Quello che segue è un lungo
testo, elaborato tra il 1994 ed il 1997 nell’ambito del corso di dottorato di
ricerca in Pianificazione Territoriale ed Urbana presso il DPTU a Roma, sulla
base di riflessioni e ricerche che risentono naturalmente del clima intellettuale
e delle problematiche emergenti dei primi anni novanta nell’ambiente
urbanistico italiano ed internazionale. È una piccola parte (una metà del “Quarto
Percorso”) di un testo sicuramente lungo e complesso e che, come molte tesi di
dottorato cerca di dire troppe cose insieme. Partito per una troppo ambiziosa
meta il testo (che è disponibile integralmente qui)
probabilmente in molte parti meriterebbe una radicale riscrittura (se ne avessi
le forze) e sforbiciatura, in altre decisi approfondimenti.
Ma questo frammento, pur
nella sua tessitura accademica (di cui non posso che scusarmi) conserva qualche
interesse per il tema, costantemente emergente, della ricerca del sostituto
funzionale della lotta di classe nell’attivismo localista. Si sarà intravisto
in qualche post che condivido parte dell’ispirazione serbando al contempo
significative remore (ben evidenti nella discussione con la “teoria della
decrescita”, ad esempio qui,
o qui).
Pure nell’ultimo post,
sono stato portato a segnalare il rischio che “la ricerca di una qualche
eticità sostanziale (declinabile in chiave funzionale, ad esempio di classe, come locale, cosa particolarmente
critica) portata da macrosoggetti, più o meno immaginati o costruiti, e
proiettata attraverso la propria azione nella sfera pubblica politica induca
disciplinamenti in entrambe le direzioni. Verso la società e verso l'individuo.
Ciò condurrebbe ad una apparente emancipazione, dai vincoli sistemici imposti
dai codici ‘denaro’ e ‘potere’, nello stesso gesto ricreando potere sociale
soggiogante”.
Un testo del 1997 dovrebbe
essere del tutto riscritto, dunque lo riproduco senza alcuna modifica (le
immagini rappresentano l’indice della tesi).
“Quarto Percorso: proposte per concepire il “Negoziato” ed il
ruolo in esso delle norme sociali.
4.0-
“Discorso” e “Comunità Politica”: alcune note a partire da John Friedmann.
4.0.1-
Premessa: l’insufficienza dell’argomentazione come metodo di decisione,
In
base alle molte cose dette sulla pratica dell’argomentazione razionale emerge,
in qualche modo, la sua insufficienza come princìpio di spiegazione e guida
dell’azione, almeno se quest’ultima è intesa - in base ad un elementare
princìpio di realtà - per come la incontriamo di fatto nelle nostre
pratiche.
Da una parte, infatti, si deve sottolineare come
all’argomentazione si debba ricorrere solo ogni qual volta si produce, di fatto
e su qualche punto concreto, una contestazione
da parte di qualche interessato; ciò perché non tutto, e non sempre, può
essere espresso con le attenzioni per la separazione delle “sfere di validità”
(e delle relative “pretese”) indicate nello schema ricostruttivo
habermasiano. E' abbastanza evidente,
infatti, che si produrrebbe una regressione all'infinito. Per ricordare brevemente il punto si può
sottolineare come la distinzione prodotta fra tre complessi di razionalità e
fonti di senso (quello cognitivo - strumentale, pratico - morale ed estetico -
espressivo) non rimanda ad una proposta normativa, imposta, cioè, dall’esterno
al linguaggio ed all’interazione, ma ambisce ad essere una ricostruzione
razionale di “competenze” che sono comunque esercitate nel discorso di
partecipanti correttamente socializzati.
Distinguere tra sfere di senso delle espressioni avanzate rimanda,
allora, alla competenza di volta in volta esercitata, ed alla struttura dei
rapporti con il mondo (oggettivo, sociale e soggettivo) attivati da parlanti
pragmaticamente efficaci. Esplicitare
tale profondo rapporto tra il modo del proprio dire e le connessioni che si
stabiliscono con il mondo è, in base all’auspicio di Habermas, produttore di
socialità e razionalità. “Socialità” in
quanto rafforza i legami di solidarietà e comprensione che ci legano agli
altri, attraverso la condivisione di significati, “razionalità” in quanto rende
i saperi stessi più trasparenti e riflessivi.
Sulla base di questa posizione avevamo ricostruito,
nel Percorso precedente, la proposta di distinguere tra “pretese di validità”
diverse (di «verità ed efficacia», di «giustezza o adeguatezza», di
«veridicità») che sono sempre
compresenti in un atto linguistico completo e comprensibile, ma con diverso
grado di importanza ed esplicitazione.
