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lunedì 26 maggio 2014

Robert A. Dahl, “Efficienza dell’ordinamento ‘versus’ effettività della cittadinanza: un dilemma della democrazia”


Con tutta calma, essendo un superamento del sistema nel quale siamo più una maratona che una gara di scatto, riprendiamo la rilettura e riflessione sui nodi della situazione. Quel che mi pare sia utile tentare è una lettura multistrato che insegua le provenienze delle varie pratiche, idee e assetti che si intrecciano nel presente, dandogli quella robustezza a tutto tondo nella quale siamo immersi ormai da anni.

Le elezioni europee sono appena passate, e la sua analisi (sulla quale torneremo a lungo) prenderà il dovuto tempo. Quel che tuttavia mi sembra continui a prendere peso, non contraddetto in nessuno dei risultati del voto, è il desiderio di essere presenti nelle scelte, e di averci a che fare; la volontà che i cittadini europei esprimono di esserci nelle scelte. Dunque proveremo nei prossimi giorni ad accumulare qualche lettura che ci consenta di sfiorare lo scrigno di questo enorme problema: la cittadinanza nel tempo della globalizzazione trionfante.
Robert Alan Dahl fu un grandissimo politologo americano, nato nel 1915 e morto nel 2014, molto noto per la sua tesi della <poliarchia>, in base alla quale i sistemi democratici sono caratterizzati nella loro normale fisiologia dalla competizione, regolata dalle norme, tra centri di potere e di influenza. In questo intervento, del 1993, contenuto nel libro La democrazia alla fine del secolo, Laterza 1994, Dahl si interroga sulla svolta determinata dal Trattato di Maastricht ed in particolare sulle opposizioni (delle quali loda particolarmente quella danese, che nel ’92 lo boccia in un combattuto referendum, che ripetuto nel 1993 dà esito opposto) improvvisamente mobilitate nel processo di ratifica. Quel che Maastricht ha proposto è un “dilemma della democrazia”: conservare l’autorità di una piccola unità democratica, all’interno della quale i cittadini possono influenzare più efficacemente la condotta del loro governo, anche se esso non è forse in grado di gestire in modo efficace alcune importanti materie. Oppure, conferire maggiori poteri ad una unità politica più ampia, in grado di gestirle in modo più efficace, perdendo però capacità di influenzarla.
Un simile dilemma, ricorda Dahl dall’alto della secolare esperienza americana, non è specifico dell’Europa, ma si genera ogni qual volta uno stato democratico è sottoposto ad influenze esterne che non riesce a controllare. Un dilemma che è vecchio di 2.500 anni.
Nel contesto della globalizzazione, in particolare in quello della piena mobilità dei capitali e delle merci, e dunque (questo è importante, e rende non semplice la soluzione) dell’avvenuta e crescente integrazione dei sistemi economici, produttivi e sociali, un’azione solo nazionale rischia di essere vanificata dalle reazioni che attraversano i porosi confini statuali. Un esempio notissimo è la cosiddetta “fuga dei capitali”, ma anche i processi di esternalizzazione transnazionale che pongono sotto pressioni tutte le politiche distributive e quelle industriali.

Alzandosi, alquanto sopra le nuvole, Dahl individua a questo punto tre “grandi trasformazioni” della democrazia:
-          la prima si ha quando le strutture statuali non democratiche, oligarchiche o aristocratiche, nella Grecia del V sec. a.c. transitano, nelle condizioni di piccole unità politiche indipendenti, nella democrazia antica;
-          la seconda si ha quando le piccole città-stato, con dieci-ventimila cittadini votanti, ed assemblee al massimo di 2-3.000 partecipanti, nelle quali la democrazia si manifestava con forme di coordinamento faccia-a-faccia e voto diretto, viene ad allargarsi nel processo di formazione dello Stato Nazionale, e lo fa introducendo l’istituto radicalmente diverso della rappresentanza;
-          la terza è in corso, lo sviluppo degli ordinamenti transnazionali riduce l’autonomia politica, economica, sociale culturale degli Stati nazionali.

