Claus Offe, è uno degli intellettuali di punta
tedeschi, autore nel 1977 di un grande classico come <Lo Stato nel capitalismo maturo>. In questo piccolo e denso libro,
il sociologo chiarisce che è impossibile
andare avanti con il processo di unificazione, impossibile tornare indietro, insostenibile
restare al punto attuale.
La
prima cosa (“andare avanti”) non è possibile perché le cose che si
dovrebbero fare sono notissime, ma totalmente irrealizzabili in contesto
democratico, perché assolutamente impopolari. I paesi del nord dovrebbero
accettare di “mutualizzare il debito”, ma leggono questa ipotesi come <pagare
per gli altri>. Quelli del sud dovrebbero adeguare il loro costo del lavoro (in
termini di rapporto tra costo del lavoro e sua produttività) alla nuova
situazione competitiva, per raggiungere un equilibrio commerciale e deficit di
bilancio sostenibili. Tuttavia anche questo costerebbe la stabilità e la
democrazia.
In assenza, quindi, di massicci e prolungati
trasferimenti (con i quali risarcire i “perdenti” dell’aggiustamento), sostiene
Offe, è impossibile accettare qualsiasi piano di austerità controproducente dal
sud. Si coltiva solo la crescita di Alba Dorata e di Grillo (entrambi citati).
La
seconda cosa (“tornare indietro”), smantellando l’eurozona,
non è giudicata un’opzione “accettabile”. Se è vero che la rinazionalizzazione
della politica monetaria porterebbe alla svalutazione delle monete del sud,
avviando un probabile effetto domino, sarebbe persa la parte fondamentale dei
mercati di esportazione per i “paesi in surplus commerciale”. Dunque sembra di
capire che non sarebbe “accettabile” per la Germania. Ma Offe, cerca di
essere più equanime, e segnala il rischio comune che la dissoluzione vada
avanti e non sia controllabile, portando alla distruzione dell’intera Unione
Europea. In questo caso si entrerebbe in un gigantesco vuoto normativo,
istituzionale, e in una regressione politica ed economica di vasta portata.
Resterebbe la
terza opzione (“stare fermi”). Anche se è vero che l‘Euro è stato un errore
sin dall’inizio, procedere ad aggiustamenti solo interni (vasti tagli al settore
pubblico e all’occupazione), e solo sui redditi bassi (per l’impossibilità, in
queste condizioni di libertà di movimento di capitali e persone fiscali, di muoversi
verso la migliore struttura normativa e fiscale) produce effetti regressivi e
depressione della domanda che non sono sostenibili a lungo (O., p.38).
A questo punto la trappola è completa: né avanti, né dietro, né fermi.
L’unica cosa possibile, per Offe, è capire finalmente
che la mutualizzazione del debito non è un <trasferimento> o una
<donazione altruistica> (come spesso la pone la Merkel ), ma “solidarietà in senso proprio. In altri
termini: solidarietà significa fare non ciò che è bene per qualcun altro, ma ciò che è bene per tutti noi”. Non si tratta di pagare quindi “per loro”.
Ciò che ostacola in modo decisivo questa
consapevolezza è il debole processo di formazione di un’opinione pubblica e di un’identità
comune, avviato negli anni in cui (sostanzialmente prima dell’unificazione
tedesca e la caduta del muro di Berlino) nessuno dubitava del senso del
progetto, che è oggi reso più difficile dalla sua gestione depoliticizzata,
tecnocratica, antidemocratica. Persino se l’Unificazione riuscisse, su queste
basi sarebbe contestata, in quanto operazione debole sul piano giuridico, non
meditata, non condivisa e non adeguatamente discussa (come del resto tutti i
passi fatti fin’ora).
Anche
sotto questo profilo siamo in una trappola. Siamo qui perché, nell’analisi
di Offe è andata troppo avanti la finanziarizzazione e la crisi della capacità
di governo che ne è intenzionale (anzi progettato)
effetto. Secondo una efficace immagine di Offe, <la finanza è stata liberata
e gli Stati sono stati fatti prigionieri> (p.54); come nei vecchi film
americani, i rapinatori passano il confine e i poliziotti vi si fermano. Tramite
questa “libertà di fuga” si è passati dallo <stato fiscale>, degli anni
sessanta e settanta, allo <stato debitore> di questi anni (dai novanta,
più o meno).
