Prende sempre
più forza, nella sfera pubblica politica un piano di discorso che critica l’attuale
assetto dei poteri e quello che potrei chiamare l’equilibrio delle forze in
campo alla luce di un pensiero semplice ma dalle molte dimensioni: questo assetto è inautentico.
Tradisce la sua
provenienza da ristretti cenacoli resi impermeabili alle voci dei più e
manifesta una chiara volontà di violenza verso gli interessi e le stesse
soggettività della grande maggioranza. Inoltre resta legato a tecniche e
linguaggi che rendono l’uomo, per così dire, in-umano. Questi assetti sono antropologicamente, prima che
socialmente (ed ovviamente economicamente) insostenibili.
Questo discorso
si articola in innumerevoli modi, secondo la posizione dei parlanti, e lo
stesso scrivente, come questo blog, potrebbe essere ascritto ad esso.
A me pare una
fondazione solida, ma vorrei anche riflette sui suoi limiti e provare a traguardare
il punto in cui traballa.
Un centro tematico è la critica alla globalizzazione, cioè alla particolare forma che ha preso nelle
condizioni della modernità contemporanea l’interconnessione tra i sistemi
sociali ed economici del mondo. La dico così perché il grandioso fenomeno della
crescente interconnessione, o per meglio dire al negativo della caduta delle
barriere protettive e inibenti (siano esse di natura normativa, o
regolamentaria, tecnica o culturale), che muove negli ultimi quaranta anni ed
accelera nei quindici del nuovo millennio, ha una sua forma e insieme definisce
la forma di tutto.
Ma dentro
questo, come incistato, c’è un altro piano di osservazione che mette nel mirino
l’effetto delle tecniche (in ciò
intendendo le tecnologie “distruttive” come la penetrazione della logica
infrangibile in esse incorporata) sulle società ed i loro equilibri che
venivano dal novecento. Dalla stagione del grande compromesso.
Ed ovviamente la critica all’autodirezione che prende,
in queste condizioni di forte interconnessione e di dominio di tecniche
razionalizzanti, il governo della società e la definizione delle politiche
essenziali. Ma anche la sua rappresentazione. In essa la critica di quella sua
ideologia centrale che chiamiamo imperfettamente “neoliberismo”.
Quel che sto
faticosamente nominando (limitandomi ai titoli) è un vasto programma. Che cerca
di mettere al centro del quadro uno
scontro sociale ed uno scontro costituzionale.
Sociale
perché diversi segmenti della contemporaneità si costituiscono e rappresentano
in riferimento alle diverse polarità che possiamo qui nominare. I “nomadi” e
gli “stanziali” (per restare al linguaggio tentativo che abbiamo provato ad
usare), ma anche le élite e le moltitudini (termine ripreso da Macchiavelli
nell’analisi di Toni Negri che tra breve leggiamo insieme in “Impero”),
o tecnocrati contro “privilegiati” (dal welfare novecentesco), competitivi
contro “assistiti”, efficienti contro marginali, e via dicendo. Lo esprime
abbastanza bene il recente scontro tra Corbyn
e Blair sulla stampa inglese. L’ex premier accusa, con uno sconcerto che credo
sincero, il leader della sinistra di essere temerario ed obsoleto, di portare
verso il burrone e insieme lontano dal futuro. Lo accusa di essere inautentico,
di non connettersi con lo spirito “vero” del mondo per come è, in cerca di una
fondazione mitica totalmente velleitaria. È una posizione forte, con qualche
buona freccia al suo arco, ma fonda su una differenza che è quasi fuori del
campo visivo del leader della “terza via”: la società che guarda è diversa da
quella nella quale Corbyn (e la parte ormai piuttosto maggioritaria degli
inglesi) è immerso. L’ex politico passa le sue giornate circondato dalla
dinamica società interconnessa mondiale, sale e scende da aerei per entrare in
grandi resort, segue le sue legittime imprese private (di consulenza strategica),
e frequenta il “bel mondo”. A ben vedere lo ha sempre fatto, anche e
soprattutto quando governava. Corbyn è in contatto con altra gente.
Ma anche uno
scontro costituzionale, perché ha ad
oggetto la definizione attraverso lo scontro ed entro la storia (non certo alla
sua fine) della direzione in cui dovrà formarsi la società del XXI secolo e la
sua rappresentazione. È dunque anche uno scontro democratico.
