Come si vede la “nave Euro” è da lungo tempo ferma
nella bonaccia. Contribuisce a
tenerla ferma una BCE, disegnata sul modello della Bundesbank e quindi vocata
al rigore, alla “stabilità monetaria”, ostile ad ogni forma di espansione,
anche quando i principali competitori lo fanno. Si tratta di una dottrina
economica che ha le sue ragioni e la sua storia.
Ma da sola non
mi pare spieghi perché un intero continente di 500 milioni di persone non
riesca a scuotersi dalla trappola dell’austerità; malgrado si veda abbastanza
bene che nelle condizioni contemporanee (e con le tensioni determinate sulla
vita della grande maggioranza dei cittadini dalla competizione dei nuovi stili
di produzione e dei concorrenti) questa scava come una talpa sotto le
fondamenta della nostra società.
Certo,
il nord Europa, con la sua forte interconnessione industriale e finanziaria ed
i suoi “clientes” orientali tiene il freno a mano ben alzato, nel timore che il
sud “spendaccione” chieda l’accesso ai suoi forzieri.
Certo,
questa retorica molto pagante sul piano elettorale (e alla radice del successo
della Merkel), e altrettanto consolante sul piano identitario, è un
fondamentale elemento di stabilità in primis nelle ineguali e competitive
società del nord. Un poco come succedeva nel sud degli Stati Uniti prima della
guerra di secessione, il senso di superiorità di gruppo verso un gruppo sottomesso
contribuisce in modo decisivo a tenere insieme il primo, facendo dimenticare ai
perdenti in esso la loro condizione (nel sud schiavista l’esistenza dei neri
era fondamentale meccanismo di stabilità sociale, in quanto ogni bianco –anche se
povero e sovrasfruttato- poteva comunque sentirsi parte di una classe
superiore). Dunque la retorica del “sud cicala” e “pigro” è un insuperabile
mezzo di controllo sociale in primis verso le vittime del modello mercantilista
(gli “hartzati”
si potrebbe dire).
Certo,
la struttura dell’equazione economica nelle condizioni della globalizzazione è
cambiata, e continua a farlo. L’interconnessione e i flussi di capitali, merci,
in misura minore uomini, domina i labili confini statali e tiene sotto ricatto
i bilanci fiscali nazionali. Nessuno può più immaginare, fermo il sistema di
regole (o meglio il sistema di libertà esistente), di fare il keynesismo in un
solo paese, in conseguenza nessuno dispone della totalità delle leve
decisionali a disposizione.
Certo,
l’ineguaglianza (con buona pace per tutte le polemiche sul libro
di Piketty) è cresciuta e con essa il potere delle “classi dirigenti” che
sono in grado –internazionalizzandosi- di liberarsi del controllo democratico,
rimasto piantato a terra. Uno degli effetti più forti è il controllo sui
dibattiti e sull’opinione pubblica che impedisce di vedere come questo “frame”
non sia un effetto naturale di una dinamica storica irresistibile (secondo una
filosofia della storia che vorrebbe il mondo procedere verso una sempre
maggiore unificazione), ma un progetto economico e sociale con potenti
implicazioni politiche.
Certo,
la stessa globalizzazione è solo una reazione complessa delle élite ad un
insieme di problemi che, dal loro punto di vista, non trovavano soluzione entro
il quadro nazionale. Tra questi la scarsità di occasioni di investimento,
determinata da una caduta del saggio di profitto accettabile, per effetto di
una distribuzione percepita come “iniqua” (cfr. Streeck).
Tutti problemi, manifestati a livello macro dalla disoccupazione crescente e
dalla tendenziale stagnazione (a sua volta effetto anche delle dinamiche
demografiche e della debolezza della domanda interna), che cercano una
soluzione a breve termine nella internazionalizzazione. Mi sembra si possa
riassumere (anche se si tratta di dinamiche strettamente interconnesse nelle
quali la direzione causale è complessa) che questa è soluzione perché crea
insieme sbocchi ai capitali in cerca di remunerazione, abbassa il costo del
lavoro sia nei luoghi di investimento (quindi di delocalizzazione industriale)
sia in patria (per effetto dell’effetto “disciplinante” del ricatto sui
lavoratori), importando le merci prodotte nei paesi in convergenza –dove
costano meno anche a causa del dumping salariale, ambientale e sulla sicurezza-
si innalza indirettamente anche il potere di acquisto in patria (deflazione
importata), tenendo sotto controllo l’inflazione (e dunque salvaguardando, per
questa via, i capitali). La bassa inflazione, alzando il tasso reale di
remunerazione del capitale, rafforza enormemente il circuito.
