Su Il Giornale un articolo
nel quale Alberto Bagnai, professore di economia a Pescara e animatore
principale della campagna culturale no-euro riassume alcune delle ragioni per
le quali propone di considerare l’Euro realmente esistente insostenibile per
l’Italia ed il sud Europa.
Richiamando il Manifesto
di solidarietà il professore propone la prospettiva di un'uscita
controllata dall'Unione Monetaria che è in effetti condivisa, con significative
differenze, da moltissimi studiosi o attori di destra e sinistra, anglosassoni
e continentali, economisti e non. Ne abbiamo presentati moltissimi (basta
mettere la parola chiave “Euro” nel blog); quel che sostiene Bagnai è che si
tratta di una battaglia per due
obiettivi: il benessere della gran parte della popolazione (in particolare dei
lavoratori del ceto medio e medio-inferiore), e la democrazia sostanziale.
Condividendo entrambi gli obiettivi, e la minaccia ad essi, ripercorrerò,
commentandoli, i principali passaggi dell’intervista. Per Bagnai, che anima uno
dei più importanti blog economici italiani (Goofynomics, che nella classifica
ebuzzing è permanentemente entro i primi dieci posti),
l’integrazione monetaria è un progetto politico individuato dai politici
europei negli anni settanta per completare il programma di unità politica
avviato nell’immediato dopoguerra. Vorrei sottolineare questo punto: si sceglie
uno strumento economico –anzi monetario- per ottenere un risultato
politico-istituzionale, cioè un obiettivo costituzionale. Un risultato, in altre parole,
che ha a che fare essenzialmente con il potere di definire le scelte che
influenzano le nostre vite e con la responsabilità.
Che l’Euro –afferma Bagnai- sia nelle condizioni date, in quanto meccanismo economico,
tecnicamente insostenibile tutti i decisori che lo impongono
lo sapevano, sin dall’inizio. Questa affermazione è supportata da valanghe di
riscontri; anche se nelle decisioni politiche la pura razionalità tecnica è
solo un elemento tra altri (è noto, ad esempio che attori di primo piano come
Andreotti e La Malfa
usassero rispondere ai tecnici che gli obiettavano i meccanismi competitivi in
grado di stritolare la nostra economia con fastidio e mostra di irrilevanza).
Infatti per un politico la questione è sempre essenzialmente <politica>,
cosa che essenzialmente significa <di potere> e in misura minore <di
legittimazione> (cioè di giustificazione politica).
Bagnai comunque cita Albertini, Prodi, Spinelli,
Padoa-Schioppa e Ciampi. Tutti attori che sapevano benissimo “che una moneta
unica sarebbe stata insostenibile per paesi così diversi”; il punto (lo diceva
anche Jean Monnet) era di ottenere il superiore obiettivo dell’unità politica attraverso le crisi. Cioè, in effetti,
lasciando arrivare le crisi –ed anzi provocandole-, mettere tutti in una
situazione insostenibile, costringendo il cambiamento. Giustamente Bagnai chiama questa cinica strategia
“violenza economica”.
Ma che genere
di violenza è? E come esattamente funziona? Verso chi?
La violenza esercitata dalle crisi (che, come sappiamo “non si
devono sprecare”, come ricorda sempre Draghi) è la sottrazione della base di
esistenza dignitosa dei più deboli, o più precisamente di coloro che sono resi
deboli dalla competizione alla quale vengono esposti senza difese. Cioè della
loro base di potere. Esiste, infatti, un legame essenziale tra l’indipendenza,
la dignità ed il potere di cui si dispone. Autori come Beck e Bauman non si
stancano di ricordarcelo.
Il meccanismo è ancora più semplice: quando si mettono in contatto
aree economiche diverse, per disponibilità dei fattori di produzione (tra i
quali materie prime e lavoratori), infrastrutture e posizione geografica, senza
gestire e mediare le conseguenze, anzi accelerandole, il sistema più ampio
creato si assesta su una media. Dunque chi, per linea di sviluppo e tradizione
storica, ha un assetto ed un equilibrio sotto qualche profilo svantaggiato deve
cedere o morire. In effetti è una specie di guerra.
