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giovedì 14 agosto 2014

Michele Boldrin Dobbiamo preoccuparci della deflazione? Forse che sì forse che no


Sul blog Noise from America, Michele Boldrin, insieme a Giovanni Federico e Giulio Zanella si impegnano eroicamente a contrastare (come fa in modo alquanto più naif Scacciavillani in questo intervento coevo) la convinzione del Fondo Monetario Internazionale, di tutte le Banche Centrali del mondo (a partire dalla FED, e dalla BOE, o dalla BOJ, noti covi sovversivi) che la deflazione nelle attuali condizioni sia una minaccia per l’area Euro e l’Italia in particolare.
Nell’articolo Boldrin, economista con una ampia carriera all’estero e fortemente schierato su posizioni “neoclassiche” (liberiste) da poco anche politico (Fare per fermare il declino), nel ruolo già di Giannino, capolista di Scelta Europea alle ultime elezioni europee, in particolare riconosce che la deflazione, se prodotta per periodi consistenti, produce danni alla sostenibilità del debito pubblico ed effetti distributivi, ma nega abbia una qualche relazione con la crescita.

Ora l’affermazione che non ci sia relazione necessaria con la crescita può risultare pertinente e significativa solo a chi soffrisse di feticismo. A cosa giova la crescita in sé? Ciò che conta è la distribuzione e la sostenibilità, la qualità e coesione della società che è definita nei processi economici. Dunque, anche se fosse vera, l’ammissione di Boldrin sarebbe da sola di gran lunga sufficiente per confermare l’allarme e la necessità di agire per prevenirla
Secondo il noto economista liberale comunque il fatto che nel 2013, nell’area Euro, l’indice dei prezzi al consumo sia aumentato solo del 0,85%, e che invece da maggio 2013 a maggio 2014 si registri un ulteriore rallentamento dello 0,3%, pur indicando la probabilità dell’innesco di una “spirale deflazionistica” come molti temono, non giustifica l’allarme. Infatti la convinzione che la deflazione “generi” il ristagno dell’attività economica, attivando un movimento di autorafforzamento, non è giustificata per lui né dalle evidenze empiriche, né dalla logica economica.

Ma andiamo con ordine: l’idea che sia necessariamente un male, e quindi vada contrastata con tutti i mezzi (in quanto “premessa e veicolo” della stagnazione economica), è ricondotta ad un senso comune per il quale porta l’evidenza di un recente post di Krugman, ma che gli appare incoerente con la “ricerca economica” che avrebbe portato “ampia evidenza contraria”. Questa ampia evidenza della “ricerca economica” (categoria alla quale, evidentemente, non ascrive il prestigioso professore americano, vincitore di nobel, e titolare di cattedre in Università di èlite) è ricondotta a due paper: il primo di Atkenson e Kehoe, del 2004, si chiedeva se esiste una relazione empirica generale tra deflazione e depressione; il secondo, di Beckworth del 2011 si interroga sulle conseguenze per la stabilità macroeconomica della deflazione guidata dall’offerta.
Nel primo viene sostenuto che la deflazione non è statisticamente connessa con la depressione, in quanto ci sono casi di presenza della prima ed assenza della seconda o di presenza di una delle due senza l’altra. Alla fine, secondo Boldrin, c’è un solo evidente esempio (sul quale Scacciavillani racconta la favoletta di Milton Friedman che dà tutta la colpa alla FED) legato alla Grande Depressione. Quando una crisi di sovraindebitamento che ricorda tanto la nostra provocò, in sincronia con una trasformazione strutturale della struttura produttiva e dei rapporti internazionali che ha somiglianze straordinarie con la nostra, una compresenza di calo dei prezzi e di depressione economica durata da cinque a sette anni, secondo i paesi considerati.

Deflazione  e crescita PIL, anni trenta novecento

Secondo Boldrin (e Scacciavillani) questa è la fonte della leggenda che la deflazione sia sempre un male. Invece si tratta dell’eccezione.

