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martedì 27 maggio 2014

La nave semi-egemone europea ed i suoi molti passeggeri.


Come si vede la “nave Euro” è da lungo tempo ferma nella bonaccia. Contribuisce a tenerla ferma una BCE, disegnata sul modello della Bundesbank e quindi vocata al rigore, alla “stabilità monetaria”, ostile ad ogni forma di espansione, anche quando i principali competitori lo fanno. Si tratta di una dottrina economica che ha le sue ragioni e la sua storia.
Ma da sola non mi pare spieghi perché un intero continente di 500 milioni di persone non riesca a scuotersi dalla trappola dell’austerità; malgrado si veda abbastanza bene che nelle condizioni contemporanee (e con le tensioni determinate sulla vita della grande maggioranza dei cittadini dalla competizione dei nuovi stili di produzione e dei concorrenti) questa scava come una talpa sotto le fondamenta della nostra società.


Certo, il nord Europa, con la sua forte interconnessione industriale e finanziaria ed i suoi “clientes” orientali tiene il freno a mano ben alzato, nel timore che il sud “spendaccione” chieda l’accesso ai suoi forzieri.
Certo, questa retorica molto pagante sul piano elettorale (e alla radice del successo della Merkel), e altrettanto consolante sul piano identitario, è un fondamentale elemento di stabilità in primis nelle ineguali e competitive società del nord. Un poco come succedeva nel sud degli Stati Uniti prima della guerra di secessione, il senso di superiorità di gruppo verso un gruppo sottomesso contribuisce in modo decisivo a tenere insieme il primo, facendo dimenticare ai perdenti in esso la loro condizione (nel sud schiavista l’esistenza dei neri era fondamentale meccanismo di stabilità sociale, in quanto ogni bianco –anche se povero e sovrasfruttato- poteva comunque sentirsi parte di una classe superiore). Dunque la retorica del “sud cicala” e “pigro” è un insuperabile mezzo di controllo sociale in primis verso le vittime del modello mercantilista (gli “hartzati” si potrebbe dire).
Certo, la struttura dell’equazione economica nelle condizioni della globalizzazione è cambiata, e continua a farlo. L’interconnessione e i flussi di capitali, merci, in misura minore uomini, domina i labili confini statali e tiene sotto ricatto i bilanci fiscali nazionali. Nessuno può più immaginare, fermo il sistema di regole (o meglio il sistema di libertà esistente), di fare il keynesismo in un solo paese, in conseguenza nessuno dispone della totalità delle leve decisionali a disposizione.
Certo, l’ineguaglianza (con buona pace per tutte le polemiche sul libro di Piketty) è cresciuta e con essa il potere delle “classi dirigenti” che sono in grado –internazionalizzandosi- di liberarsi del controllo democratico, rimasto piantato a terra. Uno degli effetti più forti è il controllo sui dibattiti e sull’opinione pubblica che impedisce di vedere come questo “frame” non sia un effetto naturale di una dinamica storica irresistibile (secondo una filosofia della storia che vorrebbe il mondo procedere verso una sempre maggiore unificazione), ma un progetto economico e sociale con potenti implicazioni politiche.
Certo, la stessa globalizzazione è solo una reazione complessa delle élite ad un insieme di problemi che, dal loro punto di vista, non trovavano soluzione entro il quadro nazionale. Tra questi la scarsità di occasioni di investimento, determinata da una caduta del saggio di profitto accettabile, per effetto di una distribuzione percepita come “iniqua” (cfr. Streeck). Tutti problemi, manifestati a livello macro dalla disoccupazione crescente e dalla tendenziale stagnazione (a sua volta effetto anche delle dinamiche demografiche e della debolezza della domanda interna), che cercano una soluzione a breve termine nella internazionalizzazione. Mi sembra si possa riassumere (anche se si tratta di dinamiche strettamente interconnesse nelle quali la direzione causale è complessa) che questa è soluzione perché crea insieme sbocchi ai capitali in cerca di remunerazione, abbassa il costo del lavoro sia nei luoghi di investimento (quindi di delocalizzazione industriale) sia in patria (per effetto dell’effetto “disciplinante” del ricatto sui lavoratori), importando le merci prodotte nei paesi in convergenza –dove costano meno anche a causa del dumping salariale, ambientale e sulla sicurezza- si innalza indirettamente anche il potere di acquisto in patria (deflazione importata), tenendo sotto controllo l’inflazione (e dunque salvaguardando, per questa via, i capitali). La bassa inflazione, alzando il tasso reale di remunerazione del capitale, rafforza enormemente il circuito.
Certo, il premio di tutto questo, per chi non è in grado di “alzarsi” sul suolo e vivere nel “mondo dei flussi”, è la paura. L’insicurezza e l’abbandono alle proprie sole forze, l’incertezza sul futuro, man mano che tutti i baluardi eretti nel novecento contro l’incertezza del vivere crollano. Ormai ad ognuno viene raccontato che sono problemi suoi, che i fallimenti sono individuali, che c’è qualcosa di sbagliato in lui se non è utile, se il lavoro non è disponibile, se non è abbastanza flessibile, abbastanza disciplinato, abbastanza ragionevole. E’ la società che genera, dato il suo livello di sviluppo delle forze produttive e le modalità di produzione determinate dalle regole e dalle tecnologie, le occasioni messe a disposizione dell’individuo. Ma è quest’ultimo che, con le sue sole forze, deve conquistarle in competizione con ogni altro. E’ come a quel gioco che facevamo da bambini nel quale bisogna correre a sedersi quando finisce la musica; ma qui ci sono sedie al massimo per la metà dei danzanti. Non stupisce questo senso sottile di ansia che si respira nell’aria.

