Nel 2014, il fondamentale sociologo
inglese Anthony
Giddens, che ebbe un ruolo intellettuale di primo piano nella definizione
della cosiddetta “terza via”, e nella stagione del blairismo, cioè nel
tentativo di individuare una versione liberale di centrosinistra compatibile
con lo sviluppo del capitalismo
finanziario internazionalizzato e con la globalizzazione, ha scritto questo
denso libro
per prendere una posizione sulla crisi dell’Unione Europea.
Come vedremo la posizione che raggiunge
muove dall’accettazione della globalizzazione come “condizione di vita” non
revocabile in dubbio, non come “forza esterna” ai sistemi economici e sociali;
in questa fondamentale scelta (del tutto coerente con il suo percorso
intellettuale pluridecennale) che è il
primo cardine del suo ragionamento, trovano poi posto la subordinazione di
ogni obiettivo alla superiore necessità di garantire la crescita economica attraverso
il successo nella competizione internazionale. A me pare di poter dire che
prendere queste due decisioni (in effetti senza quasi neppure vederle, o
comunque metterle in questione veramente) determini angusti confini nei quali
non si riesce più a percepire come questo schema di potere lasci inespresse le
forze di gran parte della società. Le inibisca, distruggendo molto più di quel
che crea. Esemplare a tal fine l’analisi del libro “Scarcity”
che avevamo letto tempo fa.
Correttamente comunque al centro del
testo di Giddens è il riconoscimento che la crisi nella quale si dibatte
l’Unione Europea è parte di una “grande trasformazione” che coinvolge l’intero
pianeta e di irrisolti nodi nello sviluppo e nella interazione tra popoli e
stati. Ma, partire dal fatto della globalizzazione (sia pure con importanti
precisazioni che vanno segnalate) e subordinare ad esso ogni altro obiettivo di
sviluppo umano e sociale (nel senso di subordinarlo alla compatibilità a
questo), impedisce per me di vedere che il dominio dei pochi connessi, e dei
flussi che questi “maneggiano”, è essenzialmente “disattivazione”. Inibisce e
distrugge le forze potenzialmente antagoniste, le disciplina e congela (per
così dire). Opera espellendole, rendendole incapaci di azione collettiva e
chiudendone le aspettative. Spiega l’immensa distruzione di capitale umano,
sociale e anche fisso sociale che contraddistingue il nostro tempo.
Dunque prendere questa posizione non
consente di fare i conti con il fatto più importante che sta emergendo dalle
macerie della teoria liberista (che Giddens riconosce essere crollata): l’endogeneità
della crescita e del capitale, come della moneta. La crescita non è, infatti,
essenzialmente un gioco a somma zero (come in fondo, allargata sulla scala
internazionale, implicitamente sembra inquadrare l’autore, e come è sottilmente
nella teoria mercantilista), ma è trasformazione sociale, attivazione. Non è
distribuzione, e trasferimento, ma creazione.
Se il gioco fondamentale entro il quale
vede lo sviluppo del progetto europeo è quello del potere, tramite il successo
nella competizione determinata dalla “messa in contatto” senza protezioni (o
meglio, con le sole protezioni compatibili), ed è rivolto alla riorganizzazione
delle forze su un piano statico e monodimensionale, ne scaturisce un compatto
insieme di non-scelte.
La globalizzazione, per via
dell’integrazione che la costituisce, rende necessaria infatti la forza
disciplinante delle politiche di
austerità (sulle quali Giddens ha atteggiamento comunque complesso), e la
riorganizzazione intorno ad esse del modello sociale.
L’Europa
è questo sogno, sin dal 1946 (il libro si apre con il
famoso discorso di Churchill nel quale il grande statista inglese disse che
l’Europa doveva “occupare il posto che le
spetta insieme ad altri grandi raggruppamenti e contribuire a modellare i
futuri destini dell’umanità”) e in esso deve restare. La ragione principale,
per Giddens, per la quale occorre superare la crisi, operando le necessarie e
profonde riforme, è che nel confronto con USA e Cina solo l’Europa unita può
affermarsi.
Questo
è un argomento di peso. Ma non è scontato che questo
obiettivo, pur se fosse auspicabile in una logica (che è quella proposta) di
servizio e non solo di dominio, sarebbe meglio servito da un’unione che
distrugga ed inibisca le forze sociali attive nei diversi paesi e non da una
vitale e multiforme alleanza tra paesi a maggiore sovranità. Inoltre, se pure
avesse ragione Giddens, e la strada dell’unità politica a fianco di quella
economica, fosse preferibile (con opportune avvertenze) a quella della Confederazione
leggera, resta il problema dei mezzi.
Il sociologo inglese riconosce che in
questo momento, entro il complesso meccanismo della governance europea, la
Germania “sembra aver raggiunto con
metodi pacifici ciò che fu incapace di realizzare attraverso le conquiste
militari: il dominio dell’Europa”. Tuttavia immediatamente riconosce che “come condizione permanente, però, un
<Europa Tedesca> é destinata a fallire” (p.16).
Dentro il sistema di governo Europeo
convivono, infatti, due modalità che chiama EU1 e EU2: il primo è lo stile
gradualista e lento dei piccoli passi, suggerito da Monet; il secondo è il
metodo di imporre decisioni tra pochi leader, essenzialmente riassumibili nella
Merkel e nei suoi partner privilegiati, più la BCE e il FMI. Il secondo è il metodo
oligarchico che tanta opposizione sta provocando nell’opinione
pubblica.
