Nel richiamo che
all’inizio di marzo la
Commissione Europea ha fatto all’Italia, e che avevamo
commentato nel post su Olli Rehn, è
presente anche un Allegato statistico nel
quale ci sono moltissime informazioni interessanti. Ma soprattutto, abbastanza
di soppiatto, c’è una notizia sulla quale torniamo dopo: la Germania ha terminato di
farsi spingere dalle esportazioni. Forse abbiamo un’opportunità.
Ma vediamo prima lo
schema generale:
1.
La Commissione ci informa che il calo della domanda interna italiana (la
somma di tutto ciò che compriamo) insieme a quella degli altri inizia a colpire
anche i paesi dell’eurozona in surplus (per la buona ragione che in parte ce lo
vendono loro);
2.
Ci ricorda anche che il
nostro debito pubblico, sia in rapporto al PIL sia in assoluto, è però cresciuto
negli ultimi anni;
3.
Ma anche l’investimento
estero in Italia, ed in particolare sui nostri titoli, è cresciuto arrivando a
oltre 700 miliardi (questa cosa è passata sui nostri schermi come abbassamento
dello Spread e come svendita delle aziende italiane);
4.
L’abbassamento della
domanda interna ha fatto naturalmente comparire un surplus di bilancia
commerciale (quel che compriamo dall’estero meno quel che vendiamo) che è
passato ad essere attivo per il 3% (che non è poco);
5.
Ma il “conto corrente”
(il totale dei flussi con l’estero) è meno attivo perché l’attrazione di
capitali sta aumentando la quota di ricchezza nazionale che esce per
remunerarli (ora è ca. 1% PIL); il che è normale, se i nostri titoli e le
nostre aziende sono di proprietà estera lo saranno anche i loro rendimenti.
Questa situazione, come
spesso succede, si presta ad una lettura ambivalente:
a-
Se optiamo per un “modello austerità” (cioè per il
contenimento della capacità di spesa degli italiani che vivono di lavoro)
otteniamo che cala ancora la domanda interna, e migliora quindi il “conto
corrente”, ma cade il PIL ed aumentano le sofferenze, sia bancarie sia del
bilancio pubblico. E questo avviene anche se aumenta la fiducia dei mercati
esteri (per una stranezza solo apparente, in quanto le politiche di austerità possono
essere interpretate dai creditori finanziari come attestato del controllo della
dinamica politica da parte loro, cioè di cattura della “agenda” da parte dei
loro interessi). Però l’attrazione di capitali lavora anche ad attenuare gli
effetti di arricchimento del paese (attivo di “conto corrente”), cioè genera un
feedback negativo, per l’incremento del flusso di ricchezza corrente in uscita.
b-
Se optiamo per un “modello espansione” (della domanda
interna, cioè della capacità di spesa degli italiani), otteniamo il contrario:
cresce la domanda interna (però a vantaggio anche dei nostri fornitori esteri)
ma peggiora il “conto corrente” (perché sale l’import), il PIL sale di più ed
il debito pubblico diventa più sostenibile (a meno che la domanda interna sia
stata ottenuta con il debito pubblico). Il feedback negativo è che rischia di aumentare
il debito privato. Il paese si indebita con l’estero per comprare merci e servizi.
Allargando lo sguardo, la soluzione americana a questi dilemmi
è stata a lungo di aumentare la domanda interna (scontando un massiccio deficit
commerciale) con l’incremento non del debito pubblico, ma di quello privato
(alimentato da un massiccio afflusso di capitali esteri). L’espansione del
credito ha portato ad una costante espansione monetaria, che ha determinato una
sensazione di arricchimento (ma per un’elementare identità contabile il denaro
creato dal credito aveva a fronte un’accensione di debito, e dunque non
corrispondeva ad un arricchimento come potrebbe essere se divento più
produttivo). Data la stagnazione degli investimenti industriali, anche questa
strada era senza uscita.