Vediamo perché, per ora tralasciando che anche se lo fosse sarebbe comunque un precedente pericoloso, data la somiglianza delle situazioni ed il carattere assolutamente eccezionale di questa crisi che stiamo attraversando: per i nostri la famosa “regolarità empirica”, addirittura “deducibile” dalla storia nella quale tanto spesso la disciplina economica si rifugia (con insopportabile leggerezza metodologica), direbbe che ci sono stati moltissimi casi di deflazione associata a “forte crescita economica”.
Quali? Alla fine l’esempio che viene portato è il ventennio tra il 1860 ed il 1880-90. In altre parole, Boldrin con i suoi coautori propongono di considerare esempio sovrapponibile la dinamica economica registrata nella metà dell’ottocento (con tutte le differenze di rilevazione, linguaggio, definizioni, aspettative e teorie sottese) nelle condizioni sociali, politiche, tecnologiche e culturali dell’Epoca dell’Imperalismo, con quelle del secondo decennio del terzo millennio che viviamo.
Deflazione e crescita PIL, metà ottocento

Sinceramente non saprei neppure da dove iniziare per evidenziare le enormi differenze tra i due casi messi a confronto (al di là degli immensi problemi e controverse metodologiche sulla lettura dei dati, la loro affidabilità, credibilità, significato). Credo che mi servirebbe un libro. La “ricerca economica” evidentemente non ne ha bisogno, trae lezioni e conclusioni definitive (cioè “leggi generali” dalle quali come vedremo derivare le azioni corrette delle istituzioni) dalla diretta messa a contatto di “fatti stilizzati” scheletrici e conclude quindi che “l’esperienza degli ultimi duecento anni rivela quindi due tipi di deflazione, una ‘buona’ che si è accompagnata alla crescita, ed una ‘cattiva’ che si è accompagnata alla stagnazione o addirittura alla depressione economica”.
Faccio un piccolo inciso per capirci meglio: qualche anno fa (in effetti parecchi) passai un paio d’anni della mia vita a studiare il caso della trasformazione urbana della Parigi di Haussmann, ricavandone un articolo e una collaborazione in un libro di Laterza, immeritatamente citati nella pagina di Wikipedia; pur avendo speso un certo tempo a indagare sugli effetti sociali, economici e fisici del grande piano di opere pubbliche (ma anche di progettazione amministrativa) e la cultura  che la sottendeva, non ho mai pensato di trarne delle regole, o regolarità “empiriche” sulla trasformazione urbana in sé applicabili al presente. Si tratta di un “esempio” che, per essere compreso ed essere eventualmente utile, in prima istanza va rispettato.
Evidentemente la “ricerca economica” non ha questi scrupoli (forse perché ha più strettamente a che fare con il potere) e non si fa scrupolo, come fanno Andy Atkeson e Pat Kehoe, nell'articolo citato poco sopra, a cercare di “verificare l'esistenza di una relazione stabile fra variazione dei prezzi e variazione del PIL in un campione di 17 paesi dal 1820 al 2000”. Naturalmente non la trovano.
Se l’avessero trovata avrebbero compiuto uno straordinario esperimento di metafisica sperimentale.

Con le parole di Boldrin, al quale sembra che ciò significhi qualcosa di più di una ovvietà: “non sembra esistere nei dati alcuna relazione statistica sistematica fra deflazione e depressione economica”.

