Sul blog Noise from America, Michele Boldrin, insieme a Giovanni Federico e
Giulio Zanella si impegnano eroicamente a contrastare (come fa in modo alquanto
più naif Scacciavillani in questo
intervento coevo) la convinzione del Fondo
Monetario Internazionale, di tutte le Banche
Centrali del mondo (a partire dalla FED, e dalla BOE, o dalla BOJ, noti
covi sovversivi) che la deflazione nelle attuali condizioni sia una minaccia
per l’area Euro e l’Italia in particolare.
Nell’articolo
Boldrin, economista con una ampia carriera all’estero
e fortemente schierato su posizioni “neoclassiche” (liberiste) da poco anche politico
(Fare per fermare il declino), nel
ruolo già di Giannino, capolista di Scelta
Europea alle ultime elezioni europee, in particolare riconosce che la
deflazione, se prodotta per periodi consistenti, produce danni alla
sostenibilità del debito pubblico ed effetti distributivi, ma nega abbia una
qualche relazione con la crescita.
Ora l’affermazione che non ci sia
relazione necessaria con la crescita
può risultare pertinente e significativa solo a chi soffrisse di feticismo. A
cosa giova la crescita in sé? Ciò che conta è la distribuzione e la
sostenibilità, la qualità e coesione della società che è definita nei processi
economici. Dunque, anche se fosse vera, l’ammissione di Boldrin sarebbe da sola
di gran lunga sufficiente per confermare l’allarme e la necessità di agire per
prevenirla
Secondo il noto economista liberale comunque
il fatto che nel 2013, nell’area Euro, l’indice dei prezzi al consumo sia
aumentato solo del 0,85%, e che invece da maggio 2013 a maggio 2014 si registri
un ulteriore rallentamento dello 0,3%, pur indicando la probabilità dell’innesco
di una “spirale deflazionistica” come molti temono, non giustifica l’allarme.
Infatti la convinzione che la deflazione “generi” il ristagno dell’attività
economica, attivando un movimento di autorafforzamento, non è giustificata per
lui né dalle evidenze empiriche, né dalla logica economica.
Ma andiamo con ordine: l’idea che sia
necessariamente un male, e quindi vada contrastata con tutti i mezzi (in quanto
“premessa e veicolo” della stagnazione economica), è ricondotta ad un senso
comune per il quale porta l’evidenza di un recente post
di Krugman, ma che gli appare incoerente con la “ricerca economica” che avrebbe
portato “ampia evidenza contraria”. Questa ampia evidenza della “ricerca
economica” (categoria alla quale, evidentemente, non ascrive il prestigioso
professore americano, vincitore di nobel, e titolare di cattedre in Università
di èlite) è ricondotta a due paper:
il primo di Atkenson
e Kehoe, del 2004, si chiedeva se esiste una relazione empirica generale tra
deflazione e depressione; il secondo, di Beckworth del 2011 si interroga sulle
conseguenze per la stabilità macroeconomica della deflazione guidata dall’offerta.
Nel primo viene sostenuto che la
deflazione non è statisticamente connessa con la depressione, in quanto ci sono
casi di presenza della prima ed assenza della seconda o di presenza di una
delle due senza l’altra. Alla fine, secondo Boldrin, c’è un solo evidente
esempio (sul quale Scacciavillani racconta la favoletta
di Milton Friedman che dà tutta la colpa alla FED) legato alla Grande
Depressione. Quando una crisi di sovraindebitamento che ricorda tanto la nostra provocò, in sincronia con una
trasformazione strutturale della struttura produttiva e dei rapporti
internazionali che ha somiglianze
straordinarie con la nostra, una compresenza di calo dei prezzi e di
depressione economica durata da cinque a sette anni, secondo i paesi
considerati.
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| Deflazione e crescita PIL, anni trenta novecento |
Secondo Boldrin (e Scacciavillani)
questa è la fonte della leggenda che la deflazione sia sempre un male. Invece si tratta dell’eccezione.