Questa terza trasformazione, che procede dal dopoguerra ma accelera da qualche decennio, ed in particolare nel nuovo millennio, è causata par Dahl da un fenomeno tutto sommato molto semplice: “i confini di un paese, persino quelli di un paese grande come gli Stati uniti, sono divenuti molto più stretti dei confini delle decisioni che incidono in modo significativo sugli interessi fondamentali dei suoi cittadini” (D., p.10) Si tratta della dipendenza della vita economica, dell’ambiente, della sicurezza da azioni e decisioni prese all’esterno dei confini, come gli operatori finanziari.
Ciò che sta succedendo è che “i governi degli Stati stanno diventando governi locali”. Dunque avremo, secondo il politologo americano, nuove istituzioni; anzi un’enorme varietà di istituzioni che risponderanno ad una delega di poteri (di fatto o di diritto) a funzionari non soggetti ad elezioni.

Prima di considerare questo fenomeno come una perdita secca Dahl ci fa riflettere su un paradosso particolare: se è vero che dimensioni più piccole determinano un maggiore controllo del delegato da parte del delegante, è però possibile che queste decisioni così vicine non contino molto. In un sistema fortemente interconnesso e transnazionale le cose che influenzano durevolmente la vita delle persone e la nostra esistenza sono, infatti, al di fuori della possibilità di controllo nazionale.
Organismi alla stessa dimensione dei problemi possono allora influenzarli, ma i cittadini hanno grosse difficoltà ad avere reale potere sui funzionari non eletti che agiscono su delega indiretta in tali organismi.

La cosa non ha soluzioni semplici, anche se fossero create istituzioni democratiche alla scala idonea, sottoposte all’istituto della delega democratica (cioè alla formazione di Parlamenti Sovrani a scala di macrostati), come all’epoca del testo era per l’Unione Europea (che chiama, infatti “Comunità”), per l’autore americano sarebbe inevitabile violare il principio fondamentale di eguaglianza del voto per effetto della natura federale del progetto. Come succede negli Stati Uniti (dove ogni Stato da due senatori, anche se uno è grandissimo ed il secondo piccolo) o all’ONU (dove ogni stati, sia un’isola del Pacifico o gli Stati Uniti, ha un delegato).
Inoltre, e questo è estremamente importante, la comprensione dei temi e dei problemi (che Dahl qualifica come “illuminata”), che è essenziale per il funzionamento della democrazia come sistema decisionale razionale, diventa tanto più difficile quanto più i problemi si allargano, e l’area di discussione si amplia.
Questo criterio rende non giustificabile la soppressione (o la non somministrazione) dell’informazione; l’ineguaglianza di accesso alle informazioni; le limitazioni alla discussione. Però, e questo è un dilemma non semplice, l’ampiezza e la concatenazione reciproca dei temi di decisione (basti pensare alle complesse vicende dell’Euro) rende al contempo estremamente arduo gestire in sistemi transnazionali, con il suo carico di linguaggi, tradizioni e culture, interessi divergenti, la discussione pubblica. Non è probabilmente un caso che nelle elezioni europee in genere si parli di tutto tranne che di Europa.
Questo è un secondo paradosso di difficile soluzione.

Nel 1993 Dahl accredita comunque la Comunità Europea del “seme di una crescita transnazionale” che non vede in alcun altro luogo del mondo. La vede come una comunità politica transnazionale in via di formazione, e accredita tale processo della possibilità che “una specie di poliarchia transazionale potrebbe gradualmente venire in esistenza” (p.21). Tuttavia anche in questo caso il Parlamento Europeo non sarà mai “responsivo” nei confronti dei cittadini della Comunità come lo sono gli esistenti Parlamenti nazionali.

Ciò che resta più probabile, nel mondo ma anche nella CEE, è quindi che l’estensione dell’idea democratica oltre lo Stato Nazionale “porti ad un <governo dei guardiani> di fatto”. Una prospettiva agghiacciante alla quale il politologo americano sa solo opporre l’auspicio che l’equilibrio si trovi rafforzando il controllo democratico alla scala nazionale. In questo modo, sembra di capire, una maggiore responsività dei governi nazionali nei confronti dei cittadini porterà in via indiretta ad una maggiore responsabilità dei “guardiani”.

Per questi motivi, e perché i “guardiani” rispondano ai cittadini, per Dahl bene hanno fatto i cittadini Danesi a rigettare la prima versione del Trattato di Maastricht, costringendo ad una riconsiderazione e rinegoziazione che ha ampliato l’autonomia danese in alcune materie e soprattutto ha riaffermato il principio del controllo del proprio destino.


Sfortunatamente noi non facemmo altrettanto, il seme di quella mancata discussione lo portiamo ancora oggi con la povertà del dibattito europeo (e l’incomprensione praticamente totale dei meccanismi, ma anche dei semplici fatti, all’opera in Europa). 

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