Ora, tornando in Italia,
quel che mi pare il punto è che noi non abbiamo una moneta di riserva capace di
attrarre capitali dall’estero in tale misura, e siamo privi peraltro anche di una
Banca Centrale come la FED
o la BoE , dunque abbiamo
tradizionalmente gestito il problema generato
da un’economia aperta (nella quale i capitali e le merci si muovono liberamente),
con un misto di debito pubblico (deficit spending) e svalutazione per sostenere
le esportazioni. In particolare con il primo da quando il divorzio tra Banca
d’Italia e Tesoro, in ossequio al dogma liberista che vede la Banca indipendente unico modo
di disciplinare lo “Stato sprecone” (che per un liberista è tale a qualsiasi
livello di spesa), ha fatto esplodere il costo del “servizio del debito”. Siamo
entrati dunque nella trappola della quale da ultimo ci ha parlato Offe: “lo <stato fiscale> riduce il
reddito disponibile delle persone ricche attraverso una tassazione generalmente
progressiva, lo <stato debitore> accresce quel reddito pagando
gli interessi su quanto le persone ricche possono ben permettersi di prestare
allo stato” (p.55). Cioè riduce le tasse ai ricchi (altrimenti nell’economia
aperta scappano) e cerca di chiudere il deficit creato chiedendogli in prestito
ciò che non ha tassato. Arricchisce due volte il primo 10% della popolazione:
non prendendo i soldi e pagando gli interessi. Dal grafico del debito pubblico
italiano si può vedere che questo si è impennato a partire dal famoso “divorzio”.
Del resto è successo più o meno ovunque.
Soffermiamoci: nel 1981
si vede nella linea rossa un cambio di inclinazione che lo porta rapidamente al
valore che nel 1992 obbliga il Governo ad intervenire con i draconiani tagli
che hanno di fatto cambiato il sistema economico italiano. Il debito in dieci
anni sale dal 60% al 120% del PIL. In termini nominali da 142 miliardi a 849
miliardi. Contrariamente alla normale visione nel periodo 1981-2011 le spese
dello Stato sono state complessivamente inferiori al gettito (si stima ca. 400
miliardi), ma le spese per interessi sono state di oltre 2.000 miliardi.
L’idea che ha portato
questa innovazione è di Ciampi e di Andreatta, e matura nel contesto della
crisi petrolifera: Ciampi individua, Considerazioni
Finali 1981, la condizione “che il potere della creazione della moneta si
eserciti in completa autonomia dai centri in cui si decide la spesa … cessi l’assunzione
da parte della Banca d’Italia dei Bot non aggiudicati alle aste … seconda
condizione [anche più importante] è …collocare le grandi decisioni di spesa
nella prospettiva dell’equilibrio monetario … la rottura dell’equilibrio
monetario si determina nelle decisioni di spesa del settore pubblico e in
quelle di distribuzione del reddito all’interno dell’impresa. E’ là che la
relazione tra impieghi e risorse si tende fino a fare dell’aumento dei prezzi e
della svalutazione dei debiti un
necessario, perverso strumento di ricomposizione. Alle decisioni di spesa
pubblica bisogna dare regole che costringano al rispetto sostanziale dell’obbligo
di copertura”.
Un progetto
ideologicamente chiaro (soprattutto nella parte che indica il disciplinamento
del lavoro che è il vero obiettivo) e che necessariamente induce ad una
concentrazione della ricchezza verso l’alto. In particolare l’obiettivo emerge
con chiarezza dalla citata “svalutazione dei debiti” (cioè dei crediti dei
risparmiatori) che era lo “strumento di ricomposizione” che riportava
costantemente in favore della componente lavoro (grazie alla “scala mobile”,
indebolita da Craxi nel 1984 ed abolita nel 1992) la distribuzione sociale.
Magari ci torniamo in
modo sistematico, fatto sta che ora siamo
in questo punto. In attesa di ripensare il ruolo della creazione di moneta
e di sua circolazione attraverso il sistema finanziario (per il quale
suggerisco di leggere qui e qui) resta quindi da
scegliere tra il “modello austerità”
ed il “modello espansione”.
