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martedì 8 luglio 2014

Ineguaglianza, innovazione tecnologica e capitale umano.


E’ in corso un interessante dibattito sulle cause della ineguaglianza, che vede contrapporsi diverse ipotesi, ci sono quelli che individuano nella tendenziale stagnazione che sembra avvolgere l’occidente (e viene disperatamente combattuta a forza di stimoli monetari sempre più inefficaci e bolle sempre più brevi, l’ultima è appena stata denunciata) l’effetto del rallentamento della crescita della popolazione e della conseguente riduzione degli investimenti (e dei consumi), ma anche dell’accelerazione dello sviluppo tecnologico.

Questa teoria viene portata avanti da qualche tempo da Paul Krugman, dopo essere stata ripresa da Summers. Nella versione di Krugman, anche qui, e qui, ciò incoraggia ad alzare drasticamente gli obiettivi di inflazione (come ha detto anche a Draghi). Nella versione di Summers, occorre sviluppare investimenti anche pubblici, meglio se privati, anche allentando i cordoni della regolazione (che importa se si sprecano risorse con prestiti inefficienti, se altrimenti le forze produttive resterebbero inoperose?).
Tra i fattori che sono continuamente chiamati in causa in questo dibattito c’è la velocità e natura dell’innovazione tecnologica, messa a confronto con le skill e competenze che questa richiede e premia. Si tratta di una dinamica del tutto tradizionale, la tecnologia e le competenze in essa incorporate e ad essa funzionali sono sempre state in reciproca corsa. Ogni volta che avviene un’accelerazione della tecnologia questa “spiazza” i lavoratori adatti al precedente livello tecnologico, e ne richiede di nuovi. Se la velocità del processo accelera troppo, ed il sistema di istruzione non riesce a tenergli dietro, il risultato è una polarizzazione dei redditi sui “vincenti”, diventati più rari. Uno degli autori che predilige questa spiegazione è Raghuram Rajan che vede nell’istruzione rimasta indietro, rispetto alle tecnologie dominanti, il motore della ineguaglianza, perché induce alla stagnazione dei salari (certo insieme a tanti altri fattori) e questa all’indebitamento eccessivo (che porta bolle ed instabilità).
Un altro modo di vedere la cosa è proposto da Piketty che, invece, porta sotto accusa la maggiore dinamica di accrescimento del reddito da capitale, rispetto a quello da lavoro. In parte ciò è accelerato dalla stagnazione provocata dalla debolezza della domanda e degli investimenti, che potrebbe essere in relazione con l’innovazione tecnologica.

Un nodo del dibattito si concentra, dunque, sulla tecnologia: anche qui ci sono autori che la vedono in accelerazione e direttamente coinvolta con la perdita di occupazione diretta e con la polarizzazione dei redditi (io tendo ad essere d’accordo), altri sono di opinione esattamente opposta. Erik Brynjolfsson è uno degli autori chiave della prima ipotesi. Dal blog di Marianna Mazzuccato, si può rilevare come sia forte la tendenza che si registra: un recente articolo di Carl Frey e Michael Osborne ipotizza che ben la metà di tutti i posti di lavoro esistenti siano ad alto rischio di essere automatizzati nel prossimo decennio. Ciò significa ovviamente che bisogna riorganizzare radicalmente le nostre economie.
Cosa significa, infatti, automatizzare il 50 % dei posti di lavoro in dieci anni? Che milioni (o decine di milioni di lavoratori in USA) saranno espulsi dai loro attuali posti di lavoro mentre hanno skill formate, esperienze consolidate ed età presumibilmente non più verdi. Chi ha un diploma superiore, cinquanta anni, una carriera in una azienda di servizio a media informatizzazione nel settore dell’amministrazione o della logistica, come riesce a ricollocarsi nelle nuove competenze richieste dall’economia della comunicazione e dell’immateriale?

Il post di Mazzuccato richiama il dibattito tra i sostenitori della tesi della “stagnazione secolare” (che presuppone l’inefficacia della tecnologia nel promuovere l’ondata di investimenti e di innovazione esplosiva che avviò decenni di crescita negli anni del dopoguerra, per la verità dopo aver contribuito a provocare la stagnazione degli anni trenta) per prendere posizione in favore della possibilità di far leva sull’innovazione per prendere la velocità necessaria per sfuggire alla stagnazione (“correre con la macchina e non contro la macchina”). Dunque, a suo parere, la sfida centrale è “permettere alla IT di trasformare l'innovazione e la produttività in tutti i settori, e assicurarsi di riqualificare chi è 'lasciato indietro'”.
Indubbiamente ostacola questa prospettiva la tendenza del capitale nel settore privato ad orientarsi su valorizzazioni a breve termine (tramite una varietà di meccanismi finanziari) anziché su investimenti a medio-lungo termine come la Ricerca e Sviluppo, e anche l’incapacità del settore pubblico a compensare questa assenza di investimenti.

