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lunedì 7 luglio 2014

Anthony Giddens, “Potente e turbolenta. Quale futuro per l’Europa?”


Nel 2014, il fondamentale sociologo inglese Anthony Giddens, che ebbe un ruolo intellettuale di primo piano nella definizione della cosiddetta “terza via”, e nella stagione del blairismo, cioè nel tentativo di individuare una versione liberale di centrosinistra compatibile con lo sviluppo del  capitalismo finanziario internazionalizzato e con la globalizzazione, ha scritto questo denso libro per prendere una posizione sulla crisi dell’Unione Europea.

Come vedremo la posizione che raggiunge muove dall’accettazione della globalizzazione come “condizione di vita” non revocabile in dubbio, non come “forza esterna” ai sistemi economici e sociali; in questa fondamentale scelta (del tutto coerente con il suo percorso intellettuale pluridecennale) che è il primo cardine del suo ragionamento, trovano poi posto la subordinazione di ogni obiettivo alla superiore necessità di garantire la crescita economica attraverso il successo nella competizione internazionale. A me pare di poter dire che prendere queste due decisioni (in effetti senza quasi neppure vederle, o comunque metterle in questione veramente) determini angusti confini nei quali non si riesce più a percepire come questo schema di potere lasci inespresse le forze di gran parte della società. Le inibisca, distruggendo molto più di quel che crea. Esemplare a tal fine l’analisi del libro “Scarcity” che avevamo letto tempo fa.
Correttamente comunque al centro del testo di Giddens è il riconoscimento che la crisi nella quale si dibatte l’Unione Europea è parte di una “grande trasformazione” che coinvolge l’intero pianeta e di irrisolti nodi nello sviluppo e nella interazione tra popoli e stati. Ma, partire dal fatto della globalizzazione (sia pure con importanti precisazioni che vanno segnalate) e subordinare ad esso ogni altro obiettivo di sviluppo umano e sociale (nel senso di subordinarlo alla compatibilità a questo), impedisce per me di vedere che il dominio dei pochi connessi, e dei flussi che questi “maneggiano”, è essenzialmente “disattivazione”. Inibisce e distrugge le forze potenzialmente antagoniste, le disciplina e congela (per così dire). Opera espellendole, rendendole incapaci di azione collettiva e chiudendone le aspettative. Spiega l’immensa distruzione di capitale umano, sociale e anche fisso sociale che contraddistingue il nostro tempo.
Dunque prendere questa posizione non consente di fare i conti con il fatto più importante che sta emergendo dalle macerie della teoria liberista (che Giddens riconosce essere crollata): l’endogeneità della crescita e del capitale, come della moneta. La crescita non è, infatti, essenzialmente un gioco a somma zero (come in fondo, allargata sulla scala internazionale, implicitamente sembra inquadrare l’autore, e come è sottilmente nella teoria mercantilista), ma è trasformazione sociale, attivazione. Non è distribuzione, e trasferimento, ma creazione.
Se il gioco fondamentale entro il quale vede lo sviluppo del progetto europeo è quello del potere, tramite il successo nella competizione determinata dalla “messa in contatto” senza protezioni (o meglio, con le sole protezioni compatibili), ed è rivolto alla riorganizzazione delle forze su un piano statico e monodimensionale, ne scaturisce un compatto insieme di non-scelte.
La globalizzazione, per via dell’integrazione che la costituisce, rende necessaria infatti la forza disciplinante delle politiche di austerità (sulle quali Giddens ha atteggiamento comunque complesso), e la riorganizzazione intorno ad esse del modello sociale.

L’Europa è questo sogno, sin dal 1946 (il libro si apre con il famoso discorso di Churchill nel quale il grande statista inglese disse che l’Europa doveva “occupare il posto che le spetta insieme ad altri grandi raggruppamenti e contribuire a modellare i futuri destini dell’umanità”) e in esso deve restare. La ragione principale, per Giddens, per la quale occorre superare la crisi, operando le necessarie e profonde riforme, è che nel confronto con USA e Cina solo l’Europa unita può affermarsi.
Questo è un argomento di peso. Ma non è scontato che questo obiettivo, pur se fosse auspicabile in una logica (che è quella proposta) di servizio e non solo di dominio, sarebbe meglio servito da un’unione che distrugga ed inibisca le forze sociali attive nei diversi paesi e non da una vitale e multiforme alleanza tra paesi a maggiore sovranità. Inoltre, se pure avesse ragione Giddens, e la strada dell’unità politica a fianco di quella economica, fosse preferibile (con opportune avvertenze) a quella della Confederazione leggera, resta il problema dei mezzi.
Il sociologo inglese riconosce che in questo momento, entro il complesso meccanismo della governance europea, la Germania “sembra aver raggiunto con metodi pacifici ciò che fu incapace di realizzare attraverso le conquiste militari: il dominio dell’Europa”. Tuttavia immediatamente riconosce che “come condizione permanente, però, un <Europa Tedesca> é destinata a fallire” (p.16).
Dentro il sistema di governo Europeo convivono, infatti, due modalità che chiama EU1 e EU2: il primo è lo stile gradualista e lento dei piccoli passi, suggerito da Monet; il secondo è il metodo di imporre decisioni tra pochi leader, essenzialmente riassumibili nella Merkel e nei suoi partner privilegiati, più la BCE e il FMI. Il secondo è il metodo oligarchico che tanta opposizione sta provocando nell’opinione pubblica. 
Ora, se nel lungo termine la Germania non riuscirà, senza restare isolata e perdere, a governare da sola l’Unione tenuta a questo livello di semiorganizzazione politica, senza trasferimenti e responsabilità comune, e forte integrazione economica (anche se ne trae grandi vantaggi, ben riconosciuti da Giddens), l’unica via è una soluzione federale “di qualche tipo”. Giustamente l’autore ricorda che ci sono molte forme di federalismo, e di sua regolazione, ma che una maggiore sovranità comune dovrà essere prevista.
L’autore non problematizza molto la questione democratica (diciamo che non è molto vicino alla sensibilità di un Habermas), ma riconosce che occorre pensare in modo “radicale ed innovativo” (p.20) se si vogliono affrontare le sfide. Una delle ipotesi che avanza è l’elezione diretta del Presidente dell’Unione (mentre, probabilmente non a caso, non spende molto nel potenziamento del Parlamento Europeo).
Chiaramente per lui è necessaria una maggiore e più efficace “unione bancaria” (p.29), la mutualizzazione dei debiti (33), la rimodulazione delle competenze (con qualche restituzione, p.40), ed una radicale riorganizzazione del sistema economico mondiale.
Proprio questa ultima necessità, causata dal fatto che la crisi è mossa dalla trasformazione dei modi di produzione (con la fusione tra manifattura e servizi, e la sostituzione di molti lavori), rende necessario un protagonismo unitario dell’Unione. L’autore utilizza studi della Federazione di Robotica (nota pag.221) per suggerire che la trasformazione dei modi di produzione sia comunque creatrice di più occupazione di quella che distrugge. E comunque non sia in alcun modo gestibile. Resta quindi solo l’adattamento.