Ma tutto questo non mi pare spieghi abbastanza perché la “nave Euro” è ferma nella bonaccia (in effetti trattenendo anche la “nave Europa”).

Quale è l’ancora centrale? Perché l’atteggiamento egemone tedesco ottiene una tale accondiscendente disponibilità da parte degli altri paesi europei? Anche da quelli che hanno poco da guadagnare?
A me pare che la debolezza, l’afasia degli altri Stati, ipnotizzati dai fari della hybris centroeuropea sia spiegabile dal “progetto” che le élite europee, ad un certo punto, hanno iniziato (o ripreso) a sognare: affrancarsi dalla tutela degli Stati Uniti e diventare una potenza mondiale egemone.

Lo scambio che viene proposto alle élite europee (ed a tutti noi) dalla Germania è, in altre parole, una versione macro dello scambio interno offerto agli “hartizzati”: accettare di essere soci di minoranza in una grande società egemone mondiale. Cioè di essere una “marca di confine” nell’impero centrale che recupera, finalmente, il suo posto nel mondo perso con la sconfitta del 1918. Un posto nel mondo in sostanza concepito nel gioco tradizionale dell’imperialismo europeo ma il cui avversario vero è chiaramente l’America. Emerge continuamente al fondo del discorso sull’unificazione (che sarebbe fatta in ultima analisi “per contare”). Ad esempio lo abbiamo visto nel dibattito di Maastricht nella testimonianza del Ministro degli Esteri dell’epoca, Colombo.

Questa in fondo strana storia (l’Europa che cerca, per via di integrazione, di recuperare un’autonomia di potenza incrinata dalle stesse politiche di liberalizzazione contemporaneamente promosse) parte già dal secondo dopoguerra sotto il segno ambiguo di una Comunità del Carbone e dell’Acciaio promossa dagli Americani (Jean Monnet suo primo Presidente, ad esempio, era il funzionario e politico con una biografia fortemente anglofona, funzionario della Società delle Nazioni negli anni venti, delegato inglese presso il governo americano nel 1940, incaricato dal generale De Gaulle di gestire il Piano Marshall in Europa, coautore della dichiarazione Schuman) in chiave contemporaneamente anti-imperi centrali e anti-sovietica. Questo progetto, il cui presupposto logico e di potenza è la presenza della Nato (quindi la totale dipendenza militare), ad un certo punto “torce” verso un sogno di autonomia implicitamente ostile agli egemoni oltremanica.

