E’ in corso un interessante
dibattito sulle cause della ineguaglianza, che vede contrapporsi diverse
ipotesi, ci sono quelli che individuano nella tendenziale stagnazione che
sembra avvolgere l’occidente (e viene disperatamente combattuta a forza di stimoli
monetari sempre più inefficaci e bolle sempre più brevi, l’ultima è appena
stata denunciata) l’effetto del rallentamento della crescita della popolazione
e della conseguente riduzione degli investimenti (e dei consumi), ma anche dell’accelerazione
dello sviluppo tecnologico.
Questa teoria viene portata
avanti da qualche tempo da Paul
Krugman, dopo essere stata ripresa da Summers. Nella versione di Krugman, anche qui, e qui, ciò incoraggia ad alzare drasticamente gli obiettivi di
inflazione (come ha detto anche a Draghi). Nella versione di Summers, occorre sviluppare investimenti anche
pubblici, meglio se privati, anche allentando i cordoni della regolazione (che
importa se si sprecano risorse con prestiti inefficienti, se altrimenti le
forze produttive resterebbero inoperose?).
Tra i fattori che sono
continuamente chiamati in causa in questo dibattito c’è la velocità e natura
dell’innovazione tecnologica, messa a confronto con le skill e competenze che
questa richiede e premia. Si tratta di una dinamica del tutto tradizionale, la
tecnologia e le competenze in essa incorporate e ad essa funzionali sono sempre
state in reciproca corsa. Ogni volta che avviene un’accelerazione della
tecnologia questa “spiazza” i lavoratori adatti al precedente livello
tecnologico, e ne richiede di nuovi. Se la velocità del processo accelera
troppo, ed il sistema di istruzione non riesce a tenergli dietro, il risultato
è una polarizzazione dei redditi sui “vincenti”, diventati più rari. Uno degli
autori che predilige questa spiegazione è Raghuram Rajan
che vede nell’istruzione rimasta indietro, rispetto alle tecnologie dominanti,
il motore della ineguaglianza, perché induce alla stagnazione dei salari (certo
insieme a tanti altri fattori) e questa all’indebitamento eccessivo (che porta
bolle ed instabilità).
Un altro modo di vedere la
cosa è proposto da Piketty che, invece, porta sotto accusa la maggiore
dinamica di accrescimento del reddito da capitale, rispetto a quello da lavoro.
In parte ciò è accelerato dalla stagnazione provocata dalla debolezza della
domanda e degli investimenti, che potrebbe essere in relazione con l’innovazione
tecnologica.
Un nodo del dibattito si concentra, dunque, sulla
tecnologia: anche qui ci sono autori che
la vedono in accelerazione e direttamente coinvolta con la perdita di
occupazione diretta e con la polarizzazione dei redditi (io tendo ad essere
d’accordo), altri sono di opinione esattamente opposta. Erik Brynjolfsson è uno
degli autori chiave della prima ipotesi. Dal blog di Marianna Mazzuccato, si può rilevare come sia forte la
tendenza che si registra: un recente articolo di Carl Frey e Michael Osborne ipotizza che ben la metà di tutti i posti di lavoro
esistenti siano ad alto rischio di essere automatizzati nel prossimo decennio. Ciò
significa ovviamente che bisogna riorganizzare radicalmente le nostre economie.
Cosa significa, infatti,
automatizzare il 50 % dei posti di lavoro in dieci anni? Che milioni (o decine
di milioni di lavoratori in USA) saranno espulsi dai loro attuali posti di
lavoro mentre hanno skill formate, esperienze consolidate ed età
presumibilmente non più verdi. Chi ha un diploma superiore, cinquanta anni, una
carriera in una azienda di servizio a media informatizzazione nel settore
dell’amministrazione o della logistica, come riesce a ricollocarsi nelle nuove
competenze richieste dall’economia della comunicazione e dell’immateriale?
Il post di Mazzuccato
richiama il dibattito tra i sostenitori della tesi della “stagnazione secolare”
(che presuppone l’inefficacia della tecnologia nel promuovere l’ondata di
investimenti e di innovazione esplosiva che avviò decenni di crescita negli
anni del dopoguerra, per la verità dopo aver contribuito a provocare la
stagnazione degli anni trenta) per prendere posizione in favore della
possibilità di far leva sull’innovazione per prendere la velocità necessaria
per sfuggire alla stagnazione (“correre con la macchina e non contro la
macchina”). Dunque, a suo parere, la sfida centrale è “permettere alla IT di
trasformare l'innovazione e la produttività in tutti i settori, e assicurarsi di
riqualificare chi è 'lasciato indietro'”.