Vale qui la pena di sottolineare che riferirsi esplicitamente a sistemi di “pretese di validità”, detto con le
parole di un interprete di Habermas, “significa spogliarsi di qualsiasi
posizione di potere in termini di forza, prestigio, influenza, ed affidarsi
esclusivamente alla validità, ossia
alla difendibilità argomentativa di ciò che si enuncia a fronte di possibili
critiche”[1].
Rispondere alla domanda cruciale: «in che senso dici
questo ?» (ed anche, se del caso, farlo anticipatamente) significa,
allora, tematizzare la “validità” proposta, cioè esplicitare la “sfera di
senso” nella quale si avanzano delle pretese.
Pretese che sono sempre descrizioni di “stati del mondo” (fisico,
sociale o soggettivo) esistenti o desiderati, e proposte di coordinamento in
vista dell’azione. Il discorso razionale
è, in questo senso, sistematicamente, una forma di comunicazione rivolta a
tematizzare “validità” scambiandosi argomenti.
Senza continuare questa ricostruzione della teoria di
Habermas, della quale abbiamo parlato a lungo nel Percorso precedente, è
tuttavia chiaro che se il parlante fosse nelle condizioni di dover esplicitare sempre tutte le premesse di quanto dice,
distinguendo quelle che si riferiscono prioritariamente a “fatti” da quelle che
rimandano a “norme” ed ad “identità”, sarebbe obbligato ad un discorso
interminabile. Inoltre, nessuno ha la
pretesa di essere autotrasparente in relazione alle ragioni (o sul riferimento
a sfere di senso) di ciò che dice. Non credo
sia necessario rifarsi su questo punto alla letteratura “postmoderna”[2]
per ammettere che manchino fondazioni ultime e tutto si rimandi reciprocamente
in un tessuto di testi e discorsi, nel suo insieme autoreferente.
D’altra parte, e più in generale, parlare del
significato dell’«argomentazione razionale» per se stessa non può essere, in
alcun modo, sufficiente per il nostro lavoro di urbanisti. Non tutto e sempre può essere
argomentazione.
Abbiamo già fatto cenno alla non riducibilità della
decisione all’argomentazione o al discorso, e al ruolo del “giudizio pratico”,
inoltre faremo cenno in seguito alla struttura istituzionale in grado di
accoglierlo e potenziarlo, però, prima produrre qualche limitata conclusione, è
necessario avanzare sistematicamente un’importante specificazione:
“l’argomentazione” è sempre intrecciata a forme negoziali, nelle pratiche con
le quali abbiamo concretamente a che fare.
Se si vuole che il proprio discorso abbia la possibilità di avere qualche impatto sul reale tale circostanza
non può essere mai dimenticata.
4.0.2-
Una proposta ambigua: Friedmann e la prevalenza della “Comunità”.
Avanzando questa specificazione, oltre che seguire la
dinamica interna del nostro discorso, si intende reagire alla percezione di un
rischio. Nel paradigma “comunicativo”,
almeno in alcune influenti sue declinazioni, sembra di vedere una profonda
linea di instabilità; si tratta di un’impressione generale e non specifica
anche se in qualche punto appare più evidente.
In alcuni toni si registra un’inclinazione ambigua verso un’impostazione
anarchica o, talvolta, liberal - radicale (nel senso di un Von Hayek) che si
presenta, ma in modo non sufficientemente esplicito, come utopia
politico/sociale.
Si tratta chiaramente della ripresa di una lunga
tradizione, profondamente interna nella disciplina, ma quasi esente di riflessione
sulle proprie radici. Al di là di questo
la perplessità che tale stato di fatto provoca in chi scrive è nella percezione
della messa in opera di un’immagine assolutamente ridotta e “militante” (nel
senso di semplificante) dell’esistenza di aggregazioni, funzionali e non, di
uomini. Un’immagine “discontinua” dove
il salto è tra “comunità” ed “individuo” con una netta sottodeterminazione del
secondo rispetto alla prima. Tale
insieme è attraversato diagonalmente da gruppi e organizzazioni letti come
free-rider, che rifiutano di giocare il gioco “locale”, e quindi come nemici
(o, talvolta, come oggetti nel senso di risorsa).
Sembra evidente che ciò si può collegare ad un grande
movimento che ha interessato gli ultimi anni, confuso come tutti i fenomeni
complessi, provocando una ricentratura dalla percezione di una relazione
stratificata “orizzontale” della società (con divisione in “classi”, o aree di
interesse) ad un’idea di società come insieme e rete di confini “verticali”
locali. Dove, all’interno di questi
confini le relazioni sono immaginate come potenzialmente
antiautoritarie, orizzontali, caratterizzate e coinvolgenti quanto nella
società “globale” esse sono denunciate come gerarchiche, fredde e omologanti[3].
