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martedì 12 agosto 2014

“Tempi interessanti”: della trappola italiana


La vicenda delle errate previsioni che grosso modo tutte le istituzioni nazionali ed internazionali (con significative differenze ma riconducibili a decimali) avevano formulato sul PIL Italiano verso la fine del 2013 e che, correndo l’anno 2014, si sono rivelate inferiori di circa un punto percentuale, costringendoci presumibilmente ad una manovra di correzione in autunno, è una spia interessante di un fenomeno più ampio.
L’idea che sembrava circolare nei corridoi a Bruxelles, a Roma e forse anche a New York era che alla fine la crisi in corso fosse congiunturale. Dunque che dovesse passare abbastanza da sé, conservando sangue freddo e facendo poco; che fosse in sostanza un problema di prezzi.
PIL Italia e componenti 2008-13
Coerentemente con questa idea Mario Monti sviluppò la sua famosa azione per “distruggere la domanda interna”, in modo da far calare le importazioni, ridurre i prezzi dei fattori produttivi (a partire dal lavoro, cioè dai salari), e creare le condizioni per le quali le imprese potessero investire al fine di esportare.
Un progetto che coscientemente passa per milioni di disoccupati (che salgono in due anni di oltre due punti percentuali fino ad un picco del 12,7%) e che genera il crollo del PIL che abbiamo visto.


Insomma, l’idea era che la causa della crisi fosse l’eccessivo livello dei prezzi, rispetto ai competitori europei ed in particolare a quelli del nord Europa, determinato dagli anni di credito facile seguiti alla creazione dell’Euro, ed in particolare al sistema “target 2”.

PIL UE e componenti 2005-13
Questa idea, sospetto, è anche alla base del passaggio del Rubicone che Matteo Renzi alla fine dell’anno scorso ha repentinamente deciso, provvedendo alla sostituzione del Governo di “cacciavite” Letta. L’ipotesi di lavoro di quel governo era che non si dovesse fare altro che concentrarsi sul lungo periodo, aggiustando “con il cacciavite” qualche meccanismo di fondo, lasciando che la crisi facesse il suo duro lavoro di depurazione dei canali otturati.
Questa idea è del resto alla base delle continue e reiterate proposte di marca liberista, di limitarsi a ridurre le tasse, alleggerire le regole, liberalizzare dai suoi vincoli il mercato del lavoro, lasciando per il resto che le cose vadano per il loro corso.

I consiglieri economici del Presidente del Consiglio dovevano essere della stessa opinione (del resto provengono da un unico ambiente culturale, dominato dal FMI, OCSE, BM, etc) e lo hanno quindi consigliato di concentrarsi su riforme istituzionali e interventi sulla struttura dell’amministrazione (pur utili). L’economia si corregge da sé.
L’unico “aiutino” che l’astuto politico ha voluto con forza introdurre è quello dei famosi 80,00 euro, utili per dare sollievo a qualche milione di lavoratori appartenenti alla piccola borghesia in via di impoverimento e soprattutto a vincere un’elezione. Intendiamoci, io credo che la misura non faccia in sé male e che la riduzione delle tasse alla parte debole del mondo del lavoro sia tra le cose da fare.

Ma l’effetto sui consumi, e quindi sul PIL, non sarà altrettanto diretta né forte. La ragione è piuttosto semplice, e la conosceva anche Monti: nelle condizioni del mercato unico europeo e della moneta unica le merci del nord Europa sono più competitive. Faccio un solo esempio: quando ero giovane chi aveva una BMW o una Mercedes era il fortunato e raro possessore di uno splendido veicolo e di un capitale desiderato; chi aveva una Alfa Romeo aveva uno splendido veicolo (nella meccanica) ma una macchina molto più economica. Oggi una Serie 2 costa 26.000 euro, mentre una Giulietta più o meno lo stesso.
Il moltiplicatore (come ricorda Bagnai in un interessante e vivace post del suo blog) della iniezione di liquidità sul mercato interno è andato, insomma, in parte sul mercato tedesco.