Dunque l’unica strada è riattivare l’investimento pubblico, come in fondo dicono sia Krugman che Summers, per incoraggiare l’innovazione tecnologica ad andare verso la creazione di nuovi settori ad alto impiego di personale, e verso l’attrazione di investimenti privati sottraendoli al circuito finanziario fine a se stesso.
La vera sfida (certamente di grandissima difficoltà e che prenderà ben più di un decennio) è trovare un’innovazione intelligente ed “inclusiva”, capace di invertire la tendenza alla disuguaglianza. Una simile azione, unita agli strumenti fiscali consigliati da Piketty e alla lotta all’elusione dei grandi conglomerati aziendali verso i quali sembra che finalmente si orienti l’attenzione delle Agenzie sovranazionali (oltre che di USA e UE), e la lotta agli eccessi di protezione della proprietà intellettuale (su cui è attiva l’azione di Stiglitz), dovrebbe, come ricorda la Mazzuccato, tendere a favorire la crescita di “ecosistemi di innovazione” che premino la condivisione e favoriscano l’accesso. Non è facilmente immaginabile che questa strada possa riassorbire tutti gli espulsi, gli “inutili” o gli “scarti” (come li chiama Bauman), ma potrebbe aiutare a riconfigurare una società in cui l’homo faber va scomparendo e la gran parte della popolazione attiva (che può superare il 90%) resta sostanzialmente impegnata a scambiare servizi. Servizi che le tecnologie dell’accesso, se non controllate da pochi immensi datacenter (il possesso dei dati personali è una delle frontiere, insieme alla proprietà intellettuale, nella quale si gioca il futuro) e protetti da bastioni legali, potrebbero rendere diffusi e distribuiti face-to-face come non è mai stato. In una società ed un’economia (ma anche una non-economia) porosa ed orizzontale, sarebbe più facile ritrovare collocazione (soprattutto se un welfare realmente inclusivo ed universalista rendesse la vita di ognuno non a rischio).

Parte essenziale di questa innovazione inclusiva dovrebbe essere:
·        lo sviluppo di sistemi di accesso all’informazione ed ai contenuti a bassa soglia di accettazione;
·    microremunerazione del contributo creativo e sociale erogato tramite i social e gli altri format di comunicazione “molecolare”, come propone Larnier;
·        sistemi energetici diffusi e a basso costo, ma soprattutto a controllo distribuito;
·        promozione della cura del territorio, della protezione attiva e della sostenibilità;
·        un territorio e città più inclusive, porose e accessibili, con più luoghi pubblici di incontro;
·        incoraggiamento alla formazione ed all’istruzione;
·        un nuovo welfare universalista alla scala almeno europea.
·        sistemi fiscali ben disegnati, che favoriscano la creazione di valore.

Oggi siamo in tutt’altra direzione, centralizzazione dell’informazione in pochi giganti basati su paradisi fiscali che gli consentono di catturare valore, sfruttando ed aggregando miriadi di contenuti donati inconsapevolmente e non soggetti a diritto d’autore, per poi rivendere servizi ad alto valore aggiunto e zero costo unitario; colossi energetici che ostacolano e contrastano in ogni modo la transizione energetica verso una maggiore sostenibilità, efficienza e diffusione, temendo di perderne il controllo; processo di distruzione della funzione pubblica, degli investimenti e del welfare; città e territori in cui a luoghi della distinzione, talvolta accuratamente controllati e sempre ben segnati, si contrappongono ghetti e aree di concentrazione della popolazione pericolosa e aree indifferenti e isotrope di diffusione dell’abitare individuale; sistemi fiscali regressivi, che si alzano man mano che si dipende dal proprio lavoro e si dispone di reddito medio, mentre si abbassano verso l’alto e verso i comportamenti dannosi, soprattutto per l’ambiente.


Non potrà esservi riduzione delle ineguaglianze senza autentico sviluppo sociale ed umano, e senza nuova creazione di capitale culturale, ambientale e spaziale diffuso e condiviso. Ma anche senza ricostruire il capitale politico e sociale, senza il quale nessuna azione collettiva può essere promossa. Senza riscoprire la nostra umanità.

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