In questa vivida rappresentazione è, però, trascurata
la percezione dell’importanza in positivo della stratificazione sociale, e
della divisione del lavoro, soprattutto attraverso la mancata considerazione
dell’importanza delle relazioni “funzionali” nel generare coesione attraverso
l’interazione di forme di “agire strategico”.
Questo è precisamente il tema che sarà affrontato in questa parte del
testo: la tesi è che anche l’agire
strategico provoca coesione, sia pure in forma e per vie diverse dalla
solidarietà elettiva. Le due forme di
legame ed intreccio tra le azioni e le personalità sono, anzi, tali da
rimandarsi vicendevolmente.
Ciò può portare a recuperare un’attenzione meno
selettiva verso il ruolo della democrazia istituzionale e della “ragion
pratica” incorporata nelle istituzioni liberal-democratiche, come anche lo
stesso Habermas, nell’ultima fase del suo lavoro, ricorda. E rifiuta l’idea, molto radicata, che la
legittimità democratica richieda, ad un qualche grado elevato, una sorta di “omogeneità”
del demos. Viene, al contrario,
valorizzata la presenza di una sorta di solidarietà tra estranei che intendono
restare tali; una solidarietà “astratta e mediata giuridicamente”, come dice
Habermas in Fatti e norme[4].
In questa tesi é riverberata
in fondo sia la critica di Luigi Mazza al “socialismo anarchico di Friedmann”,
e quindi alla prospettiva che finalità generale e standard di valutazione
dell’azione del planner sia la “ricostruzione” della Comunità Politica; che
quella di Crosta alla possibilità stessa di fare dell’interazione sociale
l’oggetto tematico di pratiche disciplinari[5]. Ciò non significa che la forte accentuazione
del carattere politico e morale delle attività di pianificazione, presente
negli approcci citati, non sia condivisa da chi scrive, ma, solo, che tale sottolineatura
non deve mai fare dimenticare le prestazioni meno “nobili” della prassi
urbanistica stessa. Il suo essere una delle arene attraverso cui si vince
e si perde nella corsa all’accesso delle risorse a base territoriale.
La tesi che avanzeremo é
che, anzi, c’é una relazione tanto stretta da essere indistinguibile tra le
pratiche di interconnessione, e generazione di significati condivisi, e quelle
di distribuzione di risorse via scontro.
Il
nodo che viene alla luce è quello di una relazione tra “intenzione” ed “azione”
non lineare, continuamente attraversato da conseguenze non intenzionali, capaci
di orientare la (ulteriore) azione. Ciò
limita (ma non elimina) l’efficacia della sola ragione nel suo compito di
guidare la società.
Critiche di questo segno,
nella seconda metà del nostro secolo, ne sono state avanzate in quantità
estremamente ampia, sia da posizioni conservatrici e (talvolta) reazionarie,
che da posizioni radicali, da destra e da sinistra, dalla filosofia e dalle
scienze sociali. La posizione che si
prende in questo testo è intermedia: occorre predisporre gli strumenti
intellettuali ed operativi per “tenere conto delle relazioni reciproche tra
ragione e interazione sociale”[6].
A questo scopo è proposto un
esercizio di lettura incrociata di due autori, anche distanti tra di loro come
posizione disciplinare (non così come schieramento) ma non incompatibili,
Elster ed Habermas; una lettura incentrata su frammenti per una teoria
dell’azione capace di intrecciarsi con una semplice concettualizzazione della
ragione pubblica.
La speranza è, in tal modo,
di fare un passo verso l’oltrepassamento[7]
sia dell’approccio che vede la società guidata da esperti, in grado di
riconoscerla nei termini di “domanda sociale”, e sia di quello in cui i
pianificati (la “gente”) sono indotti al dialogo dai professionisti
(“radicali”).
Nel secondo caso i limiti
sembrano, a chi scrive, emergere nelle pieghe stesse dell’interessante idea che
ciò che conta sia un “buon” processo; e, cioè, “l’apprendimento” di un legame
“diretto” con il territorio “abitato”[8]
dai soggetti e con l’ambiente in cui sono immersi. Oltre ad un certo fondamentalismo, le cui
provenienze sarebbe ora troppo lungo e difficile risalire nella, interessante e
generosa, posizione richiamata sembra a chi scrive di vedere una strategia di
formazione del consenso che attenua il problema del rapporto con la scelta ed
il conflitto, anzi gli innumerevoli conflitti che attraversano in tutte le
direzioni la società. Ciò si può
intravedere nella strategia di riduzione dei conflitti, empiricamente
rilevabili, a un livello fondamentale
cui riportarli[9].
