La vicenda delle
errate previsioni che grosso modo tutte le istituzioni nazionali ed
internazionali (con significative differenze ma riconducibili a decimali)
avevano formulato sul PIL Italiano verso la fine del 2013 e che, correndo l’anno
2014, si sono rivelate inferiori di circa un punto percentuale, costringendoci
presumibilmente ad una manovra di correzione in autunno, è una spia
interessante di un fenomeno più ampio.
L’idea che sembrava
circolare nei corridoi a Bruxelles, a Roma e forse anche a New York era che
alla fine la crisi in corso fosse congiunturale. Dunque che dovesse passare
abbastanza da sé, conservando sangue freddo e facendo poco; che fosse in
sostanza un problema di prezzi.
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| PIL Italia e componenti 2008-13 |
Coerentemente con
questa idea Mario Monti sviluppò la sua famosa
azione per “distruggere la domanda
interna”, in modo da far calare le importazioni, ridurre i prezzi dei
fattori produttivi (a partire dal lavoro, cioè dai salari), e creare le condizioni
per le quali le imprese potessero investire al fine di esportare.
Un progetto che
coscientemente passa per milioni di disoccupati (che salgono in due anni di
oltre due punti percentuali fino ad un picco del 12,7%) e che genera il crollo
del PIL che abbiamo visto.
Insomma, l’idea
era che la causa della crisi fosse l’eccessivo livello dei prezzi, rispetto ai
competitori europei ed in particolare a quelli del nord Europa, determinato
dagli anni di credito facile seguiti alla creazione dell’Euro, ed in
particolare al sistema “target 2”.
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| PIL UE e componenti 2005-13 |
Questa idea, sospetto,
è anche alla base del passaggio
del Rubicone che Matteo Renzi alla fine dell’anno scorso ha repentinamente
deciso, provvedendo alla sostituzione del Governo di “cacciavite” Letta. L’ipotesi
di lavoro di quel governo era che non si dovesse fare altro che concentrarsi
sul lungo periodo, aggiustando “con il cacciavite” qualche meccanismo di fondo,
lasciando che la crisi facesse il suo duro lavoro di depurazione dei canali
otturati.
Questa idea è del
resto alla base delle continue e reiterate proposte di marca liberista, di limitarsi
a ridurre le tasse, alleggerire le regole, liberalizzare dai suoi vincoli il
mercato del lavoro, lasciando per il resto che le cose vadano per il loro corso.
I consiglieri
economici del Presidente del Consiglio dovevano essere della stessa opinione
(del resto provengono da un unico ambiente culturale, dominato dal FMI, OCSE,
BM, etc) e lo hanno quindi consigliato di concentrarsi su riforme istituzionali
e interventi sulla struttura dell’amministrazione (pur utili). L’economia si corregge da sé.
L’unico “aiutino”
che l’astuto politico ha voluto con forza introdurre è quello dei famosi 80,00
euro, utili per dare sollievo a qualche milione di lavoratori appartenenti alla
piccola borghesia in via di impoverimento e soprattutto a vincere un’elezione. Intendiamoci,
io credo che la misura non faccia in sé male e che la riduzione delle tasse
alla parte debole del mondo del lavoro sia tra le cose da fare.
Ma l’effetto sui
consumi, e quindi sul PIL, non sarà altrettanto diretta né forte. La ragione è
piuttosto semplice, e la conosceva anche Monti: nelle condizioni del mercato
unico europeo e della moneta unica le merci del nord Europa sono più
competitive. Faccio un solo esempio: quando ero giovane chi aveva una BMW o una
Mercedes era il fortunato e raro possessore di uno splendido veicolo e di un
capitale desiderato; chi aveva una Alfa Romeo aveva uno splendido veicolo
(nella meccanica) ma una macchina molto più economica. Oggi una Serie 2 costa 26.000 euro, mentre una Giulietta più o meno lo stesso.
Il moltiplicatore
(come ricorda Bagnai in un interessante e vivace post
del suo blog) della iniezione di liquidità sul mercato interno è andato,
insomma, in parte sul mercato tedesco.