Vediamo
perché, per ora tralasciando che anche se lo fosse sarebbe
comunque un precedente pericoloso, data la somiglianza delle situazioni ed il
carattere assolutamente eccezionale di questa crisi che stiamo attraversando:
per i nostri la famosa “regolarità empirica”, addirittura “deducibile” dalla
storia nella quale tanto spesso la disciplina economica si rifugia (con
insopportabile leggerezza metodologica), direbbe che ci sono stati moltissimi
casi di deflazione associata a “forte crescita economica”.
Quali? Alla fine l’esempio che viene
portato è il ventennio tra il 1860 ed il 1880-90. In altre parole, Boldrin con
i suoi coautori propongono di considerare esempio sovrapponibile la dinamica
economica registrata nella metà dell’ottocento (con tutte le differenze di
rilevazione, linguaggio, definizioni, aspettative e teorie sottese) nelle
condizioni sociali, politiche, tecnologiche e culturali dell’Epoca
dell’Imperalismo, con quelle del secondo decennio del terzo millennio che
viviamo.
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| Deflazione e crescita PIL, metà ottocento |
Sinceramente non saprei neppure da dove
iniziare per evidenziare le enormi differenze tra i due casi messi a confronto
(al di là degli immensi problemi e controverse metodologiche sulla lettura dei
dati, la loro affidabilità, credibilità, significato). Credo che mi servirebbe
un libro. La “ricerca economica” evidentemente non ne ha bisogno, trae lezioni
e conclusioni definitive (cioè “leggi generali” dalle quali come vedremo derivare
le azioni corrette delle istituzioni) dalla diretta messa a contatto di “fatti
stilizzati” scheletrici e conclude quindi che “l’esperienza degli ultimi duecento anni rivela quindi due tipi di
deflazione, una ‘buona’ che si è accompagnata alla crescita, ed una ‘cattiva’
che si è accompagnata alla stagnazione o addirittura alla depressione economica”.
Faccio un piccolo inciso per capirci
meglio: qualche anno fa (in effetti parecchi) passai un paio d’anni della mia
vita a studiare il caso della trasformazione urbana della Parigi di Haussmann, ricavandone un articolo e una collaborazione
in un libro di Laterza, immeritatamente citati nella pagina di Wikipedia;
pur avendo speso un certo tempo a indagare sugli effetti sociali, economici e
fisici del grande piano di opere pubbliche (ma anche di progettazione
amministrativa) e la cultura che la
sottendeva, non ho mai pensato di trarne delle regole, o regolarità “empiriche”
sulla trasformazione urbana in sé
applicabili al presente. Si tratta di un “esempio” che, per essere compreso ed
essere eventualmente utile, in prima istanza va rispettato.
Evidentemente la “ricerca economica” non
ha questi scrupoli (forse perché ha più strettamente a che fare con il potere)
e non si fa scrupolo, come fanno Andy Atkeson e Pat Kehoe, nell'articolo citato
poco sopra, a cercare di “verificare l'esistenza
di una relazione stabile fra variazione dei prezzi e variazione del PIL in un
campione di 17 paesi dal 1820 al 2000”. Naturalmente
non la trovano.
Se l’avessero trovata avrebbero compiuto
uno straordinario esperimento di metafisica sperimentale.
Con le parole di Boldrin, al quale
sembra che ciò significhi qualcosa di più di una ovvietà: “non sembra esistere
nei dati alcuna relazione statistica sistematica fra deflazione e depressione
economica”.
Bene, dopo esserci accertati che il
mondo è vario, e le nostre rozze etichette non lo catturano, si passa alla
“teoria”, cioè alla sistematica applicazione della logica, si spera unita al
buon senso. Secondo Boldrin, non solo “la
presunzione che la deflazione sia necessariamente un male è basata su inferenza
incorretta dalla più recente esperienza di deflazione”, (e sin qui sarei
d’accordo, perché qualsiasi inferenza che faccia discendere da un caso
individuale una regola generale a priori è “incorretta”; ed inoltre specificatamente
detta regola, nella formulazione dell’autore, è assurda) ma inoltre secondo lui
è ancora più indebolita da un “pregiudizio” che stranamente chiama “artificio
retorico” (le due cose non sono sovrapponibili) e descrive con queste parole: “se è vero (ma è vero?) che il livello di
attività economica (o dell'occupazione) cresce all'aumentare del tasso d'inflazione,
allora (in questo ‘allora’ sta l'artificio) più bassa è l'inflazione minore è
il tasso di crescita dell'attività economica”.
