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domenica 6 luglio 2014

Zygmund Bauman, “L’Europa è un’avventura”

In questo libro, del 2004, il grande sociologo polacco propone una lettura del progetto europeo la cui generosità va inquadrata nel dibattito sulla Costituzione Europea. Come ricorderemo nel 2003, la Convenzione Europea aveva avviato il processo di ratifica della Costituzione che doveva unificare i vari Trattati costitutivi. Il progetto si scontrerà con la mancata ratifica francese e belga e sarà aggirato nel Trattato di Lisbona del 2009. Sotto molti aspetti un arretramento: anche nei termini del compito che l’autore assegna in questo testo.

Se questo dibattito è ciò che muove la penna di Bauman, si può dire che la prende alquanto larga; ricostruisce in alcune belle pagine cosa l’Europa è stata per buona parte della sua storia e soprattutto nell’Età degli Imperialismi, quando ha dominato il mondo pur nella divisione dei suoi stati. Quindi individua niente di meno che il compito di reinventare un nuovo modo di coniugare il potere e la politica nelle condizioni della modernità liquida, e lo affida al progetto europeo. Questo dovrà “superare una sella” della storia, come ha fatto nel 1800, ed altre volte nella storia, ricostruendo l’arte di convivere in pace (diciamo: più o meno). L’obiettivo sarebbe in altre parole superare la “guerra di posizione”, l’uno contro l’altro, degli stati e delle altre forze locali nell’attrazione del capitale mobile, che depotenzia costantemente la capacità di dirigere il nostro destino.
Nel testo, come vedremo, è richiamato il vasto dibattito di quegli anni sulla presunta differenza essenziale tra l’atteggiamento americano (regno di marte) ed europeo (venere), rispettivamente imperniato sull’hard power (dell’era Bush in particolare) ed il soft power (ma fortemente espansivo) europeo; da questa evocazione trae la convinzione che il compito spetti alla civiltà da questa parte dell’Atlantico.

L’Europa è un’avventura perché esprime una cultura intrinsecamente espansiva, che rischia e mette alla prova la propria fortuna, che non riconosce limiti e frontiere; una cultura dinamica e direi per certi versi intrinsecamente arrogante. Una cultura imperialista e globalizzante. Tale è stata per secoli e tale, probabilmente, è ancora a tratti (o meglio in alcuni tratti) se vista da “fuori”: dalla Russia, dalla Cina, dall’Ucraina dell’Est, probabilmente da parte della Turchia e via dicendo.
A lungo, ci ricorda l’europeo periferico Bauman, essa è stata il sovrano del mondo. Ha identificato se stessa e il proprio dominio con la modernizzazione, con il progresso. Ancora oggi c’è chi, nell’Europa allargata agli USA, al Commonwealt ed al Giappone, vede identificati il progresso e la civiltà moderna.
Ma in nell’ultima parte dello scorso secolo, invece, l’Europa (anche allargata) ha scoperto, con sconcerto misto a incredulità, che è possibile una modernizzazione senza europeizzazione. Che altri modelli sociali, politici ed economici sono possibili. Probabilmente, questo Bauman non lo ricorda, il cosiddetto “Consenso di Washington”, che ha ispirato le politiche imperialiste e omologanti del FMI e del WTO, come della Banca Mondiale, negli anni novanta e zero, è espressione di questo estremo sforzo. Quello di negare questa possibilità.

A questo punto invece, secondo Bauman, l’Europa non si può fermare alla scoperta della sua marginalità, al diventare periferia. Deve ridefinire una “missione planetaria”, ritrovando il tempo dell’”avventura europea”, o “dell’Europa come avventura” (p. 36). Il compito storico è precisamente di ripetere l’atto di inventare le nazioni, che essa compì alla vista del 1800, “inventando l’umanità”.
In questo compito, che molto immodestamente Bauman assegna all’Europa europea, non trova al suo fianco il potente alleato americano; perso nella sua politica di potenza e nel sogno di dominazione solitaria. Intendiamoci, questo compito è rivolto anche al suo interno (forse soprattutto), nella misura in cui è compiuto verso la ripoliticizzazione dell’economia, cioè verso la sopravvivenza della democrazia.
Dunque è uno sforzo anche verso quelle politiche di attrazione subalterna che Habermas chiama “guerra di posizione”, ed altri marketing territoriale, rivolte alla creazione delle condizioni di attrazione e ritenzione del capitale per via di incoraggiamento, stimolo, blandizia, corteggiamento. Lo sforzo di non limitarsi ad una sovranità residuale, limitata dalle condizioni di attrazione; una sovranità dalle trincee.
Si tratta invece di venire a capo di quel potere a-democratico, reale, mobile ed interconnesso, fluido, che sfugge sistematicamente al controllo delle leggi dello Stato e lo vanificano. Facendolo precipitare in una crisi di legittimazione di cui tutto il discredito verso la politica e tutti gli atteggiamenti populisti contemporanei è figlio (p. 144).
L’Europa, per Bauman, deve essere l’alternativa a tutto questo. Ciò significa interrompere lo smantellamento dello stato sociale, la diaspora dei “ridondanti”, degli inutili, delle scorie esportate nei terreni di nessuno.
E’ per questo che un simile enorme compito, richiede di “gettare il peso dell’Europa sul piatto” ed offrire una reale alternativa al mondo hobbesiano.

Il libro, ovviamente, non contiene una mappa dei nuovi territori che si apriranno, una volta superato il valico: questi dovranno essere scoperti e mappati. Indica solo il lungo sentiero da salire al termine del quale non troveremo uno Stato ingrandito, ma la conciliazione tra democrazia e potere economico e nuove forme di convivenza.

Sin qui il testo di Zygmund Bauman, nel 2004, a metà del percorso di creazione di una “Costituzione” che conteneva ambigui compromessi tra alte affermazioni e sostanziale riaffermazione della centralità dell’economico. Tutto il dibattito sulle tradizioni comuni, che ha impegnato i costituzionalisti ed importanti intellettuali europei, è andato, per così dire contro il muto del rigetto francese e belga e, ancora più, contro il muro della crisi.
Ma soprattutto in quegli anni (e il dibattito francese che porterà al rigetto lo evidenzia con chiarezza) il testo che emerge va in direzione ambiguamente opposta all’indicazione di Bauman: pur nella mancanza di confini, anzi nella continua spinta espansiva che porta l’Unione Europea fino agli attuali 28 membri, prevale la posizione inglese di rifiuto dell’unione politica. Quindi di rifiuto dello stato sociale europeo, della mutualizzazione; nelle condizioni di forza schiacciante del capitale internazionale e finanziario (di cui non a caso uno dei centri è a Londra) ciò significa rigettare l’intero progetto proposto dal sociologo polacco.
I francesi, pur con tutta l’ambiguità del loro orientamento all’unione politica (più affettivo che sostanziale probabilmente, e ormai neppure quello), lo ebbero chiaro: in un’Europa a 25 con il potere di veto ai singoli stati, l’asse franco-tedesco viene indebolito e l’intera costruzione europea si trova a dipendere dal doppio potere esterno dei capitali finanziari internazionali e dal tutore benevolo americano (per via della NATO).

Il rigetto della Costituzione, ha interrotto quel progetto, ma il Trattato di Lisbona ne ha ripreso, rafforzandoli, i motivi liberisti. Con una significativa eccezione: l’ampliamento dei poteri del Parlamento Europeo.


Nelle diverse condizioni politiche attuali, questo potrebbe riaprire la partita.

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