Ciò che fa uno <stato debitore> è
semplice: accresce il reddito dei ricchi. La sua principale implicazione
distributiva è infatti che, mentre “lo stato fiscale riduce il reddito disponibile delle persone ricche attraverso una
tassazione generalmente progressiva, lo stato debitore accresce quel reddito pagando gli interessi su quanto le persone
ricche possono ben permettersi di prestare allo stato” (p.55).
Non stupisce che in queste condizioni sia
aumentato il volume del settore finanziario e contestualmente calato quello
dell’economia reale. Poi la cosa si può vedere anche dal lato in cui la mette
anche Giacchè:
Offe cita Christoph Deutschmann che enfatizza la carenza di debitori
<classici> per investimenti produttivi (a sua volta a causa del calo del
saggio di rendimento per effetto del calo demografico e dalla stagnazione
tendenziale di lungo periodo) come causa del rivolgersi al finanziamento del
debito sovrano ed alla speculazione.
Aprendo qui una parentesi, vorrei sottolineare
che se ha ragione la Teoria
della Moneta Endogena, recentemente ed autorevolmente rilanciata dalla Banca
d’Inghilterra, la contrazione dei prestiti nell’economia reale (siano essi
mutui immobiliari, prestiti al consumo o –ovviamente meglio- investimenti produttivi)
provoca una vera e propria contrazione della moneta disponibile. Cioè una
carenza di capacità di acquisto che “mette in riserva” le capacità e le
disponibilità potenziali di parte crescente della società. Infatti sarebbero i
prestiti a generare la moneta, non i depositi e non la Banca Centrale. La moneta (che
ha carattere fiduciario) è creata da nulla all’atto del prestito e distrutta a
quello della restituzione; dunque se il volume dei prestiti si contrae,
altrettanto fa l’economia monetaria. In ogni caso gli effetti sono sotto gli
occhi di tutti, la finanza sta
mangiando letteralmente l’economia. E sta generando una capacità di influenza
che ormai rende possibile, per Offe, letteralmente di “occupare” gli altri
Stati senza disporre di eserciti e muovere un solo uomo in armi (p.67).
Dunque entro questo quadro non riescono a
emergere soluzioni, solo adattamenti e “acquisti di tempo” (Streeck). Si resta come in attesa che qualcosa giunga
a salvare: probabilmente qualche tecnologia miracolosa, qualche innovazione
essenziale.
Nulla come la prefazione di Salvati (che, come spesso
avviene, sembra andare in una direzione diversa) è utile a vedere il punto: per
lui la scelta è tra <asfissia> e <catastrofe> (p.15) e dunque è
meglio la prima. Del resto pochi (?) potevano immaginare la crisi e si può
sempre sperare che compaiano azioni di solidarietà efficaci. Di fronte al
dilemma proposto da Offe (che non contesta) Salvati sceglie di non scegliere. Aspetta.
Ma la questione è semplice: se l’alternativa è
tra <asfissia> e <catastrofe>, per “chi” si dà l’una e per “chi”
l’altra? “Chi” è davanti alla prospettiva dell’<asfissia> e “chi” davanti
alla <catastrofe>? E’ forse davanti all’<asfissia> chi ha solo il
proprio lavoro a cui affidare la propria vita? E’ forse davanti al rischio
della <catastrofe> chi ha solo i propri capitali?
Gli stessi Partiti Politici, per Offe, sono ciechi
a questa prospettiva, perché restano aggrappati solo a calcoli di breve
termine, e invece “dovrebbero compiere un cruciale passaggio dal codice
dominante <nazione vs nazione>
al codice <classe sociale vs
classe sociale>” Ciò che va messo a fuoco, in altre parole, è che c’è più
interesse e cultura comune tra un lavoratore italiano e uno tedesco che tra lo
stesso ed un industriale (o un percettore di rendite, cioè “risparmiatore”)
della stessa nazionalità. Offe tenta, insomma, di ricordare che ci sono alternative, lo slogan TINA (“non
ci sono alternative”) è “solo una scusa per arrendersi ai rapporti di potere
che difendono lo status quo della libera circolazione dei capitali finanziari”
(O, p. 91).
L’alternativa è ottenere una “redistribuzione su
larga scala tra popoli e classi sociali” (p.86).
Siamo, dunque, arrivati davvero a un punto morto, abbiamo due strade davanti:
- la prima scende e porta
alla disintegrazione dell’Unione Europea, a un gioco a
somma negativa e di enormi proporzioni;
- l’altra sale, ma richiede
la mobilitazione e la resistenza di chi soffre.
Richiede la lotta.
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