Bene, dopo esserci accertati che il mondo è vario, e le nostre rozze etichette non lo catturano, si passa alla “teoria”, cioè alla sistematica applicazione della logica, si spera unita al buon senso. Secondo Boldrin, non solo “la presunzione che la deflazione sia necessariamente un male è basata su inferenza incorretta dalla più recente esperienza di deflazione”, (e sin qui sarei d’accordo, perché qualsiasi inferenza che faccia discendere da un caso individuale una regola generale a priori è “incorretta”; ed inoltre specificatamente detta regola, nella formulazione dell’autore, è assurda) ma inoltre secondo lui è ancora più indebolita da un “pregiudizio” che stranamente chiama “artificio retorico” (le due cose non sono sovrapponibili) e descrive con queste parole: “se è vero (ma è vero?) che il livello di attività economica (o dell'occupazione) cresce all'aumentare del tasso d'inflazione, allora (in questo ‘allora’ sta l'artificio) più bassa è l'inflazione minore è il tasso di crescita dell'attività economica”.
Direi che siamo d’accordo, certamente chi si trovasse effettivamente a ragionare (o meglio a lasciarsi guidare dai pregiudizi) in termini così rozzi, come suppone faccia l’immaginario avversario di Boldrin, potrebbe anche cadere nell’ipotesi che la relazione posta vada in entrambe le direzioni indipendentemente dalle condizioni individuali. Addirittura, potrebbe inferire, “che se il tasso di variazione dei prezzi è negativo allora tale deve essere anche il tasso di variazione del PIL”. Per inciso, cosa c’entri la retorica con questi semplici errori cognitivi e logici forse Boldrin ce lo spiegherà in un altro post, ma andiamo avanti.

Io starei per dire che Boldrin si costruisce retoricamente un fantoccino per abbatterlo con più facilità (un tizio ideale così sprovveduto da formulare leggi generali sulla base di un solo caso lontano quasi due secoli e di formularle in modo così imprudente) quando scopriamo che si tratterebbe solo di una legittima deduzione di uno studente di economia poco in contatto con il mondo (per non parlare della storia) che avesse guardato distrattamente la “curva di Phillips”; che ipotizza appunto una relazione generale fra tassi di variazione di prezzi e disoccupazione. Il generoso Boldrin ce la fornisce nella versione dell’articolo originale del 1958: essa “mette in relazione disoccupazione e variazione dei salari nominali: come si vede, la curva minacciava disoccupazione a due cifre in caso di deflazione, anche modesta”.
Curva di Philipps

Rozzo metafisico o studente che sia, abbiamo capito che non c’è una relazione così automatica e che chi lo pensa sbaglia. Potremmo fermarci qui.
A questo punto, però, le cose si fanno interessanti, perché Boldrin passa su un piano diverso e, ricordando forse che l’economia sarebbe pur sempre una scienza sociale, inizia ad individuare le dinamiche che generano i fenomeni che ha stilizzato nei termini “deflazione” e “crescita”. Quindi propone di considerare due tipi di deflazione: una “buona” (grazie per le virgolette) associata alla crescita; ed una “cattiva” alla depressione.
Con queste parole prestate dal linguaggio morale e da quello naturale si corrono molti rischi, ma il buon Boldrin sembra saperlo e passa quindi sul concreto, raccontandoci che la riduzione dei prezzi generalizzata può darsi sia per effetto di uno shock che riduca improvvisamente la domanda di beni o servizi (ad esempio per un restringimento del credito a seguito di eccesso di debito improvvisamente percepito), che costringe i produttori ad abbassare i prezzi per inseguirla; oppure l’analogo fenomeno può essere prodotto dal “lato” opposto, cioè dell’offerta, quando la nuova comparsa di fattori produttivi (ad esempio dalla Cina, a seguito dell’entrata della stessa nel WTO nel 2001) o un incremento della produttività totale dei fattori produttivi (ad esempio in seguito alle tecnologia labor saving) consente alle imprese di abbassare i prezzi, in questo costrette dalla concorrenza.
Queste dinamiche stilizzate hanno ovviamente un segno diverso, in quanto la seconda determina un calo dei prezzi senza danno per i produttori (sopravvissuti) e vantaggio per i consumatori per il potere di acquisto e quindi per lo stile di vita; la prima genera invece principalmente sofferenza nella catena dei produttori e induce quindi processi di restringimento della base produttiva.