Del resto appena si sono date le condizioni della crisi, dal loro punto di vista abbastanza comprensibilmente, qualcuno ha tirato le reti e la tonnara è diventata stretta. Se la neutralizzazione dell’effetto naturale di mercato del cambio ha consolidato nel tempo insostenibili condizioni di vantaggio al sistema industriale fortemente interconnesso e collegato a bacini di lavoro a buon mercato nel suo est (condizione che si è creata all’indomani dell’unificazione e poi della dissoluzione dell’Unione Sovietica, e che è all’origine del progetto europeo), l’eccesso di debito che via via si stringe per effetto della volontà del sistema creditizio europeo (dominato anche culturalmente dalla Bundesbank) impedisce ai “tonni” (animali, farei notare, di regola forti se in acqua libera) di sottrarsi alla trappola.
Queste sono le
condizioni nelle quali il continuo insistere su riduzione di spesa e politiche
dell’offerta (in mezzo ad una colossale distruzione di capacità potenziale
determinata dalla carenza di domanda) genera il probabile crack finale italiano.
Ridurre la spesa
pubblica, nelle condizioni attuali, è infatti dal punto di vista quantitativo
un esercizio dannoso, contribuendo alla riduzione degli incassi del sistema
privato (aziende e cittadini), in gran parte italiano. Non è obbligatorio che
sia così, dal punto di vista teorico può essere invece un’opportunità per
ridefinire gli assetti del sistema economico e sociale italiano, a condizione
di comprendere che prevede un cambio di assetto sociale e del bilanciamento del
potere. La definizione di nuove pratiche di consenso (dato che la spesa è un
formidabile veicolo di attrazione e cattura del consenso) ed una vera e propria
trasformazione civile. In questa accezione è una formidabile opportunità, ma
deve partire da un movimento sul territorio (diciamo più dall’ipotesi di lavoro
di Barca
che da quella di Renzi) che deve essere intrinsecamente morale e politico, poi
anche tecnico; deve individuare e calare su ogni situazione locale nuove
procedure e nuove politiche, identificare nuovi attori sociali di riferimento,
valorizzare identità e biografie nuove. Non può essere concentrato in un gruppo
di teste, non può essere fatta da una task forces isolata. E’, in effetti, la
ripresa della politica come progetto
e in questo senso (ma solo in questo) è la più importante delle riforme.
La sua carne e
sangue sono i meccanismi che consentono di fornire un servizio guardando alla
domanda sociale e pensandola come un canale ed un argine. Riprendere e separare
i vizi che hanno fatto l’Italia (e di cui dovremo pur un giorno parlare) e
guardare al nuovo millennio cercando un diverso equilibrio che non lasci
indietro nessuno.
Vedere la
spending review come un mero risparmio di spese che comunque sarebbero inutili
o dannose, finalizzandolo meramente a ridurre le tasse alle imprese ed ai ceti
imprenditoriali (quelli che “creano lavoro”) come vorrebbero in molti, è invece
un ottimo contributo a stringere la rete.
La soluzione
alla trappola nella quale siamo passa invece per la ridefinizione del sistema e
delle relazioni essenziali nelle quali coscientemente
alcune élite italiane ed europee hanno posto il paese (per la seconda volta, ancora attraverso la retorica
del “vincolo
esterno”). Per lo smontaggio di questo sistema disfunzionale a connessione dominata (in primis dai “mercati”,
quindi dal più forte tramite l’acritica valorizzazione della “competizione”)
che determina ormai lo stato di paralisi di parte importante delle nostre forze
produttive.
Dunque passa per
il riconoscimento che la crisi non è congiunturale ma strutturale.
- La crisi è
strutturale perché determinata da una costante contrazione
del credito, quindi della massa monetaria, non bilanciata da politiche di
compensazione da parte pubblica. Anche l’imminente Quantitative Easing in chiave BCE potrebbe
tradursi nell’ennesima politica dell’offerta rivolta al settore bancario.
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| investimenti società non finanziarie |
- È strutturale perché
affonda le sue radici in un progressivo svuotamento ed erosione della capacità
economica della maggioranza della popolazione dipendente dal suo lavoro,
schiacciata tra le tecnologie
“labor saving” e la competizione ineguale portata da sistemi economici e
sociali del tutto diversi messi in contatto senza alcun filtro o protezione
inseguendo il
mito del libero mercato che farebbe l’interesse della crescita e dello
sviluppo.