Del resto appena si sono date le condizioni della crisi, dal loro punto di vista abbastanza comprensibilmente, qualcuno ha tirato le reti e la tonnara è diventata stretta. Se la neutralizzazione dell’effetto naturale di mercato del cambio ha consolidato nel tempo insostenibili condizioni di vantaggio al sistema industriale fortemente interconnesso e collegato a bacini di lavoro a buon mercato nel suo est (condizione che si è creata all’indomani dell’unificazione e poi della dissoluzione dell’Unione Sovietica, e che è all’origine del progetto europeo), l’eccesso di debito che via via si stringe per effetto della volontà del sistema creditizio europeo (dominato anche culturalmente dalla Bundesbank) impedisce ai “tonni” (animali, farei notare, di regola forti se in acqua libera) di sottrarsi alla trappola.
Queste sono le condizioni nelle quali il continuo insistere su riduzione di spesa e politiche dell’offerta (in mezzo ad una colossale distruzione di capacità potenziale determinata dalla carenza di domanda) genera il probabile crack finale italiano.

Ridurre la spesa pubblica, nelle condizioni attuali, è infatti dal punto di vista quantitativo un esercizio dannoso, contribuendo alla riduzione degli incassi del sistema privato (aziende e cittadini), in gran parte italiano. Non è obbligatorio che sia così, dal punto di vista teorico può essere invece un’opportunità per ridefinire gli assetti del sistema economico e sociale italiano, a condizione di comprendere che prevede un cambio di assetto sociale e del bilanciamento del potere. La definizione di nuove pratiche di consenso (dato che la spesa è un formidabile veicolo di attrazione e cattura del consenso) ed una vera e propria trasformazione civile. In questa accezione è una formidabile opportunità, ma deve partire da un movimento sul territorio (diciamo più dall’ipotesi di lavoro di Barca che da quella di Renzi) che deve essere intrinsecamente morale e politico, poi anche tecnico; deve individuare e calare su ogni situazione locale nuove procedure e nuove politiche, identificare nuovi attori sociali di riferimento, valorizzare identità e biografie nuove. Non può essere concentrato in un gruppo di teste, non può essere fatta da una task forces isolata. E’, in effetti, la ripresa della politica come progetto e in questo senso (ma solo in questo) è la più importante delle riforme.
La sua carne e sangue sono i meccanismi che consentono di fornire un servizio guardando alla domanda sociale e pensandola come un canale ed un argine. Riprendere e separare i vizi che hanno fatto l’Italia (e di cui dovremo pur un giorno parlare) e guardare al nuovo millennio cercando un diverso equilibrio che non lasci indietro nessuno.

Vedere la spending review come un mero risparmio di spese che comunque sarebbero inutili o dannose, finalizzandolo meramente a ridurre le tasse alle imprese ed ai ceti imprenditoriali (quelli che “creano lavoro”) come vorrebbero in molti, è invece un ottimo contributo a stringere la rete.


La soluzione alla trappola nella quale siamo passa invece per la ridefinizione del sistema e delle relazioni essenziali nelle quali coscientemente alcune élite italiane ed europee hanno posto il paese (per la seconda volta, ancora attraverso la retorica del “vincolo esterno”). Per lo smontaggio di questo sistema disfunzionale a connessione dominata (in primis dai “mercati”, quindi dal più forte tramite l’acritica valorizzazione della “competizione”) che determina ormai lo stato di paralisi di parte importante delle nostre forze produttive.