Certo,
il premio di tutto questo, per chi non è in grado di “alzarsi” sul suolo e
vivere nel “mondo dei flussi”, è la paura. L’insicurezza e l’abbandono alle
proprie sole forze, l’incertezza sul futuro, man mano che tutti i baluardi eretti
nel novecento contro l’incertezza del vivere crollano. Ormai ad ognuno viene
raccontato che sono problemi suoi, che i fallimenti sono individuali, che c’è
qualcosa di sbagliato in lui se non è utile, se il lavoro non è disponibile, se
non è abbastanza flessibile, abbastanza disciplinato, abbastanza ragionevole. E’
la società che genera, dato il suo livello di sviluppo delle forze produttive e
le modalità di produzione determinate dalle regole e dalle tecnologie, le
occasioni messe a disposizione dell’individuo. Ma è quest’ultimo che, con le
sue sole forze, deve conquistarle in competizione con ogni altro. E’ come a
quel gioco che facevamo da bambini nel quale bisogna correre a sedersi quando
finisce la musica; ma qui ci sono sedie al massimo per la metà dei danzanti.
Non stupisce questo senso sottile di ansia che si respira nell’aria.
Ma tutto questo
non mi pare spieghi abbastanza perché la “nave Euro” è ferma nella bonaccia (in
effetti trattenendo anche la “nave Europa”).
Quale è l’ancora centrale? Perché l’atteggiamento egemone tedesco ottiene una
tale accondiscendente disponibilità da parte degli altri paesi europei? Anche da
quelli che hanno poco da guadagnare?
A me pare che la
debolezza, l’afasia degli altri Stati, ipnotizzati dai fari della hybris centroeuropea
sia spiegabile dal “progetto” che le élite europee, ad un certo punto, hanno iniziato
(o ripreso) a sognare: affrancarsi dalla tutela degli Stati Uniti e diventare
una potenza mondiale egemone.
Lo scambio che
viene proposto alle élite europee (ed a tutti noi) dalla Germania è, in altre
parole, una versione macro dello scambio interno offerto agli “hartizzati”: accettare di essere soci di minoranza in una
grande società egemone mondiale. Cioè di essere una “marca di confine” nell’impero
centrale che recupera, finalmente, il suo posto nel mondo perso con la
sconfitta del 1918. Un posto nel mondo in sostanza concepito nel gioco
tradizionale dell’imperialismo europeo ma il
cui avversario vero è chiaramente l’America. Emerge continuamente al fondo
del discorso sull’unificazione (che sarebbe fatta in ultima analisi “per
contare”). Ad esempio lo abbiamo visto nel dibattito
di Maastricht nella testimonianza del Ministro
degli Esteri dell’epoca, Colombo.
Questa in fondo
strana storia (l’Europa che cerca, per via di integrazione, di recuperare un’autonomia
di potenza incrinata dalle stesse politiche di liberalizzazione
contemporaneamente promosse) parte già dal secondo dopoguerra sotto il segno
ambiguo di una Comunità del Carbone e
dell’Acciaio promossa dagli Americani (Jean Monnet suo primo
Presidente, ad esempio, era il funzionario e politico con una biografia
fortemente anglofona, funzionario della Società delle Nazioni negli anni venti,
delegato inglese presso il governo americano nel 1940, incaricato dal generale
De Gaulle di gestire il Piano Marshall in Europa, coautore della dichiarazione Schuman)
in chiave contemporaneamente anti-imperi centrali e anti-sovietica. Questo
progetto, il cui presupposto logico e di potenza è la presenza della Nato
(quindi la totale dipendenza militare), ad un certo punto “torce” verso un
sogno di autonomia implicitamente ostile agli egemoni oltremanica.
