“E’ dell’uomo che devo parlare; e l’argomento
che prendo in esame mi dice che dovrò parlare a degli uomini, perché non si
propongono problemi simili se si teme di onorare la verità”, Jean-Jacques
Rousseau, Sull’origine dell’ineguaglianza,
Parte Prima.
Elysium è un blockbuster di medio successo, con Matt Damon e Jodie Foster, il cui tema è l’estrema ineguaglianza.
Racconta di un mondo, tra circa centoquaranta anni, nel quale tutto è andato
storto. O bene, secondo i punti di vista.
Precisamente è andato
storto per una decina di miliardi di persone e benissimo per qualche migliaia.
Nel mondo di
Elysium pochissimi ricchi (circa uno su un milione) vive in una fortezza,
assistito da robot e solerti funzionari e tecnici, mentre gli altri (in pratica
tutti) sopravvivono a stento e muoiono in immensi slums e baraccopoli, anche
quando sono verticali grattacieli (il film inventa il grattacielo-baraccopoli
in una delle prime scene), assistiti in fatiscenti ed affannati ospedali,
irreggimentati (i pochi che lavorano) in fabbriche-lager dalle inumane
condizioni di lavoro, sorvegliati da robot-poliziotti e robot-sorveglianti a
“tolleranza zero”.
La storia parte con un
lungo piano-sequenza nel quale si vedono case di quella che sembra una
periferia brasiliana, o messicana, un canale, seguito da una immensa discarica
a cielo aperto subito dopo la quale c’è un altro quartiere di piccole case
affastellate, semispontanee, degradate. Poi si apre su quello che sembra una
periferia di una immensa città, andando verso il centro si vede che è una città
con un centro fatto da grattacieli, in effetti è Los Angeles nel 2154. In sovraimpressione
ci spiegano che “Verso la fine del XXI secolo la terra era malata, inquinata ed
estremamente sovraffollata”, quindi “Gli abitanti più ricchi del pianeta
fuggirono dal pianeta per conservare il proprio standard di vita”.
La stazione
orbitante di Elysium è quanto di più lontano si possa immaginare dalla città.
Si tratta, in effetti di una tipica campagna residenziale suburbana a bassa densità,
con ville isolate, piscine, piccoli giardini e parchi.
Il tema di
questo a suo modo coraggioso film è dunque quella che il grande ginevrino
chiamava la “seconda forma” di ineguaglianza, “che si può chiamare ineguaglianza morale o politica, perché dipende da
una specie di convenzione, ed è stabilita o almeno autorizzata dal consenso
degli uomini. Questa consiste nei diversi privilegi di cui alcuni godono a
scapito di altri, come di essere più ricchi, più onorati, più potenti di loro,
o anche di farsi obbedire” (Rousseau, idem).
Ci sono molti
modi di guardarlo: come una storia di
azione (il “buono” contro il “cattivo” dal nome tedesco), come una storia di amore (il ragazzo
traviato che cerca di riprendersi e viene richiamato all’umanità –sino al
massimo sacrificio- dall’amore della sua vita), come una storia morale (lo scontro tra il senso per la vita e l’uguaglianza,
l’altruismo infine, dei poveri e vittimizzati “latinos” –persino dei
contrabbandieri di speranza-, contro il cinismo degli industriali dal nome
americano e dei funzionari e politici dal nome francese), come una storia di sacrificio e riscatto (il protagonista davanti
alla morte capisce, infine, il senso della favola dell’ippopotamo altruista che
gli racconta la bambina, e salva il mondo a spese della vita), come una storia di liberazione (in
primis dal “consenso degli uomini”, espresso all’inizio del film dalla suora
che dice a Damon bambino che nel mondo c’è un posto per tutti e <bisogna
accettarlo>).
Tutti hanno a
che fare con il film (è ovviamente uno dei principi di costruzione di un
prodotto come questo); a me piace
pensare che sia un monito.
“Il primo che,
recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: questo
è mio, e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore
della società civile”. Jean-Jacques Rousseau,
Parte Seconda.
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