Dunque passa per il riconoscimento che la crisi non è congiunturale ma strutturale.
- La crisi è strutturale perché determinata da una costante contrazione del credito, quindi della massa monetaria, non bilanciata da politiche di compensazione da parte pubblica. Anche l’imminente Quantitative Easing in chiave BCE potrebbe tradursi nell’ennesima politica dell’offerta rivolta al settore bancario.
investimenti società non finanziarie
- È strutturale perché affonda le sue radici in un progressivo svuotamento ed erosione della capacità economica della maggioranza della popolazione dipendente dal suo lavoro, schiacciata tra le tecnologie “labor saving” e la competizione ineguale portata da sistemi economici e sociali del tutto diversi messi in contatto senza alcun filtro o protezione inseguendo il mito del libero mercato che farebbe l’interesse della crescita e dello sviluppo.
- E’ strutturale anche per le sue sedimentazioni nella forma e nella struttura del territorio, che contribuiscono ad esasperare l’ineguaglianza e lo svantaggio.
- E’ strutturale per la questione della moneta, che determina nelle condizioni attuali decisivi ed incolmabili svantaggi sia di cambio verso l’estero (l’Euro, come media delle diverse economie è sempre troppo forte per quelle più deboli e troppo debole per quelle forti; in conseguenza inibisce le esportazioni dei deboli e favorisce quelle dei forti) sia di bilancia commerciale verso l’interno (in quanto inibisce il naturale meccanismo di ribilanciamento di bilance commerciali troppo sbilanciate).

In queste condizioni la questione non è l’Italia, ma è l’Unione Europea che da strumento della forza comune nei confronti del mondo globalizzato (che, peraltro, ha attivamente contribuito a creare) è diventata lo strumento di alcuni settori economici dominanti, e dei loro alleati, per rafforzare il proprio dominio. La questione è il sistema di connessione dominato, colonizzato dalla logica della colpa, che impedisce a troppi di dispiegare le proprie potenzialità.


Nell’audizione del Direttore di McKinsey Stefano Visalli alla Camera dei Deputati del 26 giugno 2013, quindi oltre un anno fa, si leggeva il seguente quadro:
il nostro è il Paese più dipendente dal credito bancario in Europa: per ogni 100 euro di debito di qualsiasi tipo, 70 euro sono forniti dalle banche, mentre in America solo 30 euro, in Inghilterra, ancora meno, solo 29, e in Germania 50. Siamo, pertanto, il Paese con le aziende più piccole, più indebitate e più dipendenti dal sistema bancario.
Passando dal contesto generale alla situazione attuale, devo aggiungere che Pag. 4 siamo anche il Paese che sta vivendo la crisi economica più grave dell'ultimo secolo. Abbiamo fatto analizzare la contrazione del Prodotto interno lordo dall'inizio della crisi ad oggi e, come si vede nella slide, nel 2012 abbiamo registrato un meno 7 per cento e nel 2013 toccheremo un meno 9,4, sfiorando, dunque, il 10 per cento. Durante la Grande depressione, periodo durante il quale fu creato l'IRI e fu riformata tutta l'economia italiana, eravamo a meno 5 per cento; durante la crisi petrolifera a meno 2. La crisi che abbiamo vissuto fino ad oggi è, pertanto, cinque volte più grave della crisi petrolifera del 1974 e due volte più grave della crisi del 1929. Siamo nel momento più difficile dell'ultimo secolo, come infatti si vede nelle analisi macroeconomiche.
Un simile momento di crisi porta una parte consistente del sistema industriale italiano a trovarsi in grave sofferenza. Abbiamo fatto analizzare i bilanci delle 9.000 aziende tra i 30 e i 500 milioni di fatturato, ossia delle aziende mediamente grandi. Di queste, quasi un terzo sono aziende che potremmo definire zombie company, ovvero il cui livello di debito è talmente elevato che l'imprenditore sa, o, se non lo sa, dovrebbe saperlo, che molto difficilmente riuscirà a ripagare i debiti. Quella che si trova a gestire, e che sta ancora gestendo, è, dunque, un'azienda che, di fatto, ha debiti che non sarà in grado di ripagare in un qualsiasi ragionevole scenario futuro.
Queste 2.500 aziende realizzano circa 200 miliardi di euro di fatturato, hanno 500.000 dipendenti e quasi 100 miliardi di debiti. Oggi, in Italia, ci sono aziende, dunque, con quasi mezzo milione di dipendenti che funzionano, operano e vendono, ma nelle quali, in realtà, l'imprenditore non sarà in grado di pagare i debiti. Non c’è alcun meccanismo per distinguere, tra queste aziende, quelle che avrebbero un potenziale da quelle che non ce l'hanno, e da quelle che avrebbero un potenziale inferiore ai nuovi capitali, al fine di costruire idonee strategie di uscita.
In questo contesto il dato relativo ai «crediti cattivi», cioè alle aziende che non rimborsano il debito, sta salendo in modo esponenziale. Oggi il sistema bancario si trova a operare con oltre 200 miliardi di euro di crediti concessi alla clientela e non restituiti, o difficilmente restituibili. Di questi, circa la metà riguarda le aziende. 
Una simile situazione innesca un circolo vizioso, in cui la crisi economica determina un aumento delle sofferenze, che colpiscono gli utili bancari. Non avendo utili, le aziende bancarie, che, in base alla legge, devono mantenere una quota di patrimonio a fronte dei crediti che erogano, si trovano a dover essere molto più selettive. La selettività rende più difficile accedere al credito e la difficoltà di accesso allo stesso rende più difficile pagare i propri fornitori. Qualcuno, di conseguenza, fallisce, e il ciclo si rafforza. Naturalmente, il ciclo è stato indotto dalla crisi economica, cioè dalla recessione. D'altronde, siamo nella crisi più grave dell'ultimo secolo e le banche stanno reggendo anche bene, considerate le circostanze”. 

