Con tutta calma,
essendo un superamento del sistema nel quale siamo più una maratona che una
gara di scatto, riprendiamo la rilettura e riflessione sui nodi della
situazione. Quel che mi pare sia utile tentare è una lettura multistrato che
insegua le provenienze delle varie pratiche, idee e assetti che si intrecciano
nel presente, dandogli quella robustezza a tutto tondo nella quale siamo immersi
ormai da anni.
Le elezioni
europee sono appena passate, e la sua analisi (sulla quale torneremo a lungo)
prenderà il dovuto tempo. Quel che tuttavia mi sembra continui a prendere peso,
non contraddetto in nessuno dei risultati del voto, è il desiderio di essere
presenti nelle scelte, e di averci a che fare; la volontà che i cittadini
europei esprimono di esserci nelle scelte. Dunque proveremo nei prossimi giorni
ad accumulare qualche lettura che ci consenta di sfiorare lo scrigno di questo
enorme problema: la cittadinanza nel
tempo della globalizzazione trionfante.
Robert Alan Dahl
fu un grandissimo politologo americano, nato nel 1915 e morto nel 2014, molto
noto per la sua tesi della <poliarchia>, in base alla quale i sistemi
democratici sono caratterizzati nella loro normale fisiologia dalla
competizione, regolata dalle norme, tra centri di potere e di influenza. In questo intervento, del 1993, contenuto
nel libro La democrazia alla fine del
secolo, Laterza 1994, Dahl si interroga sulla svolta determinata dal Trattato di Maastricht ed in particolare
sulle opposizioni (delle quali loda particolarmente quella danese, che nel ’92
lo boccia in un combattuto referendum, che ripetuto nel 1993 dà esito opposto)
improvvisamente mobilitate nel processo di ratifica. Quel che Maastricht ha
proposto è un “dilemma della democrazia”: conservare l’autorità di una piccola
unità democratica, all’interno della quale i cittadini possono influenzare più
efficacemente la condotta del loro governo, anche se esso non è forse in grado
di gestire in modo efficace alcune importanti materie. Oppure, conferire
maggiori poteri ad una unità politica più ampia, in grado di gestirle in modo
più efficace, perdendo però capacità di influenzarla.
Un simile
dilemma, ricorda Dahl dall’alto della secolare esperienza americana, non è
specifico dell’Europa, ma si genera ogni qual volta uno stato democratico è
sottoposto ad influenze esterne che non riesce a controllare. Un dilemma che è
vecchio di 2.500 anni.
Nel contesto
della globalizzazione, in particolare in quello della piena mobilità dei
capitali e delle merci, e dunque (questo è importante, e rende non semplice la
soluzione) dell’avvenuta e crescente integrazione dei sistemi economici,
produttivi e sociali, un’azione solo nazionale rischia di essere vanificata
dalle reazioni che attraversano i porosi confini statuali. Un esempio notissimo
è la cosiddetta “fuga dei capitali”, ma anche i processi di esternalizzazione
transnazionale che pongono sotto pressioni tutte le politiche distributive e
quelle industriali.
Alzandosi,
alquanto sopra le nuvole, Dahl individua a questo punto tre “grandi
trasformazioni” della democrazia:
-
la prima si
ha quando le strutture statuali non democratiche, oligarchiche o
aristocratiche, nella Grecia del V sec. a.c. transitano, nelle condizioni di
piccole unità politiche indipendenti, nella democrazia antica;
-
la seconda si
ha quando le piccole città-stato, con dieci-ventimila cittadini votanti, ed
assemblee al massimo di 2-3.000 partecipanti, nelle quali la democrazia si
manifestava con forme di coordinamento faccia-a-faccia e voto diretto, viene ad
allargarsi nel processo di formazione dello Stato Nazionale, e lo fa
introducendo l’istituto radicalmente diverso della rappresentanza;
-
la terza è in
corso, lo sviluppo degli ordinamenti transnazionali riduce l’autonomia
politica, economica, sociale culturale degli Stati nazionali.
Questa terza trasformazione, che procede dal
dopoguerra ma accelera da qualche decennio, ed in particolare nel nuovo
millennio, è causata par Dahl da un fenomeno tutto sommato molto semplice: “i
confini di un paese, persino quelli di un paese grande come gli Stati uniti,
sono divenuti molto più stretti dei confini delle decisioni che incidono in
modo significativo sugli interessi fondamentali dei suoi cittadini” (D., p.10)
Si tratta della dipendenza della vita economica, dell’ambiente, della sicurezza
da azioni e decisioni prese all’esterno dei confini, come gli operatori
finanziari.