Direi che siamo d’accordo, certamente
chi si trovasse effettivamente a ragionare (o meglio a lasciarsi guidare dai
pregiudizi) in termini così rozzi, come suppone faccia l’immaginario avversario
di Boldrin, potrebbe anche cadere nell’ipotesi che la relazione posta vada in
entrambe le direzioni indipendentemente dalle condizioni individuali.
Addirittura, potrebbe inferire, “che se
il tasso di variazione dei prezzi è negativo allora tale deve essere anche il
tasso di variazione del PIL”. Per inciso, cosa c’entri la retorica con
questi semplici errori cognitivi e logici forse Boldrin ce lo spiegherà in un
altro post, ma andiamo avanti.
Io starei per dire che Boldrin si
costruisce retoricamente un fantoccino per abbatterlo con più facilità (un
tizio ideale così sprovveduto da formulare leggi generali sulla base di un solo
caso lontano quasi due secoli e di formularle in modo così imprudente) quando
scopriamo che si tratterebbe solo di una legittima deduzione di uno studente di
economia poco in contatto con il mondo (per non parlare della storia) che
avesse guardato distrattamente la “curva di Phillips”; che ipotizza appunto una
relazione generale fra tassi di variazione di prezzi e disoccupazione. Il
generoso Boldrin ce la fornisce nella versione dell’articolo originale del 1958:
essa “mette in relazione disoccupazione e
variazione dei salari nominali: come si vede, la curva minacciava
disoccupazione a due cifre in caso di deflazione, anche modesta”.
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| Curva di Philipps |
Rozzo metafisico o studente che sia,
abbiamo capito che non c’è una relazione così automatica e che chi lo pensa
sbaglia. Potremmo fermarci qui.
A
questo punto, però, le cose si fanno interessanti,
perché Boldrin passa su un piano diverso e, ricordando forse che l’economia
sarebbe pur sempre una scienza sociale, inizia ad individuare le dinamiche che
generano i fenomeni che ha stilizzato nei termini “deflazione” e “crescita”.
Quindi propone di considerare due tipi di deflazione: una “buona” (grazie per le virgolette) associata alla crescita; ed una “cattiva” alla depressione.
Con queste parole prestate dal
linguaggio morale e da quello naturale si corrono molti rischi, ma il buon
Boldrin sembra saperlo e passa quindi sul concreto, raccontandoci che la
riduzione dei prezzi generalizzata può darsi sia per effetto di uno shock che
riduca improvvisamente la domanda di beni o servizi (ad esempio per un
restringimento del credito a seguito di eccesso di debito improvvisamente
percepito), che costringe i produttori ad abbassare i prezzi per inseguirla;
oppure l’analogo fenomeno può essere prodotto dal “lato” opposto, cioè
dell’offerta, quando la nuova comparsa di fattori produttivi (ad esempio dalla
Cina, a seguito dell’entrata della stessa nel WTO nel 2001) o un incremento
della produttività totale dei fattori produttivi (ad esempio in seguito alle
tecnologia labor saving) consente alle imprese di abbassare i prezzi, in questo
costrette dalla concorrenza.
Queste dinamiche stilizzate hanno ovviamente
un segno diverso, in quanto la seconda determina un calo dei prezzi senza danno
per i produttori (sopravvissuti) e vantaggio per i consumatori per il potere di
acquisto e quindi per lo stile di vita; la prima genera invece principalmente sofferenza
nella catena dei produttori e induce quindi processi di restringimento della
base produttiva.
Riducendo il grado di stilizzazione, e
reintroducendo tempo e spazio, si potrebbe vedere che anche la “buona”, in
fondo non sia questo angelo, ma andiamo avanti per ora.
Secondo Boldrin la deflazione dal lato
dell’offerta è quella degli anni 30, mentre quella dal lato della domanda (si
chiama in effetti “rivoluzione industriale”) è quella dell’ottocento. Gli
operai degli slums di Manchester, se potessero essere evocati in questa pagina,
avrebbero un’altra visione della fatina buona “deflazione” e del golden standard
alla cui croce d’oro finirono attaccati, ma ancora andiamo avanti.
