Jan Werner Muller è uno storico del pensiero
politico che insegna a Princeton, ed è l’autore di L’enigma democrazia, un interessante libro che abbiamo già
letto. Ora scrive questo articolo/intervista
per Limes nel quale lo studioso attira la nostra
attenzione sulla crisi della democrazia rappresentativa in particolare in
Europa, e avvisa che il malinteso senso di sicurezza che deriva dall’assenza di
un avversario sistemico, con una cultura ed ideologia formata, un programma
economico della democrazia liberale potrebbe essere una illusione percettiva. Potrebbe
essere guardare l’oggi con gli occhiali del XX secolo. Cioè aspettarsi uno “scontro
ideologico” in un’epoca di disincanto.
Un
esempio è il governo Ungherese; nel contesto di politiche fortemente
illiberali si registra l’incapacità della Commissione Europea, del Parlamento
stesso, di ricondurre il paese ai “Criteri di Copenaghen”. La minaccia è
insomma almeno bifronte: il deficit democratico di alcuni stati membri e quello
degli stessi organi comunitari.
Quindi un’ulteriore minaccia viene dal metodo “orientato
ai processi, frammentario, senza alcuna grande soluzione” della Merkel. Purtroppo
per Muller non ci sono in vista alternative, “non è pensabile che Martin Schulz
diventi un vero rivale”, perché non ha una vera base nazionale. La Grande
Coalizione, dunque, funzionerà soprattutto in politica interna, non sarà
una cesura sul piano europeo. Lo studioso, del resto, non vede svolte radicali
e semplificatorie all’orizzonte: anche l’eventuale smantellamento dell’eurozona
sarebbe un enorme shock, ma certamente –per Werner-Muller- qualsiasi strada
alternativa (cioè la prospettiva “Stati Uniti d’Europa”) va giustificata e
discussa molto più esplicitamente. I processi democratici dovrebbero essere infatti
capaci di apprendere dai loro errori e di auto aggiustarsi. Questo è peraltro tradizionalmente
il modo in cui vengono giustificati. Il dibattito sull’euro deve allora partire
dalla messa in questione del concetto di democrazia. Cioè dalla tematizzazione della democrazia nelle condizioni
post-statuali.
Al contrario, “una delle sfortunate eredità
della crisi dell’euro è che ora pensiamo e parliamo quasi esclusivamente di
Stati-nazione omogenei come oggetto di analisi politica e presupponiamo che la
politica europea sia una questione d’interessi nazionali che possono essere
impostati uno contro l’altro (Germania contro Grecia, ecc.)”. Prendono forza, quindi,
gli stereotopi nazionali e le spiegazioni in termini di “cultura omogenea” alla
base delle unità statuali. Su questo punto insiste sempre anche Habermas:
bisogna focalizzare una rappresentazione per interessi politici (ed io direi
anche economici) al di là dei confini. Quindi comprendere “i presupposti di
fondo che caratterizzano i diversi attori politici europei”, attraversando le
loro identità nazionali, insieme alle lezioni della loro storia (e di quella
comune).
Del resto la dinamica politica democratica, pur
con la sua tendenza al rinvio ed all’indecisione, ha un vantaggio decisivo sia
di efficacia (capacità di produrre un’azione che faccia la differenza) sia di
trasparenza. Per dirlo con le parole di Muller: “quale sistema politico è più ‘efficiente’
della democrazia? L’autoritarismo? Qual è meno corrotto? L’autoritarismo? Penso
che queste siano pericolose illusioni”. Persino la burocrazia (peraltro certo
non assente, anzi tutt’altro, in ogni altra possibile forma di governo
conosciuta) è una necessità non aggirabile. Certo migliorabile. Muller in
questo contesto mette in questione, con interessanti parole, l’opinione che
Bruxelles sia il luogo di una elefantiaca burocrazia. Dato il livello di
competenze e la missione che gli viene attribuita forse è il contrario: l’idea
che si possa controllare l’armonizzazione di 28 bilanci e politiche economiche
con le scarse risorse di bilancio e tecniche è un azzardo.
Anzi è un azzardo indicativo, i sostenitori dell’Unione
Politica alla tedesca, in effetti, vogliono imporre una “camicia di forza”
standard ed automaticamente derivante da poche regole (l’enfasi delle regole
automatiche ed indipendenti, sui processi politici è, come noto, un “must” del
pensiero liberista, assolutamente in chiave antidemocratica). La “camicia di
forza finanziaria” è, insomma, una delle tendenze antidemocratiche (nel suo
filone tecnocratico) dalle quali bisognerebbe guardarsi.
Anche questa tendenza (condivisa dal 50% degli italiani, secondo recenti sondaggi) secondo cui la democrazia potrebbe funzionare benissimo senza partiti è contrastata da Jan Werner-Muller. Qui c’è anzi un “crocevia decisivo”: la democrazia è sotto l’attacco dei “populisti” (“che pensano vi sia solo un’autentica e omogenea volontà popolare”) e contemporaneamente dei tecnocrati (“che sostengono vi sia una sola risposta politica giusta per ogni problema”). A volte (come in alcuni toni del Movimento cinque Stelle, in particolare nella versione di Casaleggio) l’insieme delle due.
Si tratta, cioè, di farsi un’immagine di
compattezza e uniformità che nega conflitto e partigianeria. A lungo la
retorica del “capo al comando”, e del “partito dell’amore” berlusconiano ci ha
educato a questa finzione. A questa delegittimazione del conflitto, visto come
disordine e distruzione quando è, invece, il normale funzionamento dei sistemi
sociali e politici. Il modo nel quale le diverse soggettività ed interessi
legittimamente si confrontano e pervengono ad un ordinamento non preesistente, non
imposto dall’alto. In altre parole l’emergere di ordinamenti non preesistenti è
un fattore di dinamizzazione e innovazione non eludibile; di scoperta. In un
certo senso ha anche una dimensione cognitiva. Mostrando cosa è in gioco, essi possono
portare ad un processo di scoperta e definizione. Immaginare quindi di poter
fare a meno del pluralismo dei partiti, e ridurre ad unità tutti i processi di differenziazione,
oltre che i diversi interessi (normalmente contrapposti) che attraversano la
società è velleitario e pericoloso. Una fantasia.
La strada migliore sarebbe quella opposta: riuscire
a europeizzare la politica, facendo di aggregazioni come il PSE e il PP europeo
qualcosa di più e diverso da un’assemblaggio di partiti nazionali. Peraltro la
crisi dell’euro, sotto questo profilo è un’occasione, perché ha mostrato l’interdipendenza
e la rilevanza per la vita di ognuno delle decisioni che si prendono a
Bruxelles o Francoforte.
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