In questo libro,
del 2004, il grande sociologo polacco propone una lettura del progetto europeo
la cui generosità va inquadrata nel dibattito sulla Costituzione Europea.
Come ricorderemo nel 2003, la Convenzione Europea aveva avviato il processo di
ratifica della Costituzione che doveva unificare i vari Trattati costitutivi. Il
progetto si scontrerà con la mancata ratifica francese e belga e sarà aggirato
nel Trattato di Lisbona del 2009. Sotto
molti aspetti un arretramento: anche nei termini del compito che l’autore
assegna in questo testo.
Se questo
dibattito è ciò che muove la penna di Bauman, si può dire che la prende
alquanto larga; ricostruisce in alcune belle pagine cosa l’Europa è stata per
buona parte della sua storia e soprattutto nell’Età degli Imperialismi, quando
ha dominato il mondo pur nella divisione dei suoi stati. Quindi individua
niente di meno che il compito di reinventare un nuovo modo di coniugare il
potere e la politica nelle condizioni della modernità liquida, e lo affida al
progetto europeo. Questo dovrà “superare una sella” della storia, come ha fatto
nel 1800, ed altre volte nella storia, ricostruendo l’arte di convivere in pace
(diciamo: più o meno). L’obiettivo sarebbe in altre parole superare la “guerra
di posizione”, l’uno contro l’altro, degli stati e delle altre forze locali
nell’attrazione del capitale mobile, che depotenzia costantemente la capacità
di dirigere il nostro destino.
Nel testo, come
vedremo, è richiamato il vasto dibattito di quegli anni sulla presunta
differenza essenziale tra l’atteggiamento americano (regno di marte) ed europeo
(venere), rispettivamente imperniato sull’hard power (dell’era Bush in
particolare) ed il soft power (ma fortemente espansivo) europeo; da questa
evocazione trae la convinzione che il compito spetti alla civiltà da questa
parte dell’Atlantico.
L’Europa è un’avventura perché esprime una cultura intrinsecamente
espansiva, che rischia e mette alla prova la propria fortuna, che non riconosce
limiti e frontiere; una cultura dinamica e direi per certi versi
intrinsecamente arrogante. Una cultura imperialista e globalizzante. Tale è
stata per secoli e tale, probabilmente, è ancora a tratti (o meglio in alcuni
tratti) se vista da “fuori”: dalla Russia, dalla Cina, dall’Ucraina dell’Est,
probabilmente da parte della Turchia e via dicendo.
A lungo, ci
ricorda l’europeo periferico Bauman, essa è stata il sovrano del mondo. Ha
identificato se stessa e il proprio dominio con la modernizzazione, con il
progresso. Ancora oggi c’è chi, nell’Europa allargata agli USA, al Commonwealt
ed al Giappone, vede identificati il progresso e la civiltà moderna.
Ma in nell’ultima
parte dello scorso secolo, invece, l’Europa (anche allargata) ha scoperto, con
sconcerto misto a incredulità, che è possibile una modernizzazione senza
europeizzazione. Che altri modelli sociali, politici ed economici sono
possibili. Probabilmente, questo Bauman non lo ricorda, il cosiddetto “Consenso
di Washington”, che ha ispirato le politiche imperialiste e omologanti del FMI
e del WTO, come della Banca Mondiale, negli anni novanta e zero, è espressione
di questo estremo sforzo. Quello di
negare questa possibilità.
A questo punto
invece, secondo Bauman, l’Europa non si può fermare alla scoperta della sua
marginalità, al diventare periferia. Deve ridefinire una “missione planetaria”,
ritrovando il tempo dell’”avventura europea”, o “dell’Europa come avventura”
(p. 36). Il compito storico è precisamente di ripetere l’atto di inventare le
nazioni, che essa compì alla vista del 1800, “inventando l’umanità”.