Anche se la posizione citata
muove proprio da un’insoddisfazione
verso la qualità, ed il processo di formazione stesso, delle scelte, oltre che
dall’esistenza di conflitti rimossi, sembra aver subito, in altre parole, una
mutazione lungo la via della ricerca del fondamento. Ritrovando, infatti, quest’ultimo nel legame
“diretto” tra territorio abitato ed abitanti viene ricercato un consenso che torna ad assomigliare
all’assenso sulle proprie posizioni perchè giuste (ovviamente a fin di
bene). Il dialogo è presentato, allora,
come una pratica il cui oggetto è già stabilito; una pratica capace di “portare
alla luce il sommerso” senso del luogo[10].
Se si tratta, però, davvero
di un “portare alla luce”, allora la cosa è problematica, in quanto il gesto stesso presuppone
un’identità indipendente dal processo, cioè tale da esistere a priori (magari
nascosta agli stessi interessati) rispetto al processo di comunicazione e
conflitto generato localmente intorno alle pratiche urbanistiche. Ciò è piuttosto pericoloso[11]
in quanto sposta il problema del consenso
su un binario preformato, anticipando nella teoria i risultati
dell’interazione; cosa che, tra l’altro, proietta domande non semplici sul
ruolo del planner stesso. Emerge quasi
un ruolo “educativo” e partigiano che, potendo naturalmente essere accolto da
alcuni a guida della propria etica dell’azione, mi sembra avere tuttavia dei
limiti come nucleo di una teoria più generale della pratica urbanistica. Il prendere parte per una diversa
organizzazione sociale configura, infatti, un ruolo politico forte per il
planner, ma lascia il sospetto che non sia del
planner[12],
d’altra parte l’educazione è una pratica rischiosa, quando si disponga di
poteri e saperi quali quelli urbanistici.
Il paternalismo è sempre dietro l’angolo[13]
come la stessa storia disciplinare ci può mostrare con abbondanza di esempi.
In questa stessa direzione
sembra andare anche la critica di Mazza che, discutendo della posizione di
Friedmann, definisce il “radical planner” come “un attore critico completamente
integrato nel gruppo in cui si riconosce e con cui opera e alla cui azione
offre un legame circolare con la teoria nella prospettiva della «creazione di
un ordine sociale alternativo, che necessariamente coinvolge la
ristrutturazione delle relazioni di potere basilari»”[14]. Cioè, come “attivista politico che ha la
formazione e gli strumenti di un intellettuale impegnato”[15].
Questo attivista ha un progetto
specifico (anche se, con una certa ambiguità, non è riconosciuta la possibilità
di un pensiero sostantivo separato dall’azione) la ricostruzione della
“comunità politica”, cioè di una “visione centrale che guida un progetto di
ricostruzione sociale”[16].
4.0.2.1-
Il percorso di Friedmann
Per sviluppare questa riflessione, capace di far
percepire lo sfondo sul quale si staglia la posizione che sto cercando di
costruire, sarà, allora, necessario rivolgersi alla lettura di un testo
capitale come “Pianificazione e dominio
pubblico” di John Friedmann.
Per fare ciò, in modo almeno minimamente consapevole,
però, bisogna ricostruire lo sfondo e la traiettoria nella quale il libro si
inserisce, completandola. Come è noto l’importante urbanista americano ha attraversato,
nel corso di un percorso pluridecennale, fasi anche notevolmente
contraddittorie. Secondo la lettura di
Chiara Mazzoleni ha attraversato almeno tre fasi: un’iniziale impostazione
comprensiva in chiave funzionalistica, negli anni ‘55- ’65, una fase
intermedia, dal ’65 al ’70, in cui emerge una proposta “adattiva” e
“contingente”, una fase terminale che dura fino all’oggi in cui avanza una
posizione “transattiva” e “dialogico-interattiva” di grande interesse ma non
esente da ombre.
Procederò sistematicamente ricostruendo, sia pure
brevemente, lo sfondo rispetto al quale leggere il testo di Friedmann che sarà
interrogato intorno ad alcune parole chiave.
