questa finzione. A questa delegittimazione del conflitto, visto come disordine e distruzione quando è, invece, il normale funzionamento dei sistemi sociali e politici. Il modo nel quale le diverse soggettività ed interessi legittimamente si confrontano e pervengono ad un ordinamento non preesistente, non imposto dall’alto. In altre parole l’emergere di ordinamenti non preesistenti è un fattore di dinamizzazione e innovazione non eludibile; di scoperta. In un certo senso ha anche una dimensione cognitiva. Mostrando cosa è in gioco, essi possono portare ad un processo di scoperta e definizione. Immaginare quindi di poter fare a meno del pluralismo dei partiti, e ridurre ad unità tutti i processi di differenziazione, oltre che i diversi interessi (normalmente contrapposti) che attraversano la società è velleitario e pericoloso. Una fantasia.

La strada migliore sarebbe quella opposta: riuscire a europeizzare la politica, facendo di aggregazioni come il PSE e il PP europeo qualcosa di più e diverso da un’assemblaggio di partiti nazionali. Peraltro la crisi dell’euro, sotto questo profilo è un’occasione, perché ha mostrato l’interdipendenza e la rilevanza per la vita di ognuno delle decisioni che si prendono a Bruxelles o Francoforte.


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