Questa breve comunicazione individua un quadro che il nostro sistema di governo economico non vuole vedere: il debito assunto in una fase espansiva, fondando sull’aspettativa di crescita personale e comune, non è assolutamente sostenibile entro il quadro della maggiore contrazione del secolo (passato). Non comprendere questo dato espone il paese, e per quel che vale anche il Governo, ad un vicolo cieco.

Le possibili soluzioni (comunque in un contesto inflattivo e non deflattivo) sono solo:
    -         Il default controllato del debito pubblico e privato (con o senza l’Unione Europea), ma senza immaginarlo come una colpa dalla quale occorre essere “redenti”; una ipotesi che persino Rogoff in un paper per l’FMI ha avanzato;
      -         L’inversione della contrazione monetaria, operando sulla base effettiva, e quindi sul sistema bancario, che in queste condizioni è delegato alla effettiva creazione di moneta, tramite forme di nazionalizzazione soft (o hard) delle stesse, con o senza garanzie dello Stato e/o fondi di rotazione;
      -         La nazionalizzazione delle imprese “Zombie”, con perdita degli azionisti e proprietari, assorbimento in una nuova IRI e successiva reimmissione sul mercato dopo il risanamento.

Tutte queste possibili azioni, per non limitarsi a curare la congiuntura dovrebbero vedere un nuovo protagonismo e coraggio dello Stato (nello spazio generato dalla riduzione del debito), che si spenda in massivi interventi in infrastrutture, riconversione energetica ed ambientale, formazione, ricerca e sviluppo per creare lo spazio per la crescita futura e l’incremento della competitività e produttività reale e sostenibile del sistema paese.

Chiaramente una simile ipotesi rappresenta, nelle condizioni contemporanee un rovesciamento del quadro complessivo dei poteri e probabilmente non può essere fatto entro il quadro degli attuali Trattati, di sicuro nel contesto del Fiscal Compact, che andrebbe riscritto.


C’è quindi un’alternativa:
      -         Una manovra dura un autunno ed una più dura in primavera;
     -         L’arrivo della Troika quando i mercati perderanno fiducia e, più o meno coordinati, svilupperanno di nuovo l’azione aggressiva del 2011;
     -         La nomina di Mario Draghi a Presidente della Repubblica con poteri rafforzati nel quadro della garanzia dell’Italia ai creditori.

   Fino ad allora, certo, si può comprare tempo, più o meno creativamente attraverso continue innovazioni finanziarie, manovre della BCE, distrazioni sulle regole, etc.




Non c’è azione senza reazione. Per questo vedremo tempi interessanti.


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