Quel che sto
nominando è una lotta per l’anima del mondo.
Ma dicevo che c’è
un punto in cui la fondazione di questo discorso mi pare traballi. La critica radicale al mondo della tecnica, rispetto al
mondo-della vita ad esempio, o alle sue proiezioni sociali e culturali, è una
vasta corrente novecentesca. Possiamo ricordare la “dialettica negativa” di Adorno e il suo buon rifugio nell’autenticità
dell’espressione artistica (ultimo “vicario” della classe trasformante ormai
perduta), oppure le recenti
critiche di papa Francesco (in linea con una lunga tradizione); possiamo rileggere
tutta la scuola del sospetto, e l’impresa della decostruzione sulla linea
Nietzsche-Foucault-Derrida, il cui senso (in una vertiginosa sequenza di
rovesciamenti di pura tradizione scettica) potrebbe essere sospettato (a sua
volta) in un ipermodernismo paradossale forse in linea con il tempo.
La scomparsa del
soggetto moderno lascia la critica negativa di Adorno (e in modo diverso quella
di Foucault) sull’incerto terreno di un richiamo all’autenticità contro quella
che potrebbe essere nominata come falsa
coscienza della tecnica moderna. O delle tecniche di assoggettamento e
definizione insieme dell’uomo. Ma questo discorso sta dentro l’aporia
costitutiva dello scetticismo storico, gira in un cerchio.
Dunque è ben
possibile (senza avere il punto esterno di cui si giova Bergoglio) che la falsa
coscienza della tecnica moderna, con tutta la sua immensa potenza
destrutturante e ricomponente, sia antropologicamente distruttiva e socialmente
insostenibile. Può ben connettersi tutto questo alla critica della
globalizzazione e anche alle profezie sulle nuove tecniche “distruttive” (alle
quali anche io indulgo).
Ma si rischia, senza
prestare la dovuta attenzione al bordo del discorso entro cui si sta, di
attardarsi ad ululare contro la luna, incorporando inconsapevolmente un pensiero
mitico su questa linea di ricerca di una autenticità più essenziale, o più
originaria.
Questo percorso
(potremmo nominare Marx, Francoforte, Foucault, ed Habermas) mi conduce a
valorizzare lo schema di lavoro post-metafisico di Habermas. Che preso sul
serio induce contemporaneamente ad una militante sospensione ed alla fiducia
(disperata) nella costruzione del futuro attraverso l’intersoggettiva produzione
di norme e di discorsi.
Magari con la “glossa”
di Honneth che valorizza più esplicitamente le lotte per il riconoscimento ed
il conflitto sociale (da leggere “Critica
del potere” e “Riconoscimento
e disprezzo”, ma anche gli altri testi di un vasto dibattito).
Nel farlo, e ringrazio chi mi ha segnalato questa linea di faglia, osservando anche un'altro "bordo", quello in cui una qualche eticità sostanziale (declinabile in chiave funzionale, ad esempio di classe, come locale, cosa particolarmente critica) portata da macrosoggetti, più o meno immaginati o costruiti, e proiettata attraverso la propria azione nella sfera pubblica politica induca disciplinamenti in entrambe le direzioni. Verso la società e verso l'individuo. Ciò condurrebbe ad una apparente emancipazione, dai vincoli sistemici imposti dai codici "denaro" e "potere", nello stesso gesto ricreando potere sociale soggiogante.
La critica
dovrebbe in altre parole restare sempre aperta e non ricadere né in una qualche forma
di filosofia della storia (per quanto dialettica) né nella forma conciliata di
piani di fondazione mitici con cui bordeggiano le versioni decrescioniste e/o
ambientaliste radicali, nè con forme di localismo intrinsecamente autoritario.
Con questa avvertenza, lo scrivo con Honneth: “di fatto se questi valori sostanziali [le forme particolari di ethos che si radicano in particolari cluster sociali] punteranno in direzione di un repubblicanesimo politico, in quella di un ascetismo ecologico, o in un’altra ancora, e se questi valori presupporranno mutamenti nelle configurazioni economiche delle nostre società o rimarranno invece compatibili con le condizioni del capitalismo, non sta più alla teoria determinarlo, bensì al futuro, ed ai conflitti sociali di cui sarà intessuto” (H., ReD, p. 45).
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