La lunga
umiliazione di Versailles
(verso la quale profeticamente avvertiva Keynes)
sembra riemergere dalle tombe polverose al passaggio cruciale della “unificazione”
(meglio sarebbe dire “annessione”)
tedesca del 1989-91. Lo stesso Colombo racconta la cosa in chiave antiamericana
nella sua replica finale, nel Parlamento Italiano, al dibattito sulla ratifica
del Trattato di Maastricht: i due anni della dissoluzione dell’impero sovietico
ri-aprono una questione su chi debba essere egemone nell’est Europa, gli USA o l’Unione
Europea (in realtà o la Germania che usa la UE come strumento). In questo
contesto la Unione Europea (che nasce con Maastricht) è lo strumento della rivalsa,
cioè dell’autonomia riconquistata verso la tutela americana.
L’idea sarebbe, insomma, che “possiamo contare solo
insieme”.
Ma, c’è qualche
problema:
-
La dottrina dell’egemone
oltre oceano è “si comanda uno alla volta”,
e ora tocca a me. In altre parole, nessuno può essere egemone indipendente in
una macroregione; altrimenti diventerebbe automaticamente un rivale. Questa dottrina
è rivolta verso la Russia, verso la Cina, ma principalmente (a ben vedere) è
rivolta verso il potenziale rivale più temibile di tutti: l’Europa. Né questo atteggiamento è nuovo, in effetti la ragione
dello scontro cinquantennale tra gli “imperi centrali” e l’Inghilterra (poi con
Inghilterra e USA) è stata questa volontà tedesca ad affermare una indipendente
potenza. Il
patto che la Germania Guglielmina (il compromesso) all’Inghilterra (con la quale
cerca fino all’ultimo di evitare la guerra) è semplicemente questo: io
egemonizzo l’Europa continentale, tu il Commonwealth.
-
L’indipendenza
dal potere egemone americano presuppone un atteggiamento sfidante, in un quadro
di ostilità trattenuta, per il quale tutto dice che non siamo pronti. In primis
dovremmo avere un esercito (non a caso il nodo più difficile da sciogliere da
decenni) in grado di guadagnare un equilibrio con quello USA. A meno di pensare
di essere ad un ballo di gala (quando siamo, invece, nel mondo vero) il
nazionalismo muscolare europeo che traspare da molte dichiarazioni ha le gambe
molto corte.
-
Il wishful
thinking che sembra aver ipnotizzato molte élite europee, e che viene abilmente
strumentalizzato molto più prosaicamente da altre, meriterebbe di essere
portato in luce e discusso tematicamente.
Il suo costo, in
termini di riduzione della influenza dei cittadini (da ultimo abbiamo visto il punto
di vista di Dahl nel 1993), andrebbe soppesato ed eventualmente bilanciato.
Nella
discussione, certo, sorgerebbe almeno una domanda: che ha a che fare con tutto
ciò la totale liberalizzazione dei flussi di capitali e merci, essenziale strumento
del dominio USA sul mondo? Necessario complemento del suo dominio militare? Sin
dalla rivoluzione industriale (in quel caso attraverso la potenza egemone
inglese nella prima globalizzazione 1880-929) la liberalizzazione dei commerci
è lo strumento per disarmare i mercati più deboli e conquistarli. Uno strumento
che necessita del complemento della potenza (ovviamente contribuendo ad alimentarla).
Lo dico
diversamente: se il progetto è di creare una potenza egemone indipendente nel
continente (progetto che non a caso vede l’Inghilterra in via di sganciamento),
dove sono le barriere protettive ai confini?
Il mercantilismo
(la creazione e coltivazione di una economia esteroflessa, basata sulla cattura
del mercato interno altrui) è un gioco pericoloso ed instabile, intrinsecamente
imperialista, che andrebbe giocato in modo consapevole, altrimenti è solo lo
strumento di alcuni contro altri (dentro e fuori i confini). I cittadini europei dovrebbero essere
consultati. Ad essi andrebbe chiesto se vogliono cercare di promuovere un
gioco cooperativo (entro e fuori i confini) o competitivo (e contro chi).
Probabilmente
questa tornata elettorale (nella quale in tutta Europa il dibattito forse per
la prima volta si è visto) è l’inizio di un nuovo percorso. Sarebbe bene fosse più consapevole e più
realistico.
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