Indubbiamente ostacola
questa prospettiva la tendenza del capitale nel settore privato ad orientarsi
su valorizzazioni a breve termine (tramite una varietà di meccanismi
finanziari) anziché su investimenti a medio-lungo termine come la Ricerca e
Sviluppo, e anche l’incapacità del settore pubblico a compensare questa assenza
di investimenti.
Dunque l’unica strada è
riattivare l’investimento pubblico, come in fondo dicono sia Krugman che
Summers, per incoraggiare l’innovazione tecnologica ad andare verso la
creazione di nuovi settori ad alto impiego di personale, e verso l’attrazione
di investimenti privati sottraendoli al circuito finanziario fine a se stesso.
La vera sfida (certamente di
grandissima difficoltà e che prenderà ben più di un decennio) è trovare un’innovazione
intelligente ed “inclusiva”, capace di invertire la tendenza alla
disuguaglianza. Una simile azione, unita agli strumenti fiscali consigliati da
Piketty e alla lotta all’elusione dei grandi conglomerati aziendali verso i
quali sembra che finalmente si orienti l’attenzione delle Agenzie
sovranazionali (oltre che di USA e UE), e la lotta agli eccessi di protezione
della proprietà intellettuale (su cui è attiva l’azione di Stiglitz),
dovrebbe, come ricorda la Mazzuccato, tendere a favorire la crescita di “ecosistemi di innovazione” che premino
la condivisione e favoriscano l’accesso. Non è facilmente immaginabile che
questa strada possa riassorbire tutti gli espulsi, gli “inutili” o gli “scarti”
(come li chiama Bauman), ma potrebbe aiutare a riconfigurare una società in cui
l’homo
faber va scomparendo e la gran parte della popolazione
attiva (che può superare il 90%) resta sostanzialmente impegnata a scambiare
servizi. Servizi che le tecnologie dell’accesso, se non controllate da pochi
immensi datacenter (il possesso dei dati personali è una delle frontiere,
insieme alla proprietà intellettuale, nella quale si gioca il futuro) e
protetti da bastioni legali, potrebbero rendere diffusi e distribuiti
face-to-face come non è mai stato. In una società ed un’economia (ma anche una
non-economia) porosa ed orizzontale, sarebbe più facile ritrovare collocazione
(soprattutto se un welfare realmente inclusivo ed universalista rendesse la
vita di ognuno non a rischio).
Parte essenziale di questa innovazione inclusiva dovrebbe essere:
·
lo sviluppo di sistemi
di accesso all’informazione ed ai contenuti a bassa soglia di accettazione;
· microremunerazione del
contributo creativo e sociale erogato tramite i social e gli altri format di
comunicazione “molecolare”, come propone Larnier;
·
sistemi energetici
diffusi e a basso costo, ma soprattutto a controllo distribuito;
·
promozione della cura
del territorio, della protezione attiva e della sostenibilità;
·
un territorio e città
più inclusive, porose e accessibili, con più luoghi pubblici di incontro;
·
incoraggiamento alla
formazione ed all’istruzione;
·
un nuovo welfare
universalista alla scala almeno europea.
·
sistemi fiscali ben
disegnati, che favoriscano la creazione di valore.
Oggi siamo in tutt’altra
direzione, centralizzazione dell’informazione in pochi giganti basati su
paradisi fiscali che gli consentono di catturare valore, sfruttando ed
aggregando miriadi di contenuti donati inconsapevolmente e non soggetti a
diritto d’autore, per poi rivendere servizi ad alto valore aggiunto e zero
costo unitario; colossi energetici che ostacolano e contrastano in ogni modo la
transizione energetica verso una maggiore sostenibilità, efficienza e diffusione,
temendo di perderne il controllo; processo di distruzione della funzione
pubblica, degli investimenti e del welfare; città e territori in cui a luoghi
della distinzione, talvolta accuratamente controllati e sempre ben segnati, si
contrappongono ghetti e aree di concentrazione della popolazione pericolosa e
aree indifferenti e isotrope di diffusione dell’abitare individuale; sistemi
fiscali regressivi, che si alzano man mano che si dipende dal proprio lavoro e
si dispone di reddito medio, mentre si abbassano verso l’alto e verso i
comportamenti dannosi, soprattutto per l’ambiente.
Non potrà esservi riduzione
delle ineguaglianze senza autentico sviluppo sociale ed umano, e senza nuova creazione
di capitale culturale, ambientale e spaziale diffuso e condiviso. Ma anche
senza ricostruire il capitale politico e sociale, senza il quale nessuna azione
collettiva può essere promossa. Senza riscoprire la nostra umanità.
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