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venerdì 21 marzo 2014

Claus Offe, “L’Europa in trappola. Riuscirà l’UE a superare la crisi?”


Claus Offe, è uno degli intellettuali di punta tedeschi, autore nel 1977 di un grande classico come <Lo Stato nel capitalismo maturo>. In questo piccolo e denso libro, il sociologo chiarisce che è impossibile andare avanti con il processo di unificazione, impossibile tornare indietro, insostenibile restare al punto attuale.

La prima cosa (“andare avanti”) non è possibile perché le cose che si dovrebbero fare sono notissime, ma totalmente irrealizzabili in contesto democratico, perché assolutamente impopolari. I paesi del nord dovrebbero accettare di “mutualizzare il debito”, ma leggono questa ipotesi come <pagare per gli altri>. Quelli del sud dovrebbero adeguare il loro costo del lavoro (in termini di rapporto tra costo del lavoro e sua produttività) alla nuova situazione competitiva, per raggiungere un equilibrio commerciale e deficit di bilancio sostenibili. Tuttavia anche questo costerebbe la stabilità e la democrazia.
In assenza, quindi, di massicci e prolungati trasferimenti (con i quali risarcire i “perdenti” dell’aggiustamento), sostiene Offe, è impossibile accettare qualsiasi piano di austerità controproducente dal sud. Si coltiva solo la crescita di Alba Dorata e di Grillo (entrambi citati).

La seconda cosa (“tornare indietro”), smantellando l’eurozona, non è giudicata un’opzione “accettabile”. Se è vero che la rinazionalizzazione della politica monetaria porterebbe alla svalutazione delle monete del sud, avviando un probabile effetto domino, sarebbe persa la parte fondamentale dei mercati di esportazione per i “paesi in surplus commerciale”. Dunque sembra di capire che non sarebbe “accettabile” per la Germania. Ma Offe, cerca di essere più equanime, e segnala il rischio comune che la dissoluzione vada avanti e non sia controllabile, portando alla distruzione dell’intera Unione Europea. In questo caso si entrerebbe in un gigantesco vuoto normativo, istituzionale, e in una regressione politica ed economica di vasta portata.

Resterebbe la terza opzione (“stare fermi”). Anche se è vero che l‘Euro è stato un errore sin dall’inizio, procedere ad aggiustamenti solo interni (vasti tagli al settore pubblico e all’occupazione), e solo sui redditi bassi (per l’impossibilità, in queste condizioni di libertà di movimento di capitali e persone fiscali, di muoversi verso la migliore struttura normativa e fiscale) produce effetti regressivi e depressione della domanda che non sono sostenibili a lungo (O., p.38).

A questo punto la trappola è completa: né avanti, né dietro, né fermi.

L’unica cosa possibile, per Offe, è capire finalmente che la mutualizzazione del debito non è un <trasferimento> o una <donazione altruistica> (come spesso la pone la Merkel), ma “solidarietà in senso proprio. In altri termini: solidarietà significa fare non ciò che è bene per qualcun altro, ma ciò che è bene per tutti noi”. Non si tratta di pagare quindi “per loro”.
Ciò che ostacola in modo decisivo questa consapevolezza è il debole processo di formazione di un’opinione pubblica e di un’identità comune, avviato negli anni in cui (sostanzialmente prima dell’unificazione tedesca e la caduta del muro di Berlino) nessuno dubitava del senso del progetto, che è oggi reso più difficile dalla sua gestione depoliticizzata, tecnocratica, antidemocratica. Persino se l’Unificazione riuscisse, su queste basi sarebbe contestata, in quanto operazione debole sul piano giuridico, non meditata, non condivisa e non adeguatamente discussa (come del resto tutti i passi fatti fin’ora).
Anche sotto questo profilo siamo in una trappola. Siamo qui perché, nell’analisi di Offe è andata troppo avanti la finanziarizzazione e la crisi della capacità di governo che ne è intenzionale (anzi progettato) effetto. Secondo una efficace immagine di Offe, <la finanza è stata liberata e gli Stati sono stati fatti prigionieri> (p.54); come nei vecchi film americani, i rapinatori passano il confine e i poliziotti vi si fermano. Tramite questa “libertà di fuga” si è passati dallo <stato fiscale>, degli anni sessanta e settanta, allo <stato debitore> di questi anni (dai novanta, più o meno).
Ciò che fa uno <stato debitore> è semplice: accresce il reddito dei ricchi. La sua principale implicazione distributiva è infatti che, mentre “lo stato fiscale riduce il reddito disponibile delle persone ricche attraverso una tassazione generalmente progressiva, lo stato debitore accresce quel reddito pagando gli interessi su quanto le persone ricche possono ben permettersi di prestare allo stato” (p.55).
Non stupisce che in queste condizioni sia aumentato il volume del settore finanziario e contestualmente calato quello dell’economia reale. Poi la cosa si può vedere anche dal lato in cui la mette anche Giacchè: Offe cita Christoph Deutschmann che enfatizza la carenza di debitori <classici> per investimenti produttivi (a sua volta a causa del calo del saggio di rendimento per effetto del calo demografico e dalla stagnazione tendenziale di lungo periodo) come causa del rivolgersi al finanziamento del debito sovrano ed alla speculazione.