Riducendo il grado di stilizzazione, e reintroducendo tempo e spazio, si potrebbe vedere che anche la “buona”, in fondo non sia questo angelo, ma andiamo avanti per ora.
Secondo Boldrin la deflazione dal lato dell’offerta è quella degli anni 30, mentre quella dal lato della domanda (si chiama in effetti “rivoluzione industriale”) è quella dell’ottocento. Gli operai degli slums di Manchester, se potessero essere evocati in questa pagina, avrebbero un’altra visione della fatina buona “deflazione” e del golden standard alla cui croce d’oro finirono attaccati, ma ancora andiamo avanti.
La conclusione che l’autore trae da questi voli assai alti è che “se dobbiamo preoccuparci o no per le attuali prospettive deflazionistiche dipende dunque in larga misura dalla natura degli shock sottostanti o, come argomentiamo sotto, dai cambiamenti di lungo periodo che sono in corso”. Sempre il “lungo periodo” (quello in cui <saremo tutti morti>, per fare un’appropriata citazione).

Per fortuna non sappiamo, e neppure il valoroso metafisico Boldrin lo sa, se questa sia più offerta o domanda: “più probabilmente, entrambi gli shock (da domanda e da offerta) sono presenti in un mix che è difficile decomporre, mentre Krugman, Draghi (Draghi?) e (quasi) tutti i commentatori si preoccupano della deflazione perché assumono che si tratti di una deflazione primariamente da domanda”. Dopo aver coraggiosamente indicato quali propri bersagli un premio nobel, il Presidente della BCE e addirittura tutto il resto del mondo (quasi), i nostri autori affermano che si tratta di un’assunzione “non molto plausibile alla luce di quando sta accadendo da dieci anni a questa parte” nell'economia mondiale. Boldrin, evidentemente, reputa di avere migliori informazioni, quali esattamente? In fondo è un consulente della FED di Sant Louis, potrebbe istruire la Yallen che sta sbagliando tutto (per non parlare di Obama). La causa della tendenza deflattiva che colpisce il mondo (cd. “ipotesi della stagnazione secolare”, ma orba e senza le sue conclusioni) per Boldrin è sostanzialmente e principalmente il progresso tecnico  e la globalizzazione che hanno esercitato una enorme pressione al ribasso sui prezzi dagli anni novanta, al contempo però provocando una forte crescita della domanda aggregata.
La domanda aggregata? Con un salto enorme, da questa descrizione generale che abbraccia trenta anni e cinque continenti i nostri passano con repentino gesto a dimostrare la seconda parte della loro affermazione (che la domanda aggregata cresce, contro l’opinione di gente come Spence, Krugman e Rajan, per dire alcuni) direttamente dalla ripresa delle esportazioni nell’ultimo biennio.
Tanto basta a confutare Krugman, Draghi, Bernanke, Yellen, …

A questo punto (forse sospettando che la sua trincea, alla fine, non sia tanto solida) Boldrin ammette che pure se fosse in corso una crisi più di domanda che di offerta (in effetti avremmo questa leggera impressione), sul piano logico, ciò non avrebbe comunque conseguenze negative sulla crescita (ma non aveva inferito dalla storia almeno questa regolarità? Potenza dei testi lunghi, ha dimenticato il primo passaggio).
Infatti l’idea che la deflazione indurrebbe a rimandare gli acquisti, cosa che genererebbe invenduti, dunque sovraproduzione, quindi calo dei prezzi e via dicendo, è infondata perché consiste anche nel rinvio del godimento del bene o servizio acquistato. Infatti, attenzione, se i prezzi “rimangono stabili o calano dello 0,2%” non ho in effetti ragione di rinviare. Come dire, se non c’è deflazione significativa non ci sono neppure i suoi effetti.
Complimenti, questa è la potenza della metafisica inconsapevole, Boldrin presume che l’etichetta “deflazione”, che applica a fenomeni sociali complessi, implichi sempre le stesse conseguenze a qualsiasi scala, o –più probabilmente- usa retoricamente questa convinzione che instilla nel lettore.

Ma andiamo avanti che è interessante: nel seguito distingue, giustamente, tra acquisti di beni durevoli e di beni di consumo immediato e di servizi, i secondi e alcuni dei terzi possono essere con più difficoltà rinviati (non è proprio così vero, chiedere ai macellai per informazioni). A questo punto salta però di nuovo nella scarpa dell’empirista e con gesto atletico chiede di controllare i dati presenti.
Non trovandoli inferisce che il fenomeno non c’è. Di più, che non essendoci non c’è la relazione.