La lunga umiliazione di Versailles (verso la quale profeticamente avvertiva Keynes) sembra riemergere dalle tombe polverose al passaggio cruciale della “unificazione” (meglio sarebbe dire “annessione”) tedesca del 1989-91. Lo stesso Colombo racconta la cosa in chiave antiamericana nella sua replica finale, nel Parlamento Italiano, al dibattito sulla ratifica del Trattato di Maastricht: i due anni della dissoluzione dell’impero sovietico ri-aprono una questione su chi debba essere egemone nell’est Europa, gli USA o l’Unione Europea (in realtà o la Germania che usa la UE come strumento). In questo contesto la Unione Europea (che nasce con Maastricht) è lo strumento della rivalsa, cioè dell’autonomia riconquistata verso la tutela americana.

L’idea sarebbe, insomma, che “possiamo contare solo insieme”.

Ma, c’è qualche problema:
     -          La dottrina dell’egemone oltre oceano è “si comanda uno alla volta”, e ora tocca a me. In altre parole, nessuno può essere egemone indipendente in una macroregione; altrimenti diventerebbe automaticamente un rivale. Questa dottrina è rivolta verso la Russia, verso la Cina, ma principalmente (a ben vedere) è rivolta verso il potenziale rivale più temibile di tutti: l’Europa. Né questo atteggiamento è nuovo, in effetti la ragione dello scontro cinquantennale tra gli “imperi centrali” e l’Inghilterra (poi con Inghilterra e USA) è stata questa volontà tedesca ad affermare una indipendente potenza. Il patto che la Germania Guglielmina (il compromesso) all’Inghilterra (con la quale cerca fino all’ultimo di evitare la guerra) è semplicemente questo: io egemonizzo l’Europa continentale, tu il Commonwealth.
     -          L’indipendenza dal potere egemone americano presuppone un atteggiamento sfidante, in un quadro di ostilità trattenuta, per il quale tutto dice che non siamo pronti. In primis dovremmo avere un esercito (non a caso il nodo più difficile da sciogliere da decenni) in grado di guadagnare un equilibrio con quello USA. A meno di pensare di essere ad un ballo di gala (quando siamo, invece, nel mondo vero) il nazionalismo muscolare europeo che traspare da molte dichiarazioni ha le gambe molto corte.
     -          Il wishful thinking che sembra aver ipnotizzato molte élite europee, e che viene abilmente strumentalizzato molto più prosaicamente da altre, meriterebbe di essere portato in luce e discusso tematicamente.

Il suo costo, in termini di riduzione della influenza dei cittadini (da ultimo abbiamo visto il punto di vista di Dahl nel 1993), andrebbe soppesato ed eventualmente bilanciato.

Nella discussione, certo, sorgerebbe almeno una domanda: che ha a che fare con tutto ciò la totale liberalizzazione dei flussi di capitali e merci, essenziale strumento del dominio USA sul mondo? Necessario complemento del suo dominio militare? Sin dalla rivoluzione industriale (in quel caso attraverso la potenza egemone inglese nella prima globalizzazione 1880-929) la liberalizzazione dei commerci è lo strumento per disarmare i mercati più deboli e conquistarli. Uno strumento che necessita del complemento della potenza (ovviamente contribuendo ad alimentarla).
Lo dico diversamente: se il progetto è di creare una potenza egemone indipendente nel continente (progetto che non a caso vede l’Inghilterra in via di sganciamento), dove sono le barriere protettive ai confini?
Il mercantilismo (la creazione e coltivazione di una economia esteroflessa, basata sulla cattura del mercato interno altrui) è un gioco pericoloso ed instabile, intrinsecamente imperialista, che andrebbe giocato in modo consapevole, altrimenti è solo lo strumento di alcuni contro altri (dentro e fuori i confini). I cittadini europei dovrebbero essere consultati. Ad essi andrebbe chiesto se vogliono cercare di promuovere un gioco cooperativo (entro e fuori i confini) o competitivo (e contro chi).


Probabilmente questa tornata elettorale (nella quale in tutta Europa il dibattito forse per la prima volta si è visto) è l’inizio di un nuovo percorso. Sarebbe bene fosse più consapevole e più realistico.


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