La conclusione che l’autore trae da
questi voli assai alti è che “se dobbiamo
preoccuparci o no per le attuali prospettive deflazionistiche dipende dunque in
larga misura dalla natura degli shock sottostanti o, come argomentiamo sotto,
dai cambiamenti di lungo periodo che sono in corso”. Sempre il “lungo
periodo” (quello in cui <saremo tutti morti>, per fare un’appropriata
citazione).
Per fortuna non sappiamo, e neppure il
valoroso metafisico Boldrin lo sa, se questa sia più offerta o domanda: “più probabilmente, entrambi gli shock (da
domanda e da offerta) sono presenti in un mix che è difficile decomporre,
mentre Krugman, Draghi (Draghi?) e (quasi) tutti i commentatori si
preoccupano della deflazione perché assumono che si tratti di una deflazione
primariamente da domanda”. Dopo aver coraggiosamente indicato quali propri
bersagli un premio nobel, il Presidente della BCE e addirittura tutto il resto
del mondo (quasi), i nostri autori affermano che si tratta di un’assunzione “non molto plausibile alla luce di quando sta
accadendo da dieci anni a questa parte” nell'economia mondiale. Boldrin,
evidentemente, reputa di avere migliori informazioni, quali esattamente? In
fondo è un consulente della FED di Sant Louis, potrebbe istruire la Yallen che
sta sbagliando tutto (per non parlare di Obama). La causa della tendenza
deflattiva che colpisce il mondo (cd. “ipotesi della stagnazione
secolare”, ma orba e senza le sue conclusioni) per Boldrin è
sostanzialmente e principalmente il progresso tecnico e la
globalizzazione che hanno esercitato una enorme pressione al ribasso sui prezzi
dagli anni novanta, al contempo però provocando una forte crescita della
domanda aggregata.
La
domanda aggregata? Con un salto enorme, da questa
descrizione generale che abbraccia trenta anni e cinque continenti i nostri
passano con repentino gesto a dimostrare la seconda parte della loro affermazione
(che la domanda aggregata cresce, contro l’opinione di gente come Spence,
Krugman e Rajan, per dire alcuni) direttamente dalla ripresa delle esportazioni
nell’ultimo biennio.
Tanto basta a confutare Krugman, Draghi,
Bernanke, Yellen, …
A questo punto (forse sospettando che la
sua trincea, alla fine, non sia tanto solida) Boldrin ammette che pure se fosse
in corso una crisi più di domanda che di offerta (in effetti avremmo questa
leggera impressione), sul piano logico,
ciò non avrebbe comunque conseguenze negative sulla crescita (ma non aveva
inferito dalla storia almeno questa regolarità? Potenza dei testi lunghi, ha
dimenticato il primo passaggio).
Infatti l’idea che la deflazione
indurrebbe a rimandare gli acquisti, cosa che genererebbe invenduti, dunque
sovraproduzione, quindi calo dei prezzi e via dicendo, è infondata perché consiste
anche nel rinvio del godimento del bene o servizio acquistato. Infatti, attenzione, se i prezzi “rimangono
stabili o calano dello 0,2%” non ho in effetti ragione di rinviare. Come dire,
se non c’è deflazione significativa non ci sono neppure i suoi effetti.
Complimenti, questa è la potenza della
metafisica inconsapevole, Boldrin presume che l’etichetta “deflazione”, che
applica a fenomeni sociali complessi, implichi sempre le stesse conseguenze a
qualsiasi scala, o –più probabilmente- usa retoricamente questa convinzione che
instilla nel lettore.
Ma
andiamo avanti che è interessante: nel seguito distingue,
giustamente, tra acquisti di beni durevoli e di beni di consumo immediato e di
servizi, i secondi e alcuni dei terzi possono essere con più difficoltà rinviati
(non è proprio così vero, chiedere ai macellai per informazioni). A questo
punto salta però di nuovo nella scarpa dell’empirista e con gesto atletico
chiede di controllare i dati presenti.