Per fare ciò non sarà presa in considerazione la fase razional-comprensiva
ma solo quelle successive. In
particolare la seconda fase della teorizzazione di Friedmann lo vede proporre
una funzione del tecnico come attore strategico, espressione di una sorta di
“minoranza creativa”, la cui azione dipende dal contesto e dalla selezione
strategica direttamente coinvolta in pratiche negoziali. Al planner “non è conferita autorità in virtù
della sua posizione”[17]
e, in conseguenza, il suo ruolo deve essere legittimato “attraverso l’azione
concreta e la creazione di consenso.
Egli è ‘innovatore persuasivo’, esercita pressione per sostenere le
proprie proposte ed è più interessato a giustificare le azioni che non a
valutare le loro conseguenze”[18]. Emerge anche un’attenzione tematica a
tipologie di piano in relazione a tipologie di contesto.
La riflessione muove da un’iniziale distinzione tra
“pianificazione allocativa” e “pianificazione innovativa”; nel primo caso il
problema è razionalizzare situazioni date, cioè collocare risorse scarse tra
usi alternativi. Nel secondo ci si
riferisce alla gestione di politiche non routinarie, il suo problema diventa la
mobilitazione di risorse e si costruisce in corso di azione.
Il secondo genere di pianificazione implica
cambiamenti strutturali ma selettivi, un’azione squilibrante e propulsiva. Esso si può definire come “azione
strategica”, compiuta da una “minoranza creativa” di attori diversi, uniti in
temporanee alleanze. Lo stesso piano è
una “mossa tattica” in questo contesto strategico, in quanto esso riesce a
legittimare i nuovi obiettivi, giustificando l’azione e mobilitando il
consenso. E’, quindi, enfatizzata la
funzione persuasiva.
Il piano è strumento utile a favorire l’azione
dialogica, dove la nozione è “strettamente connessa al problema del consenso,
si riferisce cioè ad azioni volte a creare il consenso sulle scelte di piano”[19]. Una concezione molto interessante, in quanto
rappresenta un costante scivolamento possibile del termine “comunicazione”; un
rischio che si presenta quando le relazioni di questa con le pratiche negoziali
non sia oggetto di un’attenzione tematica e attenta come stiamo cercando di
fare in questo testo. La pianificazione
assume, comunque, il ruolo di guida del cambiamento in un sistema sociale. Essa può attivare, in altre parole, un
processo di autogoverno.
In una fase successiva è riconosciuto che, a seconda
del contesto specifico, la “pianificazione allocativa” può anche assumere
un’orientamento al processo e basarsi sul negoziato (alla Lindblom) anzichè sul
calcolo. Emerge anche un’idea della
“pianificazione innovativa” in termini di sperimentazione.
Viene, quindi, proposta la distinzione tra
“razionalità funzionale” e “sostanziale” che fa riferimento a Mannheim. La distinzione è nella familiare separazione
tra “mezzi” e “fini”, o nel comprenderli entrambi. La “pianificazione innovativa” è riportata
chiaramente al secondo genere di razionalità.
Alla fine degli anni sessanta si trova, invece, la
ricezione del modello dell’ “active society” di Etzioni, che supera l’idea (di
Lindblom) del mero adattamento spontaneo delle azioni sociali, riproponendo un
“sistema di guida” che, però, se deve fare fronte a fenomeni di instabilità,
deve essere “decentrato”. Ciò significa
che deve essere composto da “sistemi di intelligenza” dispersi e frammentati. Emerge, quindi, un utilizzo della teoria
cibernetica (Deutsch) che introduce “un’immagine del sistema di guida sociale
come insieme di flussi di informazione e sistemi di controllo”[20].
Vi è qui un’assonanza con il Melvin Webber del 1965,
che enfatizza la descrizione della città come sistema dinamico in azione, e la
rete a-spaziale di “legami di dipendenza” funzionale. In Webber il “sistema urbano è rappresentato
come una complessa rete organizzativa e funzionale di sotto sistemi
interdipendenti, la cui stabilità, efficienza e crescita dipende da processi di
autoorganizzazione e autoregolazione”[21].
In un articolo del 1971 emerge anche una critica più
approfondita della concezione comprensiva che fa uso di Lindblom, Wilson ed
Hirschman, enfatizzando il pluralismo e lo sviluppo squilibrato. Prevale, quindi, la pianificazione
“flessibile e adattiva” in una prospettiva negoziale.