Aprendo qui una parentesi, vorrei sottolineare che se ha ragione la Teoria della Moneta Endogena, recentemente ed autorevolmente rilanciata dalla Banca d’Inghilterra, la contrazione dei prestiti nell’economia reale (siano essi mutui immobiliari, prestiti al consumo o –ovviamente meglio- investimenti produttivi) provoca una vera e propria contrazione della moneta disponibile. Cioè una carenza di capacità di acquisto che “mette in riserva” le capacità e le disponibilità potenziali di parte crescente della società. Infatti sarebbero i prestiti a generare la moneta, non i depositi e non la Banca Centrale. La moneta (che ha carattere fiduciario) è creata da nulla all’atto del prestito e distrutta a quello della restituzione; dunque se il volume dei prestiti si contrae, altrettanto fa l’economia monetaria. In ogni caso gli effetti sono sotto gli occhi di tutti, la finanza sta mangiando letteralmente l’economia. E sta generando una capacità di influenza che ormai rende possibile, per Offe, letteralmente di “occupare” gli altri Stati senza disporre di eserciti e muovere un solo uomo in armi (p.67).

Dunque entro questo quadro non riescono a emergere soluzioni, solo adattamenti e “acquisti di tempo” (Streeck). Si resta come in attesa che qualcosa giunga a salvare: probabilmente qualche tecnologia miracolosa, qualche innovazione essenziale.
Nulla come la prefazione di Salvati (che, come spesso avviene, sembra andare in una direzione diversa) è utile a vedere il punto: per lui la scelta è tra <asfissia> e <catastrofe> (p.15) e dunque è meglio la prima. Del resto pochi (?) potevano immaginare la crisi e si può sempre sperare che compaiano azioni di solidarietà efficaci. Di fronte al dilemma proposto da Offe (che non contesta) Salvati sceglie di non scegliere. Aspetta.

Ma la questione è semplice: se l’alternativa è tra <asfissia> e <catastrofe>, per “chi” si dà l’una e per “chi” l’altra? “Chi” è davanti alla prospettiva dell’<asfissia> e “chi” davanti alla <catastrofe>? E’ forse davanti all’<asfissia> chi ha solo il proprio lavoro a cui affidare la propria vita? E’ forse davanti al rischio della <catastrofe> chi ha solo i propri capitali?
Gli stessi Partiti Politici, per Offe, sono ciechi a questa prospettiva, perché restano aggrappati solo a calcoli di breve termine, e invece “dovrebbero compiere un cruciale passaggio dal codice dominante <nazione vs nazione> al codice <classe sociale vs classe sociale>” Ciò che va messo a fuoco, in altre parole, è che c’è più interesse e cultura comune tra un lavoratore italiano e uno tedesco che tra lo stesso ed un industriale (o un percettore di rendite, cioè “risparmiatore”) della stessa nazionalità. Offe tenta, insomma, di ricordare che ci sono alternative, lo slogan TINA (“non ci sono alternative”) è “solo una scusa per arrendersi ai rapporti di potere che difendono lo status quo della libera circolazione dei capitali finanziari” (O, p. 91).
L’alternativa è ottenere una “redistribuzione su larga scala tra popoli e classi sociali” (p.86).

Siamo, dunque, arrivati davvero a un punto morto, abbiamo due strade davanti:
  • la prima scende e porta alla disintegrazione dell’Unione Europea, a un gioco a somma negativa e di enormi proporzioni;
  • l’altra sale, ma richiede la mobilitazione e la resistenza di chi soffre.

Richiede la lotta.


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