Una palude è piena di vita. Piccoli
insetti strisciano nel limo, cibandosi di microscopici vermi e di larve,
rettili di varie dimensioni contendono a piccoli mammiferi l’abbondante cibo,
branchi di erbivori circondano l’area e sfruttano i fertilissimi terreni
asciutti, una vegetazione rigogliosa è presente ovunque, uccelli trovano aree
di nidificazione e grandi rapaci occasioni favorevoli. L’acqua è ovunque.
Invece una bonifica
è piena di morte, per moltissimi dei vecchi abitanti, e di disciplina per le
poche specie, vegetali ed animali, che restano perché “utili”. Tra le specie
animali disciplinate, c’è la nostra. Che è autore e vittima del processo.
Un interessante paper
di Alberto Bagnai, sul sito Asimmetrie
(dell’omonima Associazione), dal nome <Un
external compact per rilanciare l’Europa>, mi fa pensare a questa
metafora che avevo già presentato nel post
<Transizioni: dalle zone umide alle pianure irrigue. Logica dell’austerità e
tecnologia>. Del resto lo stesso Bagnai, in <Il teorema della piscina> (ora qui)
stigmatizza più che giustamente la logica di chi, per costringere qualcuno (i
lavoratori ed i sindacati essenzialmente) a imparare a nuotare nel mare della
mondializzazione, per il suo bene, gli arriva alle spalle e lo butta in
piscina. Poi se affoga pazienza.
Il “rilevante
problema politico” come ebbe a dire Giorgio Napolitano, nel suo discorso
del 13 dicembre 1978 contro lo Sme, che è posto nella decisione di inibire
l’effetto di cambio è se questa serva allo scopo di “un sostanziale
riequilibrio all’interno della Comunità Europea”, o piuttosto a “sortire
l’effetto contrario”; cioè, “se il nuovo sistema monetario debba contribuire a
garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli della Comunità, delle
economie europee e dell’economia mondiale, o debba servire a garantire il paese
a moneta più forte, ferma restando la politica non espansiva della Germania
federale e spingendo un paese come l’Italia alla deflazione”.
Immaginiamo la
deflazione come la sottrazione dell’acqua che naturalmente sgorga dalla falda
sotterranea in un’area umida (cioè in una palude) e la sua concentrazione in
piscine impermeabili. Qualche animale piccolo morirà, o dovrà emigrare, ma si
libererà una bella pianura da irrigare nella quale coltivare una sola specie
vegetale altamente utile da parte di mammiferi superiori ben disciplinati.
Questa stessa
storia ce la racconta Bagnai con i suoi raffinati strumenti, messi a
disposizione dalla sua bella e utilissima disciplina: la frettolosa bonifica,
condotta con gli strumenti dell’Unione Monetaria, è stato un gigantesco
esperimento di ingegneria sociale. La creazione di un’enorme macchina per
produrre a vantaggio dei padroni della piscina. Cioè dei mercati finanziari e
della più completa valorizzazione del capitale (tuttora eufemisticamente
nascosto nella dizione più accettabile di “risparmio”).
Purtroppo, come
mettono in evidenza in tanti (almeno a partire dal discorso di Victor
Constacio) è ormai chiaro che il mercato finanziario ha fallito proprio dal
lato in cui meno si aspettava: dal lato
dell’offerta. Il meccanismo è semplicissimo: se in un mercato unico, nel
quale sono rimosse tutte le barriere commerciali dirette (dazi) ed indirette
(norme e standard), si liberano completamente anche i capitali si creeranno numerose distorsioni decisive,
esaltate dalla neutralizzazione del cambio. Esso, infatti, come mostra
splendidamente Bagnai, otterrebbe almeno l’effetto di dissuasione dai
comportamenti aggressivi (di cui parliamo tra poco), di segnale agli operatori
ed alla politica di uno squilibrio in atto, e di compensazione degli impatti
negativi della bilancia commerciale (cioè degli squilibri competitivi).
Invece, con le
parole di Bagnai: la moneta unica “facilita la mobilità dei capitali, favorendo
il funzionamento del mercato finanziario. Inoltre, impedendo riallineamenti del
cambio nominale, impone un vincolo esterno ai governi, e agli operatori privati
[obbligandoli, in effetti, a nuotare nella piscina dei capitali liberi e
flessibili] cioè (inducendoli ad accettare riforme strutturali che incrementino
la loro produttività, in particolare attraverso la flessibilità del mercato del
lavoro)”.
Purtroppo quel
che si “guadagna” da una parte si perde dall’altra, e il vincolo per alcuni
(chi deve vendere lavoro e quindi accettarne un prezzo) diventa libertà per
altri. Ma la libertà, la facilità di prestare e di ricevere prestiti, genera
maggiori debiti. Non sembri strano, è del tutto ovvio, si tratta della stessa cosa con nomi diversi.
I prestiti, cioè
i risparmi (ovvero i capitali), allocati (cioè usati) in modo facile, per un
elementare meccanismo di utilità marginale noto da decenni, hanno generato nei
paesi “forti” un deflusso, e quindi deficit di investimenti, debolezza di
domanda interna e nei paesi “deboli” un afflusso anomalo (dato che
l’investimento era marginalmente più produttivo, per il minore sviluppo locale,
ma il rischio era stato nascosto), investimenti inefficienti e domanda anomala.
Gli investimenti erano quindi scarsi al nord e mal allocati al sud. Ciò a causa
di un altro meccanismo evidenziato da Bagnai (che cita copiosa letteratura
economica): il cambio fissato su valori medi europei (e dunque troppo alto per
i deboli e troppo basso per i forti, per semplice matematica) determinava
sofferenza nei settori “tradable” tra i “deboli” e quindi tendeva a orientare
gli investimenti in quelli non produttivi. Con il tempo questo meccanismo crea
“bolle” (ad esempio immobiliari) e abbassa la produttività complessiva, perché l’occupazione
si sposta nei settori meno produttivi.