Non trovandoli inferisce che il fenomeno
non c’è. Di più, che non essendoci non c’è la relazione.
MA l’inflazione non era al 0,5%? Nei
dati disponibili non era un fenomeno in avvio? Come può essere che sia già
radicato nelle abitudini di acquisto?
Cito: “invece basta andare qui e controllare gli indici
settoriali dei prezzi per scoprire che così proprio non è”. Scopre che la
riduzione è “pressoché omogenea” (mi pare che i venditori di auto potrebbero
essere di altro avviso) e quindi conclude che “rimandare acquisti di beni non durevoli e di servizi, ossia di più dei
2/3 della spesa totale per consumi, è alquanto impossibile”.
Non basta, appena fatto questa
operazione di immersione nella realtà tradotta in numeri, forse non contento
della solidità del risultato, ri-salta nell’inferenza storica, ma questa volta al
contrario: dato che sta osservando una “legge generale” deve per definizione applicarsi
anche al 1800. Se succedeva nel 1931 doveva accadere anche nel 1870. Forse, in effetti
dipende: dalla struttura dei consumi,
dalle aspettative di reddito futuro ed in particolare dalla flessibilità dei
salari.
Non avendo trovato facile via neppure su
questo terreno non resta che saltare sull’altro cavallo di battaglia, la
flessibilità dei salari; cosa che, comportando calo degli stessi al progredire
del calo dei prezzi, inibirebbe l’effetto di rinvio degli acquisti perché “io mi aspetto che anche i miei redditi
diminuiranno in termini nominali e quindi non ho ragione di differire
l'acquisto”. Sembra plausibile, no?
Una ipotesi logica (ma fondata su un
presupposto fattualmente debole, come vedremo) che però, necessità di
rafforzamento tramite una “valutazione empirica” (povero Popper).
Mettendosi alla sua ricerca il nostro non
trova evidenze “robuste” (cioè, immagino, prodotte dal suo clan) dell’ipotesi
che “i consumatori rinviino l'acquisto di
beni durevoli durante una deflazione”; dove ci sono indagini, come
in Giappone, sono ridotte ad effetti marginali. Ogni punto percentuale di
deflazione attesa comporterebbe solo 1% di acquisti in meno di beni durevoli.
Questo, per Boldrin è marginale. Vediamo
allora che succede se la deflazione è del 5% (tipo quella spagnola oggi) e si
conserva per cinque anni (tipo quella degli anni trenta): si avrebbe un rinvio
dell’acquisto di beni durevoli (che sarebbero quelli generati dalla nostra
industria con l’eccezione di quella agroalimentare) del 25% cumulato. In
effetti abbastanza irrilevante.
In ogni caso è dichiarato irrilevante,
allora si passa avanti, perché la deflazione ha un effetto non solo sulle
industrie, ma anche sui debiti. E qui
Bodrin fa qualche concessione perché ammette che in effetti incrementa
il peso del debito non indicizzato. Si dice normalmente che questo farebbe
contrarre la spesa ai debitori e andrebbe ad ulteriore danno delle industrie di
riferimento.
Giustamente gli autori ricordano che “per ogni debito c’è un credito”, e
dunque se qualcuno paga di più in termini reali, qualcun altro incasserà di più.
Per usare questo argomento occorre presupporre che la ragione della crisi
europea non esista, e il nord Europa non sia nella complessiva posizione del
creditore (povero Sarrazin,
non ha capito niente) e assumere “che il
debito pubblico e privato di un paese sia detenuto in larga parte all'interno
del paese stesso”. A questo punto ci sarebbe solo uno spostamento dai
debitori ai creditori. E “si avrebbe un
effetto depressivo della deflazione attraverso il canale del debito se e solo
se i creditori fossero meno propensi al consumo dei debitori”. Una
ipotesi che fa venire da sempre l’orticaria al clan di Boldrin, e che viene
aggredita con una raffica di controargomenti: intanto se i “poveri” hanno un
salario fisso (magari) il potere di acquisto di questo sale, lasciando il loro
rapporto debito/salario invariato. Poi se anche fosse (ancora lo stratagemma
della doppia trincea) si avrebbe solo un effetto sulla composizione e non sulla
domanda aggregata: “infatti, i ricchi
creditori magari consumano una percentuale minore del loro reddito ma,
certamente, lo ‘spendono’ tutto (non sotterrano banconote in giardino, cioè).