MA l’inflazione non era al 0,5%? Nei dati disponibili non era un fenomeno in avvio? Come può essere che sia già radicato nelle abitudini di acquisto?
Cito: “invece basta andare qui e controllare gli indici settoriali dei prezzi per scoprire che così proprio non è”. Scopre che la riduzione è “pressoché omogenea” (mi pare che i venditori di auto potrebbero essere di altro avviso) e quindi conclude che “rimandare acquisti di beni non durevoli e di servizi, ossia di più dei 2/3 della spesa totale per consumi, è alquanto impossibile”.
Non basta, appena fatto questa operazione di immersione nella realtà tradotta in numeri, forse non contento della solidità del risultato, ri-salta nell’inferenza storica, ma questa volta al contrario: dato che sta osservando una “legge generale” deve per definizione applicarsi anche al 1800. Se succedeva nel 1931 doveva accadere anche nel 1870. Forse, in effetti dipende: dalla struttura dei consumi, dalle aspettative di reddito futuro ed in particolare dalla flessibilità dei salari.
Non avendo trovato facile via neppure su questo terreno non resta che saltare sull’altro cavallo di battaglia, la flessibilità dei salari; cosa che, comportando calo degli stessi al progredire del calo dei prezzi, inibirebbe l’effetto di rinvio degli acquisti perché “io mi aspetto che anche i miei redditi diminuiranno in termini nominali e quindi non ho ragione di differire l'acquisto”. Sembra plausibile, no?
Una ipotesi logica (ma fondata su un presupposto fattualmente debole, come vedremo) che però, necessità di rafforzamento tramite una “valutazione empirica” (povero Popper).

Mettendosi alla sua ricerca il nostro non trova evidenze “robuste” (cioè, immagino, prodotte dal suo clan) dell’ipotesi che “i consumatori rinviino l'acquisto di beni durevoli durante una deflazione”; dove ci sono indagini, come in Giappone, sono ridotte ad effetti marginali. Ogni punto percentuale di deflazione attesa comporterebbe solo 1% di acquisti in meno di beni durevoli.
Questo, per Boldrin è marginale. Vediamo allora che succede se la deflazione è del 5% (tipo quella spagnola oggi) e si conserva per cinque anni (tipo quella degli anni trenta): si avrebbe un rinvio dell’acquisto di beni durevoli (che sarebbero quelli generati dalla nostra industria con l’eccezione di quella agroalimentare) del 25% cumulato. In effetti abbastanza irrilevante.

In ogni caso è dichiarato irrilevante, allora si passa avanti, perché la deflazione ha un effetto non solo sulle industrie, ma anche sui debiti. E qui  Bodrin fa qualche concessione perché ammette che in effetti incrementa il peso del debito non indicizzato. Si dice normalmente che questo farebbe contrarre la spesa ai debitori e andrebbe ad ulteriore danno delle industrie di riferimento.
Giustamente gli autori ricordano che “per ogni debito c’è un credito”, e dunque se qualcuno paga di più in termini reali, qualcun altro incasserà di più. Per usare questo argomento occorre presupporre che la ragione della crisi europea non esista, e il nord Europa non sia nella complessiva posizione del creditore (povero Sarrazin, non ha capito niente) e assumere “che il debito pubblico e privato di un paese sia detenuto in larga parte all'interno del paese stesso”. A questo punto ci sarebbe solo uno spostamento dai debitori ai creditori. E “si avrebbe un effetto depressivo della deflazione attraverso il canale del debito se e solo se i creditori fossero meno propensi al consumo dei debitori”. Una ipotesi che fa venire da sempre l’orticaria al clan di Boldrin, e che viene aggredita con una raffica di controargomenti: intanto se i “poveri” hanno un salario fisso (magari) il potere di acquisto di questo sale, lasciando il loro rapporto debito/salario invariato. Poi se anche fosse (ancora lo stratagemma della doppia trincea) si avrebbe solo un effetto sulla composizione e non sulla domanda aggregata: “infatti, i ricchi creditori magari consumano una percentuale minore del loro reddito ma, certamente, lo ‘spendono’ tutto (non sotterrano banconote in giardino, cioè). La parte che non consumano la risparmiano investendola in questa o quell'altra attività. Ed anche questo genera domanda.
E’ l’antico argomento di Say, che presuppone ovviamente una economia chiusa e non finanziarizzata, oltre che disinteressarsi della distribuzione della ricchezza e del potere. Al massimo si potrebbe considerare a livello del mondo intero e per unità temporali molto lunghe. Nel concreto i risparmi vanno a “far surf” nei paradisi off shore (ne stanno aprendo di nuovi insospettabili in Cina, mi dicono) e la relativa domanda magari sarà quindi a Shangai.