Si può individuare, in questa fase, sia una recezione
che una critica all’ “advocacy planning” che produrrebbe sostanzialmente
instabilità. Una critica che è allargata
all’impostazione utilitarista di Lindblom ed a tutte le impostazioni pluraliste
nel senso americano[22]. Si riafferma, con ciò, “un’esigenza di
progetto, di una visione più organica in grado di comprendere tutti gli
interessi”[23]. La pianificazione comincia ad essere letta
come interazione tra un’intelligenza “scientifico - tecnica” e l’azione sociale
organizzata. E’, quindi, “un processo
continuo di aggiustamento, di esplorazione, di scoperta e di apprendimento,
all’interno del quale non si da separazione tra mezzi e fini”[24]. In tale contesto l’esperto è colui che ha una
maggiore capacità di apprendimento, intesa come indagine empiricamente fondata
attraverso “esperimenti significativi”[25].
Tale è lo sfondo sul quale emerge, in “Retracting America: a theory of transactive
planning”, un’idea della pianificazione basata sulla dimensione
comunicativa e l’apprendimento sociale.
Il dialogo è letto come dimensione costitutiva del tessuto sociale, a
sua volta autonomo rispetto all’azione pubblica. La pianificazione è un processo di
innovazione e apprendimento sociale nel quale la conoscenza dell’esperto
(scientifica) e dei soggetti (personale e “comune”) sono coniugate attraverso
il mutuo apprendimento in una dimensione dialogica. Il sistema di guida muta, dunque, in un sistema
innovativo di apprendimento sociale che opera in “scenari sperimentali”, dove
soggetti diversi sono impegnati in attività di sperimentazione capace di
produrre trasformazioni sociali.
In questa fase, secondo le parole di Chiara Mazzoleni,
“Friedmann enfatizza la dimensione dello sviluppo morale dei soggetti e
sostiene che l’efficacia della pianificazione deve essere valutata in
riferimento agli effetti prodotti sul comportamento degli stessi, in termini di
autoconsapevolezza, senso di responsabilità e soprattutto di capacità di
crescita attraverso cooperazione”[26]. Si tratta, dunque, di una funzione
comunicativa ed educativa della pianificazione[27].
Riferimenti di questa impostazione sono la cultura
regionalista degli anni ’20 (soprattutto Mumford e Geddes). In questo contesto emerge l’idea di
“comunità”, intesa come “aggregazione spontanea di soggetti che manifestano un
approccio unitario, che non hanno bisogno di un’autorità esterna per preservare
uno stato di coesione”[28]. La comunità, in altre parole, si fonda su
princìpi morali liberamente assunti.
Nel successivo articolo “The good society” si afferma che la “buona società” è una rete di
“buone comunità” dove, cioè, le relazioni tra i soggetti, che si riconoscono
vicendevolmente come tali, sono nella pratica fondate su azioni dialogiche che
prescindono da ordinamenti gerarchici e consentono relazioni dirette (faccia -
a - faccia).
Esse devono essere costituite da piccoli gruppi che
operano negli interstizi della società amministrata, attraverso la “pratica
radicale”; trasformando alla lunga, e in modo non sistematico, le stesse
istituzioni. Secondo la lettura di
Mazzoleni, insomma, “la costruzione di una società diversa si traduce nella
ricerca della persona reale, nascosta sotto i condizionamenti, le aspettative e
gli obblighi delle istituzioni e dei ruoli sociali”[29]. Emerge anche una concezione relazionale del
soggetto stesso, che fa riferimento all’idea normativa della “comunità morale”,
intorno alla quale costruire il “bene pubblico”. Un “bene” che scaturisce da una rete concreta
di riconoscimenti reciproci e di solidarietà, in polemica con l’atomistica
concezione dell’ “interesse collettivo” di derivazione utilitarista.
Il “bene pubblico” si definisce in termini di
processo. Inoltre essi sono “presupposti
nell’idea stessa di comunità”[30]. Prevale qui un’immagine della comunità in cui
il riferimento è, in modo molto tradizionale, Tönnies[31]
e in cui il sociale è espressione di una volontà comune, direttamente emergente
dalle relazioni interpersonali che i soggetti stabiliscono
vicendevolmente. Il sociale è, cioè, un
effetto della sola comunità, dove i rapporti sono diretti, non sono mediati dal
rapporto con il mercato e sono esenti dal dominio. Un’idea della massima importanza, interesse e
(dal nostro punto di vista) anche pericolosità, della quale riparleremo a
lungo.
Altro riferimento è Mumford e Cooley in cui le
comunità, costituite da piccoli gruppi, e fondate sulle relazioni “faccia - a -
faccia”, determinano una profonda integrazione tra individuo e gruppo. Con le parole di Chiara Mazzoleni :
“nella prospettiva di Friedmann, esse rappresentano la migliore espressione
dell’organizzazione sociale, perché in questo tipo di comunità il soggetto può
interiorizzare quei princìpi e quegli ideali che gli consentono di superare gli
interessi privati e di conseguire il bene generale”[32].