Ora, se nel lungo termine la Germania
non riuscirà, senza restare isolata e perdere, a governare da sola l’Unione
tenuta a questo livello di semiorganizzazione politica, senza trasferimenti e
responsabilità comune, e forte integrazione economica (anche se ne trae grandi
vantaggi, ben riconosciuti da Giddens), l’unica via è una soluzione federale
“di qualche tipo”. Giustamente l’autore ricorda che ci sono molte forme di federalismo,
e di sua regolazione, ma che una maggiore sovranità comune dovrà essere
prevista.
L’autore non problematizza molto la
questione democratica (diciamo che non è molto vicino alla sensibilità di un Habermas),
ma riconosce che occorre pensare in modo “radicale ed innovativo” (p.20) se si
vogliono affrontare le sfide. Una delle ipotesi che avanza è l’elezione diretta
del Presidente dell’Unione (mentre,
probabilmente non a caso, non spende molto nel potenziamento del Parlamento
Europeo).
Chiaramente per lui è necessaria una
maggiore e più efficace “unione bancaria” (p.29), la mutualizzazione dei debiti
(33), la rimodulazione delle competenze (con qualche restituzione, p.40), ed
una radicale riorganizzazione del sistema economico mondiale.
Proprio questa ultima necessità, causata
dal fatto che la crisi è mossa dalla trasformazione dei modi di produzione (con
la fusione tra manifattura e servizi, e la sostituzione di molti lavori), rende
necessario un protagonismo unitario dell’Unione. L’autore utilizza studi della Federazione di Robotica (nota pag.221)
per suggerire che la trasformazione dei modi di produzione sia comunque
creatrice di più occupazione di quella che distrugge. E comunque non sia in
alcun modo gestibile. Resta quindi solo
l’adattamento.
A suo parere l’azione deve svolgersi in più
direzioni:
-
all’interno
nel riadattare il modello sociale alla necessità della competizione
internazionale e quindi alla crescita (tramite l’implementazione della
flexsicurity, p.93), anche tramite la capacità di costringere e disciplinare
dell’austerità (concetto che richiama a pag. 63 e 98). L’austerità, in
particolare, è motivata non solo dalla logica contabile di ridurre le spese per
onorare i debiti, ma anche dalla ricerca di uno shock terapeutico; “il nocciolo delle politiche di austerità è
costringere al cambiamento strutturale”. Essa è, secondo la metafora di
Giddens, una amara medicina con gravi effetti collaterali, che va ben calibrata
per evitare che faccia troppi danni al paziente. Nella sua analisi, che
utilizza testi ufficiali della Commissione e dunque inclina ad essere
assolutoria, il caso Greco è vicino ad aver ucciso il paziente.
Sull’adattamento del modello sociale,
suo antico cavallo di battaglia, dato che Giddens è stato l’ispiratore delle
innovazioni liberali del mondo del lavoro condotte “da sinistra” negli anni
novanta, scrive: “la domanda cruciale non
è tanto se il modello sociale sia praticabile in un periodo di recessione, ma
come il modello sociale si possa adattare e riformare in modo da contribuire
alla ripresa economica” (p.87). In altre parole è la ripresa economica ad
essere lo scopo dell’azione sociale e politica, non la sostenibilità e l’equità
delle condizioni di vita. Nel capitolo successivo ribadisce che lo scopo deve
essere rendere possibile “assumersi dei rischi”, come stile di vita che ha
“spesso effetti positivi” (evidentemente sulla crescita aggregata).
-
All’esterno
invece bisogna operare politiche energiche per favorire la
reindustrializzazione (p.61) e il rientro dei capitali dai paradisi fiscali
(p.80), e implementando l’accordo di libero scambio con gli USA (p.83 e 185).
Ma anche promuovendo politiche più energiche (a partire dal ETS) verso la lotta
al cambiamento climatico. In questo senso spende parole per un approccio
energico ma pragmatico (che parti da un’analisi di rischio e non dal Principio
di Precauzione, e dunque includa, se necessario controverse opzioni come lo
shale gas).
Se la Germania non accettasse la logica
di interdipendenza che è implicita necessariamente nel progetto europeo, letto
in questo modo, l’esito sarebbe la disintegrazione dell’area Euro e poi della
stessa Unione Europea. Allora, per Giddens, i diversi paesi sarebbero
abbandonati alle forze troppo grandi della globalizzazione. Da essa non sarà in
alcun modo possibile prescindere (del resto è una <condizione di vita>,
qualunque cosa possa significare).
E la sostituzione dell’Unione con altre
strutture geopolitiche sarebbe il problema della fase complessa e pericolosa
che si aprirebbe.
La crisi
dell’Euro è comunque il nodo centrale, la sua fine avrebbe
<incalcolabili> conseguenze (nel senso letterale), e potrebbe essere
molto costosa (vengono citati studi di tenore terroristico che parlano di
migliaia di miliardi di danni), in particolare ma non solo per la Germania.
Chiaramente se la strada dell’integrazione politica e della solidarizzazione
fosse impraticabile resterebbe forse il male minore.
In quel caso, sostiene Giddens, il danno
sarebbe sia interno sia esterno (sul “ruolo globale”), e la UE rischierebbe di
non poter svolgere il ruolo che gli spetta nella ricostruzione del quadro
spezzato della deregolamentazione, insieme a USA e Cina.
Altrimenti, se queste tensioni saranno
governate: “un’Unione Europea più
integrata potrebbe diventare una potenza mondiale” (resta da capire se a
questo prezzo ne varrebbe la pena, p.215)

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