Ciò che sta
succedendo è che “i governi degli Stati stanno diventando governi locali”.
Dunque avremo, secondo il politologo americano, nuove istituzioni; anzi un’enorme
varietà di istituzioni che risponderanno ad una delega di poteri (di fatto o di
diritto) a funzionari non soggetti ad elezioni.
Prima di
considerare questo fenomeno come una perdita secca Dahl ci fa riflettere su un
paradosso particolare: se è vero che dimensioni più piccole determinano un
maggiore controllo del delegato da parte del delegante, è però possibile che
queste decisioni così vicine non contino
molto. In un sistema fortemente interconnesso e transnazionale le cose che
influenzano durevolmente la vita delle persone e la nostra esistenza sono, infatti,
al di fuori della possibilità di controllo nazionale.
Organismi alla
stessa dimensione dei problemi possono allora influenzarli, ma i cittadini
hanno grosse difficoltà ad avere reale potere sui funzionari non eletti che
agiscono su delega indiretta in tali organismi.
La cosa non ha
soluzioni semplici, anche se fossero create istituzioni democratiche alla scala
idonea, sottoposte all’istituto della delega democratica (cioè alla formazione
di Parlamenti Sovrani a scala di macrostati), come all’epoca del testo era per
l’Unione Europea (che chiama, infatti “Comunità”), per l’autore americano
sarebbe inevitabile violare il principio fondamentale di eguaglianza del voto
per effetto della natura federale del progetto. Come succede negli Stati Uniti
(dove ogni Stato da due senatori, anche se uno è grandissimo ed il secondo
piccolo) o all’ONU (dove ogni stati, sia un’isola del Pacifico o gli Stati
Uniti, ha un delegato).
Inoltre, e
questo è estremamente importante, la comprensione dei temi e dei problemi (che
Dahl qualifica come “illuminata”), che è essenziale per il funzionamento della
democrazia come sistema decisionale razionale, diventa tanto più difficile
quanto più i problemi si allargano, e l’area di discussione si amplia.
Questo criterio
rende non giustificabile la soppressione (o la non somministrazione)
dell’informazione; l’ineguaglianza di accesso alle informazioni; le limitazioni
alla discussione. Però, e questo è un dilemma non semplice, l’ampiezza e la
concatenazione reciproca dei temi di decisione (basti pensare alle complesse
vicende dell’Euro) rende al contempo estremamente arduo gestire in sistemi
transnazionali, con il suo carico di linguaggi, tradizioni e culture, interessi
divergenti, la discussione pubblica. Non è probabilmente un caso che nelle
elezioni europee in genere si parli di tutto tranne che di Europa.
Questo è un
secondo paradosso di difficile soluzione.
Nel 1993 Dahl
accredita comunque la
Comunità Europea del “seme di una crescita transnazionale”
che non vede in alcun altro luogo del mondo. La vede come una comunità politica
transnazionale in via di formazione, e accredita tale processo della
possibilità che “una specie di poliarchia transazionale potrebbe gradualmente
venire in esistenza” (p.21). Tuttavia anche in questo caso il Parlamento
Europeo non sarà mai “responsivo” nei confronti dei cittadini della Comunità
come lo sono gli esistenti Parlamenti nazionali.
Ciò che resta
più probabile, nel mondo ma anche nella CEE, è quindi che l’estensione
dell’idea democratica oltre lo Stato Nazionale “porti ad un <governo dei guardiani> di fatto”. Una
prospettiva agghiacciante alla quale
il politologo americano sa solo opporre l’auspicio che l’equilibrio si trovi
rafforzando il controllo democratico alla scala nazionale. In questo modo,
sembra di capire, una maggiore responsività dei governi nazionali nei confronti
dei cittadini porterà in via indiretta ad una maggiore responsabilità dei
“guardiani”.
Per questi
motivi, e perché i “guardiani” rispondano ai cittadini, per Dahl bene hanno
fatto i cittadini Danesi a rigettare la prima versione del Trattato di
Maastricht, costringendo ad una riconsiderazione e rinegoziazione che ha
ampliato l’autonomia danese in alcune materie e soprattutto ha riaffermato il
principio del controllo del proprio destino.
Sfortunatamente
noi non
facemmo altrettanto, il seme di quella mancata discussione lo portiamo
ancora oggi con la povertà del dibattito europeo (e l’incomprensione
praticamente totale dei meccanismi, ma anche dei semplici fatti, all’opera in
Europa).
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