L’utopia, senza dimensione spaziale, della “buona
società” trova una sua specificazione nel cosiddetto “sviluppo
agropolitano”. Si tratta di una
strategia di sviluppo territoriale delle regioni periferiche basata
essenzialmente sul soddisfacimento dei “bisogni primari”. Richiama, chiaramente, la cultura
regionalista dei primi decenni del secolo; sono indicate alcune condizioni: la chiusura
territoriale selettiva, la socializzazione della ricchezza, l’eguale accesso
all’uso delle risorse. Il princìpio
dominante è quello dello sviluppo autosufficiente, in cui unità autogovernate
(distretti) promuovono le relazioni interpersonali e lo sviluppo
spontaneo. I “distretti” sono “ambiti
culturalmente e politicamente omogenei nei quali le funzioni di governo sono
esercitate dalla collettività”[33]. Lo Stato deve svolgere funzioni protettive
dei confini territoriali, facilitazione dello sviluppo coordinando qualche
politica e redistribuzione in favore delle “unità” meno forti.
In questo contesto che risente della fusione di motivi
anarchici[34]
la pianificazione diventa “pratica sociale”.
Successivamente il modello è trasposto anche alle aree
non periferiche, attraverso l’idea di un sistema come insieme di cellule
“despecializzate, centrate su se stesse e autonome”[35]. Si assume, inoltre, che un tale sistema,
oltre ad essere despecializzato, possa divenire anche “destrutturato”.
In questa fase Friedmann propone che le unità siano
organizzate secondo il modello “territoriale”, dove si hanno “strutture
integrate orizzontalmente, i cui elementi sono tra loro collegati da valori
condivisi, da relazioni cooperative, da solidarietà”[36],
mentre l’organizzazione funzionale alternativa vede “strutture integrate
verticalmente, gerarchizzate, i cui elementi sono legati da un rapporto di
dominanza, sottomissione e da relazioni fondate sull’interesse”[37]. Grazie a tale impostazione di sviluppo, che
richiama il primo regionalismo e l’insegnamento di Dewey, Veblen e Cooley, si
può sperare di “ritrovare un equilibrio organico, un ordine naturale”[38].
Anche guardando la cosa dal punto di vista
dell’epistemologia della pratica, Friedmann propone la prospettiva di
un’unificazione possibile delle diverse linee di pensiero e valoriali,
attraverso processi di apprendimento in “scenari sperimentali”. Ciò avviene grazie agli esperti (che sono
anche educatori), capaci di vedere le cose da punti di vista meno ristretti e
vincolanti di svelare la natura parziale delle immagini soggettive e condurre
verso la sintesi[39]. Un’idea che è già presente in Geddes che
“concepisce l’esperto come evocatore, come soggetto che è in grado di svelare
un ordine già insito nel processo, un ordine essenzialmente naturale e di
accedere alla verità riunificando diversi punti di vista, saperi parziali”[40].
Quindi la conoscenza trova la sua radice nella pratica
ed è sempre “vivente”, specifica, concreta e rivolta al piano.
4.0.2.2- Pianificazione
e Dominio Pubblico.
In Pianificazione
e Dominio Pubblico tutto questo complesso programma viene specificato e
dispiegato: obiettivo è il cambiamento della stessa vita quotidiana e delle
basi organizzative dell’esistenza, secondo gli scopi di fondo di rendere equo
l’accesso alle basi del potere; cioè, con le parole di Balducci, “affermare la
sovranità popolare a tutti i livelli territoriali subordinando lo stato e
l’economia alle esigenze della comunità politica”[41]. Quindi “disconnettersi dal sistema dominante
delle relazioni di mercato sostituendogli un ricco mix di obiettivi di
sviluppo” e farlo attraverso “azioni autoaffidanti entro ciascuna comunità
territoriale”.
Ciò è ricondotto alle “arene” della famiglia, della
comunità locale, della “periferia contadina” (il terzo mondo), della “comunità
globale” (internazionale in relazione a qualche isolato tema come
l’ambiente). Dove, però, nei paesi
occidentali il progetto di trasformazione si ferma al livello locale, salvo che
per qualche occasionale scelta che consenta di legare fra loro esperienze
separate di movimenti locali.
La
“comunità locale” è, dunque, l’ambito della Comunità Politica, essa, secondo la
diagnosi di Friedmann, è stata
frantumata dallo spazio economico (senza confini) e dall’articolazione
burocratica dello stato. Ciò porta alla
necessità di “domare” lo spazio economico e la mobilità del capitale,
riconducendoli sotto il controllo della Comunità Politica, e di mutare gli
orientamenti al consumo a livelli comunali verso l’autoproduzione della
vita. Occorre, quindi, estendere lo
“spazio politico” e contenere quello “economico”, riportandoli alla stessa
scala (metropolitana) indicata in una taglia dimensionale che trova i suoi
massimi tra le 100.000 e le 250.000 unità di popolazione.