- E’ strutturale
anche per le sue sedimentazioni
nella forma e nella struttura del territorio, che contribuiscono ad esasperare
l’ineguaglianza e lo svantaggio.
- E’ strutturale
per la questione
della moneta, che determina nelle condizioni attuali decisivi ed
incolmabili svantaggi sia di cambio verso l’estero (l’Euro, come media delle
diverse economie è sempre troppo forte per quelle più deboli e troppo debole
per quelle forti; in conseguenza inibisce le esportazioni dei deboli e
favorisce quelle dei forti) sia di bilancia commerciale verso l’interno (in
quanto inibisce il naturale meccanismo di ribilanciamento di bilance
commerciali troppo sbilanciate).
In queste condizioni la questione non è l’Italia, ma
è l’Unione Europea che da strumento
della forza comune nei confronti del mondo globalizzato (che, peraltro, ha
attivamente contribuito a creare) è diventata lo strumento di alcuni settori
economici dominanti, e dei loro alleati, per rafforzare il proprio dominio. La
questione è il sistema di connessione dominato, colonizzato dalla logica
della colpa, che impedisce a troppi di dispiegare le proprie potenzialità.
Nell’audizione
del Direttore di McKinsey Stefano Visalli alla Camera dei Deputati del 26 giugno 2013, quindi oltre un anno fa, si
leggeva il seguente quadro:
“il nostro è il Paese più dipendente dal
credito bancario in Europa: per ogni 100 euro di debito di qualsiasi tipo, 70
euro sono forniti dalle banche, mentre in America solo 30 euro, in Inghilterra,
ancora meno, solo 29, e in Germania 50. Siamo, pertanto, il Paese con le
aziende più piccole, più indebitate e più dipendenti dal sistema bancario.
Passando dal contesto generale alla situazione
attuale, devo aggiungere che Pag. 4 siamo anche il Paese che sta vivendo
la crisi economica più grave dell'ultimo secolo. Abbiamo fatto analizzare la
contrazione del Prodotto interno lordo dall'inizio della crisi ad oggi e, come
si vede nella slide, nel
2012 abbiamo registrato un meno 7 per cento e nel 2013 toccheremo un meno 9,4,
sfiorando, dunque, il 10 per cento. Durante la Grande depressione, periodo
durante il quale fu creato l'IRI e fu riformata tutta l'economia italiana,
eravamo a meno 5 per cento; durante la crisi petrolifera a meno 2. La crisi che
abbiamo vissuto fino ad oggi è, pertanto, cinque volte più grave della crisi
petrolifera del 1974 e due volte più grave della crisi del 1929. Siamo nel
momento più difficile dell'ultimo secolo, come infatti si vede nelle analisi
macroeconomiche.
Un simile momento di crisi porta una parte
consistente del sistema industriale italiano a trovarsi in grave sofferenza.
Abbiamo fatto analizzare i bilanci delle 9.000 aziende tra i 30 e i 500 milioni
di fatturato, ossia delle aziende mediamente grandi. Di queste, quasi un terzo
sono aziende che potremmo definire zombie company, ovvero il cui
livello di debito è talmente elevato che l'imprenditore sa, o, se non lo sa,
dovrebbe saperlo, che molto difficilmente riuscirà a ripagare i debiti. Quella
che si trova a gestire, e che sta ancora gestendo, è, dunque, un'azienda che,
di fatto, ha debiti che non sarà in grado di ripagare in un qualsiasi
ragionevole scenario futuro.
Queste 2.500 aziende realizzano circa 200 miliardi
di euro di fatturato, hanno 500.000 dipendenti e quasi 100 miliardi di debiti.
Oggi, in Italia, ci sono aziende, dunque, con quasi mezzo milione di dipendenti
che funzionano, operano e vendono, ma nelle quali, in realtà, l'imprenditore
non sarà in grado di pagare i debiti. Non c’è alcun meccanismo per distinguere,
tra queste aziende, quelle che avrebbero un potenziale da quelle che non ce
l'hanno, e da quelle che avrebbero un potenziale inferiore ai nuovi capitali,
al fine di costruire idonee strategie di uscita.