A suo parere l’azione deve svolgersi in più direzioni:
-         all’interno nel riadattare il modello sociale alla necessità della competizione internazionale e quindi alla crescita (tramite l’implementazione della flexsicurity, p.93), anche tramite la capacità di costringere e disciplinare dell’austerità (concetto che richiama a pag. 63 e 98). L’austerità, in particolare, è motivata non solo dalla logica contabile di ridurre le spese per onorare i debiti, ma anche dalla ricerca di uno shock terapeutico; “il nocciolo delle politiche di austerità è costringere al cambiamento strutturale”. Essa è, secondo la metafora di Giddens, una amara medicina con gravi effetti collaterali, che va ben calibrata per evitare che faccia troppi danni al paziente. Nella sua analisi, che utilizza testi ufficiali della Commissione e dunque inclina ad essere assolutoria, il caso Greco è vicino ad aver ucciso il paziente.

Sull’adattamento del modello sociale, suo antico cavallo di battaglia, dato che Giddens è stato l’ispiratore delle innovazioni liberali del mondo del lavoro condotte “da sinistra” negli anni novanta, scrive: “la domanda cruciale non è tanto se il modello sociale sia praticabile in un periodo di recessione, ma come il modello sociale si possa adattare e riformare in modo da contribuire alla ripresa economica” (p.87). In altre parole è la ripresa economica ad essere lo scopo dell’azione sociale e politica, non la sostenibilità e l’equità delle condizioni di vita. Nel capitolo successivo ribadisce che lo scopo deve essere rendere possibile “assumersi dei rischi”, come stile di vita che ha “spesso effetti positivi” (evidentemente sulla crescita aggregata).

-         All’esterno invece bisogna operare politiche energiche per favorire la reindustrializzazione (p.61) e il rientro dei capitali dai paradisi fiscali (p.80), e implementando l’accordo di libero scambio con gli USA (p.83 e 185). Ma anche promuovendo politiche più energiche (a partire dal ETS) verso la lotta al cambiamento climatico. In questo senso spende parole per un approccio energico ma pragmatico (che parti da un’analisi di rischio e non dal Principio di Precauzione, e dunque includa, se necessario controverse opzioni come lo shale gas).

Se la Germania non accettasse la logica di interdipendenza che è implicita necessariamente nel progetto europeo, letto in questo modo, l’esito sarebbe la disintegrazione dell’area Euro e poi della stessa Unione Europea. Allora, per Giddens, i diversi paesi sarebbero abbandonati alle forze troppo grandi della globalizzazione. Da essa non sarà in alcun modo possibile prescindere (del resto è una <condizione di vita>, qualunque cosa possa significare).
E la sostituzione dell’Unione con altre strutture geopolitiche sarebbe il problema della fase complessa e pericolosa che si aprirebbe.

La crisi dell’Euro è comunque il nodo centrale, la sua fine avrebbe <incalcolabili> conseguenze (nel senso letterale), e potrebbe essere molto costosa (vengono citati studi di tenore terroristico che parlano di migliaia di miliardi di danni), in particolare ma non solo per la Germania. Chiaramente se la strada dell’integrazione politica e della solidarizzazione fosse impraticabile resterebbe forse il male minore.
In quel caso, sostiene Giddens, il danno sarebbe sia interno sia esterno (sul “ruolo globale”), e la UE rischierebbe di non poter svolgere il ruolo che gli spetta nella ricostruzione del quadro spezzato della deregolamentazione, insieme a USA e Cina.


Altrimenti, se queste tensioni saranno governate: “un’Unione Europea più integrata potrebbe diventare una potenza mondiale” (resta da capire se a questo prezzo ne varrebbe la pena, p.215)

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