Ma ripassiamo sul lato empirico, Boldrin si chiede se ci sono “evidenze” nel suo database (che si confronta, lo ricordo con uno stato che non è ancora deflattivo in modo consolidato) e non trova ovviamente né una maggiore crescita dei beni di investimento, né il cambiamento nella composizione settoriale e neppure una relazione negativa tra i tassi di variazione degli indici relativi. Non ne trova, con il che considera chiusa la questione sia sul lato logico, sia delle evidenze empiriche storiche (mi trema la mano a scrivere queste tre parole insieme), sia dei dati attuali.

Finalmente, arriva alla questione del debito pubblico, perché c’è in effetti un debitore collettivo che non ha salari da far guadagnare ed ha uno stock di debito assai ingente: lo Stato. Qui bisogna capire come avviene la trasmissione, per Boldrin “l’effetto principale dovrebbe passare attraverso il tasso di interesse”, in quanto se è fisso (i titoli sono a lungo termine e sono stati negoziati ad un tasso x non indicizzato) subisce un danno dalla riduzione del PIL nominale. Ma perché si avrebbe riduzione del PIL nominale? Perché i salari calano, e con esso il gettito fiscale in termini nominali, mentre resta eguale in termini reali. Ciò se in presenza di deflazione si dovesse registrare una crescita reale zero. Allora con tassi rigidi e salari flessibili (oltre flessibilità piena degli altri fattori produttivi) il tenore di vita non cambierebbe, ma il danno si scaricherebbe sugli stock di debito non indicizzati ed in primis su quello pubblico.
La soluzione di Boldrin è semplice in teoria, indicizzare il debito pubblico.

Ma ci sono anche effetti distributivi: i maggiori interessi reali aumentano il reddito (sempre reale) dei percettori degli interessi (che Boldrin, sempre per semplicità, presume tutti in Italia) e lo diminuisce dei tributari di tasse (che devono alzarsi per bilanciare il danno) che certamente sono tutti in Italia.
Questo effetto redistribuisce dai debitori ai creditori (e dall’Italia alla Germania, ma questo Boldrin lo nega) con un effetto che è “simmetrico a quello dell’inflazione” (forse capiamo perché il clan del nostro la odia tanto) e “a breve termine” ha “un effetto negativo sul bilancio pubblico dei paesi indebitati e questo spiega perché, noi crediamo, essa sia oggi lo spauracchio europeo e, in particolare, italiano”.