La parte che non consumano la risparmiano investendola in questa o quell'altra
attività. Ed anche questo genera domanda”.
E’ l’antico argomento
di Say, che presuppone ovviamente una economia chiusa e non finanziarizzata,
oltre che disinteressarsi della distribuzione della ricchezza e del potere. Al
massimo si potrebbe considerare a livello del mondo intero e per unità
temporali molto lunghe. Nel concreto i risparmi vanno a “far surf” nei paradisi
off shore (ne stanno aprendo di nuovi insospettabili in Cina, mi dicono) e la
relativa domanda magari sarà quindi a Shangai.
Ma
ripassiamo sul lato empirico, Boldrin si chiede se
ci sono “evidenze” nel suo database (che si confronta, lo ricordo con uno stato
che non è ancora deflattivo in modo consolidato) e non trova ovviamente né una
maggiore crescita dei beni di investimento, né il cambiamento nella
composizione settoriale e neppure una relazione negativa tra i tassi di
variazione degli indici relativi. Non ne
trova, con il che considera chiusa la questione sia sul lato logico, sia
delle evidenze empiriche storiche (mi trema la mano a scrivere queste tre
parole insieme), sia dei dati attuali.
Finalmente, arriva alla questione del
debito pubblico, perché c’è in effetti un debitore collettivo che non ha salari
da far guadagnare ed ha uno stock di debito assai ingente: lo Stato. Qui bisogna capire come avviene la trasmissione, per
Boldrin “l’effetto principale dovrebbe passare attraverso il tasso di interesse”,
in quanto se è fisso (i titoli sono a lungo termine e sono stati negoziati ad
un tasso x non indicizzato) subisce un danno dalla riduzione del PIL nominale.
Ma perché si avrebbe riduzione del PIL nominale? Perché i salari calano, e con
esso il gettito fiscale in termini nominali, mentre resta eguale in termini
reali. Ciò se in presenza di deflazione si dovesse registrare una crescita
reale zero. Allora con tassi rigidi e salari flessibili (oltre flessibilità
piena degli altri fattori produttivi) il tenore di vita non cambierebbe, ma il
danno si scaricherebbe sugli stock di debito non indicizzati ed in primis su
quello pubblico.
La soluzione di Boldrin è semplice in
teoria, indicizzare il debito pubblico.
Ma ci sono anche effetti distributivi: i
maggiori interessi reali aumentano il reddito (sempre reale) dei percettori
degli interessi (che Boldrin, sempre per semplicità, presume tutti in Italia) e
lo diminuisce dei tributari di tasse (che devono alzarsi per bilanciare il
danno) che certamente sono tutti in Italia.
Questo effetto redistribuisce dai
debitori ai creditori (e dall’Italia alla Germania, ma questo Boldrin lo nega)
con un effetto che è “simmetrico a quello dell’inflazione” (forse capiamo perché
il clan del nostro la odia tanto) e “a breve termine” ha “un effetto negativo sul bilancio pubblico dei paesi indebitati e questo
spiega perché, noi crediamo, essa sia oggi lo spauracchio europeo e, in
particolare, italiano”.
Una buona parte della complicata
dimostrazione del nostro neoclassico, come ricorda lui stesso nel finale,
poggia in sostanza sull’ipotesi che i consumatori ed i lavoratori, come gli
imprenditori, fondino razionalmente le loro decisioni su assunzioni alquanto
complesse sulla dinamica attesa della capacità “reale” (cioè in termini di
potere di acquisto) delle quantità economiche nominali sulle quali agiscono.
Più in sintesi: “quello che conta per le
decisioni di consumo e offerta di lavoro dei lavoratori e per le decisioni di
investimento e domanda di lavoro delle imprese è il salario reale”, cosa
che rende la deflazione irrilevante se la velocità di movimento è uguale. Se
non lo è la distribuzione va a vantaggio dei lavoratori a stipendio fisso (es.
i pensionati e i lavoratori del pubblico) che incrementeranno i consumi
aumentando la domanda e riducendo il rischio di una spirale deflazionistica.