Si potrebbe dire che
resta da scegliere su chi si deve indebitare: i privati interni, quelli esterni
o lo Stato?
Di qui la soluzione tedesca al problema: una
moneta svalutata (per loro questo è l’Euro) e una svalutazione interna
massiccia (contenimento salari) che favoriscono le esportazioni verso il resto
del mondo (principalmente Italia, Francia, Inghilterra, Cina e USA). Il
tentativo di risolvere il dilemma a danno degli altri (cioè né privati interni,
né Stato; ma privati esterni): il PIL è stato trainato dalle esportazioni, il
surplus commerciale si è tradotto in attivi finanziari che sono stati
reinvestiti tramite il sistema interconnesso della finanza internazionale (in
particolare, ma non solo, europeo) generando (auspicabilmente) rendite
aggiuntive. Questo era il modello “austerità” per i lavoratori interni e lo
Stato ed “espansione” della finanza privata e dell’offerta industriale verso i
mercati esteri (cioè, verso la “domanda” altrui da catturare) che la Germania (o, meglio, il
sistema nord-europeo) ha cercato di praticare in effetti a nostro danno. Raccontandoci, con un capolavoro di cinismo
ipocrita, che dovevamo farlo nostro (quando, essendo uno schema win-lose non
può per definizione essere praticato da tutti).
Purtroppo per loro questo modello dannoso, come ormai ammette anche la Merkel , inizia a terminare per eccesso di successo. E il Rapporto della Commissione
Europea lo chiarisce, la
Germania dovrà passare a un modello trainato dalla crescita
della domanda interna. Cioè dovrà investire le sue cospicue riserve e rendite
(il frutto degli investimenti del surplus all’estero) per far salire il reddito
dei lavoratori. Altrimenti la sua crescita si fermerà. Non perché la Germania non esporterà
più, ma perché inizia a importare
di più. Del resto era un modello che
non poteva durare in eterno, una differenza tra la soluzione tedesca e
quella americana è che i secondi hanno attratto capitali (grazie alle loro
infrastrutture e all’industria finanziaria molto sviluppata), mentre i tedeschi
li hanno esportati. I primi si sono indebitati e deindustrializzati (puntando
su industrie immateriali nella filiera tecnologica e finanziaria), i secondi si
sono organizzati in rete di produzione con i partner subalterni vicini (i
lander ex Germania Est, la
Polonia , l’Olanda, etc..), puntando su un’industrializzazione
più tradizionale, spinta da competitività di prezzo e politiche mercantiliste. Gli
USA, però, reggono il loro modello sbilanciato sul debito grazie alla loro superpotenza
militare e politica, i tedeschi grazie alla UE (nella quale determinare lo
stesso indispensabile “effetto di dominazione”).
Il punto è che se la Germania inizia ad alzare
gli investimenti e i consumi interni forse abbiamo un’opportunità. Ma noi non abbiamo scelto. Senza avere gli
assett materiali e immateriali americani, né la
determinazione tedesca, siamo rimasti in un modello che non poteva più fare
“deficit” (perché il costo degli interessi, e la “disciplina dei mercati”
toglieva ogni spazio di manovra) e non poteva lasciare che la legge della
domanda ed offerta di moneta facesse il suo normale lavoro (apprezzando le
monete più richieste di chi esportava troppo e deprezzando quelle meno
richieste di chi importava troppo, riportando l’equilibrio) per effetto del
cambio unico dell’Euro. Non abbiamo neppure scelto coerentemente di investire
su produttività ed innovazione (di prodotto) per cercare di scappare al gioco
win-lose mercantilista, battendolo sul suo terreno della competitività ben
intesa.
Nel vasto campo di gioco
mondiale, inseriti in un gioco che non potevamo vincere (come se la nostra
nazionale di calcio fosse invitata a una partita di football americano dalla
nazionale americana), abbiamo perso.
E ancora non sembriamo scegliere che gioco giocare.
Il tempo corre, bisogna
decidere.
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