Una buona parte della complicata dimostrazione del nostro neoclassico, come ricorda lui stesso nel finale, poggia in sostanza sull’ipotesi che i consumatori ed i lavoratori, come gli imprenditori, fondino razionalmente le loro decisioni su assunzioni alquanto complesse sulla dinamica attesa della capacità “reale” (cioè in termini di potere di acquisto) delle quantità economiche nominali sulle quali agiscono. Più in sintesi: “quello che conta per le decisioni di consumo e offerta di lavoro dei lavoratori e per le decisioni di investimento e domanda di lavoro delle imprese è il salario reale”, cosa che rende la deflazione irrilevante se la velocità di movimento è uguale. Se non lo è la distribuzione va a vantaggio dei lavoratori a stipendio fisso (es. i pensionati e i lavoratori del pubblico) che incrementeranno i consumi aumentando la domanda e riducendo il rischio di una spirale deflazionistica.
Ora, a parte che ogni tanto rispunta la testolina della crisi da domanda esorcizzata all’inizio, questo modo di argomentare dei nostri economisti presuppone:
     -         che i decisori siano in possesso di tutte le informazioni necessarie, sull’intero sistema economico e sulle decisioni degli altri attori rilevanti, in modo da potersi fare un’idea esatta e in tempo reale dell’evoluzione dei fenomeni;
      -         che tutti i lavoratori siano a tempo pieno ed a salario fisso (altrimenti questo effetto positivo, effettivo, che segnala andrebbe bilanciato con quello negativo di chi vede il proprio salario calare);
      -         che il meccanismo di aggiustamento dei salari passi per una indicizzazione in tempo reale abbastanza neutrale, anziché per la pratica concreta di licenziare uno per riassumere un altro a salario inferiore, incorporando l’attesa di riduzione dei mercati e quindi potenziando la dinamica (un poco come si diceva che i rinnovi in fase fortemente inflattiva incorporavano l’inflazione futura in effetti provocandola).

Da ultimo Boldrin spende alcune righe per dire che la deflazione giapponese è comunque un fenomeno economico di gran lunga meno grave della stagnazione italiana sotto “vincolo esterno” (aggiungo io). Concesso. E che la sua causa di fondo è demografica. Concesso. Che quindi l’immigrazione giovanile fa bene ad un paese come il nostro (e come la Germania). Concesso. Che l’espansione monetaria da sola non può risolvere problemi così seri. Concesso.


In conclusione, per Boldrin:
     -         nè la teoria, né tantomeno i dati suggeriscono che la deflazione possa essere la causa di una profonda depressione economica”. E sin qui si potrebbe anche concordare (in fondo la  deflazione al più ne è l’effetto, ma che retroagisce rafforzando la propria causa).
     -         In modo più forte la seconda affermazione dice addirittura che “in media la deflazione si accompagna a crescita economica, non a recessione”. Sinceramente al di là degli esempi storici portati e la loro intrinseca problematicità è questo “in media” che mi disturba.
     -         La terza afferma che “dal punto di vista della teoria economica” (la sua) l'argomento del circolo vizioso acquisti/deflazione (Mike Woordford, ma tanti altri tra cui ovviamente Keynes) farebbe “acqua da tutte le parti sia sul piano logico che su quello delle predizioni”. Ora, delle predizioni ho detto (è un poco come se appena partita una corsa di cavalli, dato che Varenne è terzo alla prima curva dicessi, tutto trionfante: <hai visto che ho ragione io, ha perso!>, l’interlocutore mi guarderebbe stranito), della logica pure (presuppone che il fornaio sotto casa ne sappia di economia come il nobel a New York e che abbia altrettante informazioni e freddezza nel prendere decisioni accuratamente ponderate; chiaramente questa ipotesi è strutturale nel fare teoria economica cercando “leggi generali” da imporre alla decisione pubblica. Cioè è strutturale all’economia come forma di potere, ma questo è un discorso lungo che faremo).
      -         Secondo Boldrin, comunque “tolta quella particolare teoria rimane nulla o quasi nulla a motivare la grande paura deflazionistica”.

Perché Boldrin si impegna a fare questa complessa battaglia contro i mulini a vento, rischiando coraggiosamente la sua reputazione contro tutti? La risposta è alla fine: se la deflazione non è un rischio per la crescita economica, ma solo per il debito pubblico, allora basta indicizzare questo (certo “sedendosi” con i detentori, che finalmente ammette implicitamente essere anche esteri) e non bisogna invece avviare operazioni inflazionistiche tramite la BCE (cioè operazioni di quantitative easing).


Un’altra puntata della grande battaglia di autunno.

2 commenti:

  1. Ma perché Boldrin come economista avrebbe ancora una reputazione da difendere?! ;-)

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  2. sinceramente, se continua così.... un capolavoro di malafede e ignoranza combinate.

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