Ora, a parte che ogni tanto rispunta la
testolina della crisi da domanda esorcizzata all’inizio, questo modo di
argomentare dei nostri economisti presuppone:
-
che i decisori siano in possesso di
tutte le informazioni necessarie, sull’intero sistema economico e sulle
decisioni degli altri attori rilevanti, in modo da potersi fare un’idea esatta
e in tempo reale dell’evoluzione dei fenomeni;
-
che tutti i lavoratori siano a tempo
pieno ed a salario fisso (altrimenti questo effetto positivo, effettivo, che
segnala andrebbe bilanciato con quello negativo di chi vede il proprio salario
calare);
-
che il meccanismo di aggiustamento dei
salari passi per una indicizzazione in tempo reale abbastanza neutrale, anziché
per la pratica concreta di licenziare uno per riassumere un altro a salario
inferiore, incorporando l’attesa di riduzione dei mercati e quindi potenziando
la dinamica (un poco come si diceva che i rinnovi in fase fortemente inflattiva
incorporavano l’inflazione futura in effetti provocandola).
Da ultimo Boldrin spende alcune righe
per dire che la deflazione giapponese è comunque un fenomeno economico di gran
lunga meno grave della stagnazione italiana sotto “vincolo esterno” (aggiungo
io). Concesso. E che la sua causa di
fondo è demografica. Concesso. Che quindi l’immigrazione giovanile fa bene ad
un paese come il nostro (e come la Germania). Concesso. Che l’espansione monetaria da sola non può risolvere
problemi così seri. Concesso.
In conclusione, per Boldrin:
-
“nè
la teoria, né tantomeno i dati suggeriscono che la deflazione possa essere la
causa di una profonda depressione economica”. E sin qui si potrebbe anche
concordare (in fondo la deflazione al
più ne è l’effetto, ma che retroagisce rafforzando la propria causa).
-
In modo più forte la seconda
affermazione dice addirittura che “in media la deflazione si accompagna a
crescita economica, non a recessione”. Sinceramente al di là degli esempi
storici portati e la loro intrinseca problematicità è questo “in media” che mi
disturba.
-
La terza afferma che “dal punto di vista
della teoria economica” (la sua) l'argomento del circolo vizioso
acquisti/deflazione (Mike Woordford, ma tanti altri tra cui ovviamente Keynes) farebbe
“acqua da tutte le parti sia sul piano
logico che su quello delle predizioni”. Ora, delle predizioni ho detto (è
un poco come se appena partita una corsa di cavalli, dato che Varenne è terzo
alla prima curva dicessi, tutto trionfante: <hai visto che ho ragione io, ha
perso!>, l’interlocutore mi guarderebbe stranito), della logica pure
(presuppone che il fornaio sotto casa ne sappia di economia come il nobel a New
York e che abbia altrettante informazioni e freddezza nel prendere decisioni
accuratamente ponderate; chiaramente questa ipotesi è strutturale nel fare
teoria economica cercando “leggi generali” da imporre alla decisione pubblica.
Cioè è strutturale all’economia come forma di potere, ma questo è un discorso
lungo che faremo).
-
Secondo Boldrin, comunque “tolta quella
particolare teoria rimane nulla o quasi nulla a motivare la grande paura
deflazionistica”.
Perché Boldrin si impegna a fare questa
complessa battaglia contro i mulini a vento, rischiando coraggiosamente la sua
reputazione contro tutti? La risposta è alla fine: se la deflazione non è un
rischio per la crescita economica, ma solo per il debito pubblico, allora basta
indicizzare questo (certo “sedendosi” con i detentori, che finalmente ammette implicitamente
essere anche esteri) e non bisogna invece avviare operazioni inflazionistiche
tramite la BCE (cioè operazioni di quantitative
easing).
Un’altra
puntata della grande battaglia di autunno.




Ma perché Boldrin come economista avrebbe ancora una reputazione da difendere?! ;-)
RispondiEliminasinceramente, se continua così.... un capolavoro di malafede e ignoranza combinate.
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