In questo compito,
che molto immodestamente Bauman assegna all’Europa europea, non trova al suo
fianco il potente alleato americano; perso nella sua politica di potenza e nel
sogno di dominazione solitaria. Intendiamoci, questo compito è rivolto anche al
suo interno (forse soprattutto), nella misura in cui è compiuto verso la
ripoliticizzazione dell’economia, cioè verso la sopravvivenza della democrazia.
Dunque è uno
sforzo anche verso quelle politiche di attrazione subalterna che Habermas
chiama “guerra di posizione”, ed
altri marketing territoriale, rivolte alla creazione delle condizioni di
attrazione e ritenzione del capitale per via di incoraggiamento, stimolo,
blandizia, corteggiamento. Lo sforzo di non limitarsi ad una sovranità
residuale, limitata dalle condizioni di attrazione; una sovranità dalle
trincee.
Si tratta invece
di venire a capo di quel potere a-democratico, reale, mobile ed interconnesso,
fluido, che sfugge sistematicamente al controllo delle leggi dello Stato e lo
vanificano. Facendolo precipitare in una crisi di legittimazione di cui tutto
il discredito verso la politica e tutti gli atteggiamenti populisti
contemporanei è figlio (p. 144).
L’Europa, per Bauman, deve essere l’alternativa a
tutto questo. Ciò significa
interrompere lo smantellamento dello stato sociale, la diaspora dei “ridondanti”,
degli inutili, delle scorie esportate nei terreni di nessuno.
E’ per questo
che un simile enorme compito, richiede di “gettare il peso dell’Europa sul
piatto” ed offrire una reale alternativa al mondo hobbesiano.
Il libro,
ovviamente, non contiene una mappa dei nuovi territori che si apriranno, una
volta superato il valico: questi dovranno essere scoperti e mappati. Indica
solo il lungo sentiero da salire al termine del quale non troveremo uno Stato
ingrandito, ma la conciliazione tra democrazia e potere economico e nuove forme
di convivenza.
Sin qui il testo
di Zygmund Bauman, nel 2004, a metà del percorso di creazione di una “Costituzione”
che conteneva ambigui compromessi tra alte affermazioni e sostanziale
riaffermazione della centralità dell’economico. Tutto il dibattito sulle
tradizioni comuni, che ha impegnato i costituzionalisti ed importanti
intellettuali europei, è andato, per così dire contro il muto del rigetto
francese e belga e, ancora più, contro il muro della crisi.
Ma soprattutto
in quegli anni (e il dibattito francese che porterà al rigetto lo evidenzia con
chiarezza) il testo che emerge va in direzione ambiguamente opposta all’indicazione
di Bauman: pur nella mancanza di confini, anzi nella continua spinta espansiva
che porta l’Unione Europea fino agli attuali 28 membri, prevale la posizione
inglese di rifiuto dell’unione politica. Quindi di rifiuto dello stato sociale europeo,
della mutualizzazione; nelle condizioni di forza schiacciante del capitale
internazionale e finanziario (di cui non a caso uno dei centri è a Londra) ciò
significa rigettare l’intero progetto proposto dal sociologo polacco.
I francesi, pur
con tutta l’ambiguità del loro orientamento all’unione politica (più affettivo
che sostanziale probabilmente, e ormai neppure quello), lo ebbero chiaro: in un’Europa
a 25 con il potere di veto ai singoli stati, l’asse franco-tedesco viene
indebolito e l’intera costruzione europea si trova a dipendere dal doppio
potere esterno dei capitali finanziari internazionali e dal tutore benevolo
americano (per via della NATO).
Il rigetto della
Costituzione, ha interrotto quel progetto, ma il Trattato di Lisbona ne ha ripreso, rafforzandoli, i motivi liberisti.
Con una significativa eccezione: l’ampliamento dei poteri del Parlamento Europeo.
Nelle diverse
condizioni politiche attuali, questo potrebbe riaprire la partita.

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