Si tratta di un
disastro in cui, come giustamente ricorda, “si perde tutti”.
D’altra parte se
c’era un vantaggio nell’Unione Europea non era di alzare la competitività verso
l’esterno (come stranamente sembrano credere tutti), ma di avere un grande mercato
interno che protegge dalla possibilità che shock esterni distruggano le
industrie. Infatti
se un’economia è “esteroflessa” è anche “fragile”. Bagnai cita in proposito Alesina
(1997), secondo il quale lo scambio sarebbe tra flessibilità (che si perde) e
autonomia (dalla domanda esterna).
Esattamente il
contrario di quel che è successo. Abbiamo perso la flessibilità ed anche la
domanda interna. Cerchiamo di diventare disperatamente più esteroflessi.
Ma chi ci può
riuscire? Qui c’è uno dei passaggi, per me, più convincenti: ci riesce chi può
deflazionare di più il mercato interno senza farlo morire (in quel caso avrebbe
rivolte ed instabilità politica). Cioè chi parte da una maggiore ricchezza
pubblica e privata (dei lavoratori). Chi riesce a rendere flessibile verso il
basso il cumulo generale dei salari; ma “per sfruttare questo strumento occorre
che ci sia spazio sufficiente, occorre cioè che i livelli retributivi siano
sufficientemente elevati da poter essere ridotti senza condannare i lavoratori
all’indigenza”.
Bloccare il
saldo pubblico (cioè le imposte, T, meno i consumi collettivi, G, cioè la
spesa), portandolo a zero, come dalla norma improvvidamente approvata in Europa
(e rifiutata, sia pure per pochi voti dalla sinistra americana più o meno negli
stessi anni), significa allora che necessariamente la ricchezza privata
(risparmi, S, meno investimenti, I,) sarà positiva solo se le importazioni M saranno
minori delle esportazioni X. Questa semplice identità (nel linguaggio
matematico caro agli economisti: (S-I)+(T-G)+(M-X)=0 ) è la formula della
guerra commerciale di tutti contro tutti. Poiché le esportazioni di uno sono le
importazioni di un altro, semplicemente chi perde si impoverisce.
Questa guerra è
il contrario dell’Unione. Il che è elementare
quanto brutale.
Ma è ben
nascosto dall’idea che la “palude” sia male, che il bel campo irriguo piatto e
verde, esteso a perdita d’occhio sia bene. Sia efficiente, potente, chiaro,
visibile. Sia il luogo della virtù contro il vizio.
Quale la
soluzione? Farla finita con le retoriche buoni/cattivi, capire che, come dice
esemplarmente Rodrik:
-
Gli “esteroflessi”
(secondo un neologismo che non usa), basano una crescita anche molto forte su
una forte capacità di esportazione, a danno del mercato interno. In altre
parole, con appropriate politiche pubbliche comprimono il mercato interno, la
capacità di spesa per consumi della popolazione e d’investimento dello Stato e
delle imprese, e cercano di ottenere un forte surplus delle partite correnti,
in modo da avere un flusso positivo finanziario. Le industrie rivolte
all’esportazione sono favorite, quelle rivolte alla produzione di beni e
servizi interni sfavorite. L’economia si sbilancia e diventa dipendente dalla
domanda esterna. Le ragioni possono essere diverse: prevalenza delle forze
interessate (esempio della grande industria nella governance di settore e nella
influenza sul governo); necessità di rientrare da indebitamento pubblico e
privato, o di finanziare spese di ristrutturazione (come nel caso tedesco
durante l’unificazione); timore per il futuro (ad esempio, per l’invecchiamento
della popolazione); semplice abitudine o incomprensione delle
controindicazioni;
-
Gli “instabili” (ancora
un termine non utilizzato dall’autore), che basano al contrario la crescita
sulla spinta al consumo interno tramite indebitamento. In questo caso si tratta
di una politica instabile finanziariamente, a rischio crollo se il flusso
finanziario si interrompe o inverte (come è successo negli anni novanta ai
paesi in via di convergenza dell’Est o di recente a Spagna e Irlanda). Le
ragioni possono essere la cura all’instabilità politica, la ricerca del
consenso (cioè lo sforzo di “comprarlo” come dice Streeck), oppure l’utilizzo
di flussi derivanti dallo sfruttamento di materie prime (come nel caso dei
paesi arabi e di alcuni paesi del sudamerica negli anni novanta). Chiaramente
questa politica è costantemente a rischio di incontrare il suo limite e di
crollare;
-
I moderati, che
crescono poco ed in modo poco vistoso, ma costantemente. Non hanno né
un’economia dipendente dall’estero per vendere i beni né per indebitarsi.
Questi paesi (Austria, Canada, Filippine, Lesotho e Uruguay, nell’elenco di
Rodrik) sono i veri eroi.
Passare da
aspiranti imperialisti (un gioco antico per l’Europa) a “veri eroi” quindi rende
necessario concentrarsi sul medio-lungo termine e non sul breve, sul saldo
estero interno, anziché su quello pubblico nazionale. E’ indispensabile anche
lasciare la rigidità di cambio, perché la flessibilità ripristinata metta sotto
controllo i flussi finanziari (con l’opportuna regolazione), punisca gli
esteroflessi irresponsabili ed egoisti, riduca il rischio morale di chi presta
senza subirne il prezzo (che deve essere perdere l’investimento).
Bisogna insomma rimettere
il mondo sui suoi piedi.
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