Il Chi è altrettanto visibile: questo meccanismo militare “mostra i denti” verso i
lavoratori i cui salari relativi (cioè in relazione alla produttività) siano
più alti, anche di poco; il cui tenore di vita –dunque- sia ottenuto a
detrimento del saggio di profitto del capitale investito. Ma mostra il suo
profilo affilato anche verso le imprese che vivono del “tenore di vita” dei
lavoratori, o di chi a questi offre servizi. Si tratta di un effetto a catena.
Un processo di graduale indebolimento e diradamento. Dall’altro lato (cioè del
manico) questo processo “densifica” in alcuni luoghi e segmenti produttivi le
risorse che sottrae altrove. Lo abbiamo evidenziato anche dalla lettura del bel
testo di Moretti,
con riferimento al contesto americano ed alla sua reazione alla
mondializzazione.
In effetti quello che si attiva è un processo di
riarticolazione contemporaneamente economico, sociale, e geografico. Naturalmente è anche un processo politico.
La riarticolazione del potere, produce uno slittamento tra forme di
rappresentanza che modifica i rapporti di forza (una volta si sarebbe detto in
modo abbreviato “di classe”). Senza abbreviare si tratta dei rapporti
funzionali tra sistemi produttivi e circuiti di creazione e conservazione del
valore (all’interno di quella che una volta si sarebbe chiamata la “classe
borghese” ci sono spostamenti anche più ingenti che tra quella “lavoratrice”,
tra chi resta connesso ai circuiti essenzialmente internazionali della finanza
e chi resta posizionato-intrappolato nel livello produttivo locale, o nel mondo
dei servizi, ad esempio).
Ma torniamo a Bagnai, il professore diceva che sapevano. E che hanno sottovalutato sia il livello del dolore indotto con questo
brutale processo (dal punto di vista di alcuni di loro, necessario) sia, e
soprattutto, le incipienti reazioni.
Cosa più grave (ma strettamente connessa, parte di una
sola visione) è che l’essenziale divisione (linguistica e culturale), l’assenza
di una sfera pubblica comune (e anche di media comuni), rende in effetti le
istituzioni cui si devolve il potere
non democratiche. Banalmente perché non responsabili verso un discorso pubblico
che non è condotto al livello giusto.
Nessuno sa come parlare alla BCE, e appena lo fa
riceve (come in questi giorni) stizzite risposte di “indipendenza”. Nessuno sa
come parlare alla Commissione Europea, se non attraverso i singoli Governi. In altre parole, la decisione è presa da
organizzazioni che non rispondono a noi.
La maggioranza che decide in Commissione non risponde della sua scelta ai
cittadini ma alla fine a nessuno (singolarmente ogni capo di governo potrà
tornare dicendo di essere stato costretto). O, per meglio dire, solo “ai
mercati”. Stiamo tornando ad una democrazia
di censo. In effetti stiamo perdendo il suffragio universale. Lo avevamo
visto nel commento alle eversive
parole di Carli.
Se questo assetto sovranazionale irresponsabile (verso
i cittadini) rende impossibile la democratizzazione delle scelte lo stesso
dibattito, a volte, assume toni intollerabili. Bagnai sottolinea che nel 1978
il PCI si oppose
all’adesione allo SME, con argomenti
economici, peraltro condivisi da giornalisti come Eugenio
Scalfari, ancora attuali. Ognuno ha poi cambiato idea dopo l’unificazione
tedesca e la dissoluzione dell’Urss, quando il quadro geopolitico si stava
complicando e viene decisa la ratifica dell’essenziale Trattato
di Maastricht. Da allora il coro è stato praticamente unanime, sino a tempi
recenti.
Quel che si manifesta oggi è quindi il fallimento di un disegno geopolitico (determinare
un’unità di potere e di equilibrio in grado in prospettiva di confrontarsi alla
pari con gli USA), di un disegno
economico (occupare i mercati che si aprivano all’occidente all’Est,
tramite una accresciuta competitività e la disponibilità di flussi finanziari),
di un disegno sociale (riarticolare
le aree di sviluppo dove e quando si manifesta il migliore mix competitivo), di un disegno politico (disciplinare i
lavoratori e le forze cui facevano riferimento). Si tratta di quattro programmi
strettamente interconnessi, come è evidente.