In questo contesto il dato relativo ai «crediti
cattivi», cioè alle aziende che non rimborsano il debito, sta salendo in modo
esponenziale. Oggi il sistema bancario si trova a operare con oltre 200
miliardi di euro di crediti concessi alla clientela e non restituiti, o difficilmente
restituibili. Di questi, circa la metà riguarda le aziende.
Una simile situazione innesca un circolo vizioso, in
cui la crisi economica determina un aumento delle sofferenze, che colpiscono
gli utili bancari. Non avendo utili, le aziende bancarie, che, in base alla
legge, devono mantenere una quota di patrimonio a fronte dei crediti che
erogano, si trovano a dover essere molto più selettive. La selettività rende
più difficile accedere al credito e la difficoltà di accesso allo stesso rende
più difficile pagare i propri fornitori. Qualcuno, di conseguenza, fallisce, e
il ciclo si rafforza. Naturalmente, il ciclo è stato indotto dalla crisi
economica, cioè dalla recessione. D'altronde, siamo nella crisi più grave
dell'ultimo secolo e le banche stanno reggendo anche bene, considerate le
circostanze”.
Questa breve
comunicazione individua un quadro che il nostro sistema di governo economico non vuole vedere: il debito assunto in
una fase espansiva, fondando sull’aspettativa di crescita personale e comune,
non è assolutamente sostenibile entro il quadro della maggiore contrazione del
secolo (passato). Non comprendere questo dato espone il paese, e per quel che
vale anche il Governo, ad un vicolo cieco.
Le possibili
soluzioni (comunque in un contesto inflattivo
e non deflattivo) sono solo:
- Il default controllato del debito pubblico e privato (con o senza l’Unione
Europea), ma senza immaginarlo come una colpa dalla quale occorre essere “redenti”;
una ipotesi che persino Rogoff in un paper
per l’FMI ha avanzato;
-
L’inversione della contrazione monetaria, operando sulla base effettiva, e quindi sul
sistema bancario, che in queste condizioni è delegato alla effettiva creazione
di moneta, tramite forme di nazionalizzazione soft (o hard) delle stesse,
con o senza garanzie dello Stato e/o fondi di rotazione;
-
La nazionalizzazione delle imprese “Zombie”, con perdita degli azionisti e proprietari,
assorbimento in una nuova IRI e successiva reimmissione sul mercato dopo il risanamento.
Tutte queste
possibili azioni, per non limitarsi a curare la congiuntura dovrebbero vedere
un nuovo
protagonismo e coraggio dello Stato (nello spazio generato dalla riduzione
del debito), che si spenda in massivi interventi in infrastrutture, riconversione
energetica ed ambientale, formazione, ricerca e sviluppo per creare lo spazio
per la crescita futura e l’incremento della competitività e produttività reale
e sostenibile del sistema paese.
Chiaramente una
simile ipotesi rappresenta, nelle condizioni contemporanee un rovesciamento del
quadro complessivo dei poteri e probabilmente non può essere fatto entro il
quadro degli attuali Trattati, di sicuro nel contesto del Fiscal Compact, che andrebbe riscritto.
C’è quindi un’alternativa:
-
Una manovra dura
un autunno ed una più dura in primavera;
-
L’arrivo della
Troika quando i mercati perderanno fiducia e, più o meno coordinati,
svilupperanno di nuovo l’azione aggressiva del 2011;
-
La nomina di
Mario Draghi a Presidente della Repubblica con poteri rafforzati nel quadro
della garanzia dell’Italia ai creditori.
Fino ad allora, certo, si può comprare tempo, più o meno creativamente attraverso continue innovazioni finanziarie, manovre della BCE, distrazioni sulle regole, etc.
Fino ad allora, certo, si può comprare tempo, più o meno creativamente attraverso continue innovazioni finanziarie, manovre della BCE, distrazioni sulle regole, etc.
Non c’è azione senza reazione. Per questo vedremo
tempi interessanti.





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