Un fallimento, si potrebbe dire, per eccesso di successo (non naturalmente nel primo, assolutamente
velleitario, obiettivo) e incomprensione della vastità delle conseguenze.
La politica, sostiene Bagnai, è dunque incapace di
affrontare tale successo-fallimento e ne nasconde portata e conseguenze. Invece
la scienza economica ne è ben cosciente (in effetti più nel mondo anglosassone
che non nel nostro). Comunque non sono
mai mancati gli avvertimenti.
A questo punto le soluzioni tecniche, in caso di
assunzione dell’insostenibilità delle conseguenze, possono essere diverse:
Bagnai cita l’uscita della Germania dall’alto, la dissoluzione per uscita di
Francia e Italia, la divisione (ipotesi Zingales e Stiglitz) di “due euro”.
Ovviamente i costi sarebbero diversi nei vari scenari (per l’Italia il migliore
è il primo).
Una delle parti più interessanti dell’intervista è
quando il professore prova a caratterizzare la mappa di chi ci guadagna (un altro che prova a farlo è Streeck
nel suo libro del 2013):
- le imprese che
delocalizzano e portano le produzioni all’estero, infatti una moneta forte (se
non ci fosse l’Euro la nostra moneta sarebbe naturalmente più debole) consente
di comprare meglio all’estero. La Confindustria , che è dominata da questo genere di
industriali, è quindi ferocemente contraria (sia in Italia, sia in Francia come
in Germania) alla dissoluzione dell’Euro.
- gli intellettuali e gli
economisti per diversi motivi legati al mondo della finanza, ed a istituzioni
come il FMI (ma anche la BCE
o l’OCSE). Bagnai fa il nome di Alesina,
che dal 1997 ad oggi ha preso la posizione esattamente opposta.
- le istituzioni non responsabili
democraticamente che, come molti hanno notato, nelle crisi acquistano potere di
emergenza che poi tende a stabilizzarsi (basta vedere l’attuale strapotere
della BCE, superiore a qualsiasi governo “indebitato”, o della Commissione
Europea, o del FMI –i tre insieme sono la Troika).
- le banche, e più in
generale la finanza, che trovano occasioni di business nell’intermediare i
giganteschi flussi finanziari liberati. Qui è all’opera un meccanismo di base,
già visibile dal tempo di Clinton negli USA: se i salari stagnano rispetto alla
produttività, alla lunga ci sono più beni che capacità di acquistarli. La
finanza interviene “prestando” i soldi chiudendo il cerchio tra i surplus di
profitto, ricavati dagli industriali e dalle aziende che producono servizi, e i
necessari acquirenti. Altrimenti calerebbero i prezzi, riportando i salari
allineati con la produttività e riducendo il saggio di profitto. Il trucco
della finanziarizzazione è fondamentalmente qui (e nella capacità di invadere
nuove “nicchie ecologiche”, spazzando via i concorrenti più deboli anche al
fine di “guadagnare tempo”, come ricorda Streeck).
- Come è ovvio “l’Euro ha
enormemente facilitato questo processo” (Bagnai). In particolare tramite
l’abbassamento dei tassi (che facilita l’indebitamento sia pubblico che
privato) e l’abolizione del rischio di cambio (che facilita gli scambi).
Chiaramente questa
situazione a lungo termine (che ormai si è molto accorciato) è tecnicamente
insostenibile. E l’evoluzione delle tecnologie
“labor saving” non può che aggravare la cosa.
Con le parole di Bagnai: “Pur essendo ostile il sistema bancario non
può continuare a vivere di una situazione di regole che di fatto impediscono la
creazione di valore attraverso industria, commercio e servizi.”
Lascio alla sua conclusione:
“L'euro è condannato dalla
storia. Abbiamo visto cadere, nel giro di meno di un secolo, il gold
standard, accordo di cambi fissi basato su un ancoraggio con l'oro, e il
sistema di Bretton Woods, sistema di cambi fissi basato su un ancoraggio con il
dollaro. Ora vedremo cadere anche l'Euro che è un sistema di cambi fissi basato
sull'ancoraggio col niente perché è una moneta che dietro non ha neanche uno
Stato, cioè quell'istituzione che da sempre è stata garante del sistema
monetario.”
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