Friedmann
si spinge in questa direzione fino a proporre tasse differenziate e vincoli
allo spostamento delle imprese.
4.0.2.3- La
“Comunità Politica”.
Guardando la cosa da più vicino, con l’ausilio di
questo sfondo, e focalizzando l’attenzione sul termine centrale di “Comunità
Politica”, si può fare un significativo passo avanti nella comprensione della
teoria di Friedmann. Esse, anche nella
sua opera più recente, hanno quattro caratteristiche essenziali: “il loro
potere si estende su una data base territoriale, godono di continuità storica,
si compongono di cittadini - membri, sono parte di un insieme di comunità tra
le quali si condivide una cittadinanza”[42]. Una “comunità politica” è in qualche modo una
sorta di “sistema di ordine politico” che implica “l’autoproduzione collettiva
della vita e la rivendicazione da parte dello stato di un terreno politico”[43]. Una simile comunità si definisce “genuina”.
In opposizione a una concezione “monadica”
dell’individuo, propria dei libertari e dell’antropologia del liberalismo
classico (è citato Hobbes), Friedmann afferma la dipendenza di ognuno
dall’aiuto degli altri, “siamo nati in famiglie, comunità, clan, tribù che
hanno una loro struttura preesistente, una loro coerenza normativa, una loro
storia”[44],
e da un lungo processo evolutivo che porta ad apprendere “le regole di una
condotta sociale condivisa” (Piaget). Le
fonti della socialità sono, quindi, la “manipolazione del mondo materiale”
(cioè il lavoro) e l’interazione simbolica mediata dal linguaggio, ma anche la
politica, che “viene definita dall’appartenenza ad una comunità politica”.
All’origine dell’idea di “Comunità Politica” viene
citato il modello della Repubblica di Platone “la prima comunità ideale [che]
fu una creazione della polis e costituì una scoperta notevole”[45]. Ciò conduce alla necessità di un “Dominio
Pubblico”, inteso come “una sfera di interessi e discorsi comuni” e, più oltre,
della “rinascita di un attivismo politico che rimuova l’iniziativa politica
dallo stato ricentrandola sulla società civile cui a pieno titolo appartiene.
Chiamo ciò ripresa della comunità politica”[46].
Viene comunque riconosciuto che il problema ha natura
politica e consiste nel “ricostruire la via di ogni giorno”. Riprendendo motivi anarchici Friedmann
afferma, in questo contesto, che “si tratta di spostare l’asse dell’accumulazione
di potere nella società dalla verticale, che riconnette allo stato il dominio
delle corporazioni economiche, all’orizzontale, che riporta la società civile
alla comunità politica. ... Al di sopra del livello della famiglia, la comunità
politica assume la forma specifica di libere associazioni politiche che, quando
si riuniscono in assemblea, possono affermare di esprimere la volontà sovrana
del popolo in materia di questioni comuni. Questo desiderio universale di
autonoma vita politica nasce dall’interno di un gruppo di persone che, abitando
lo stesso spazio fisico, si attribuiscono il potere di rappresentare l’unica
fonte legittima in quello spazio”[47]. Una frase di grande interesse e densità che
presenta, abbastanza chiaramente, un’idea della legittimazione democratica di
stampo assembleare e plebiscitario, consensualista e organica in senso
spaziale.
Un’idea che, secondo il modo di vedere di chi scrive,
appare troppo indifferenziata e “volontaristica” per poter costruire la base di
una credibile teoria dell’azione (urbanistica) capace di affrontare i nodi di
sapere e potere concretamente presenti davanti a noi.
I riferimenti espliciti di tale idea sono, comunque,
Hannah Arendt di La condizione umana
e Aristotele della Politica, ma anche
Rousseau in Il contratto sociale. In particolare da Rousseau si riprende solo
il suggerimento di “un sistema politico radicato nella capacità di riunire
tutta la popolazione a un qualche livello di governo, si tratti di vicinato,
villaggio, o cittadina” mentre si afferma che “forme rappresentative di governo
portano inevitabilmente a una tirannia delle minoranze”[48].
Da questa affermazione, passando per il riconoscimento
che alle scale più elevate permangono differenze di classe, sesso, etnia, ecc,
Friedmann arriva a criticare le “innaturali” divisioni della vita imposte dal
capitalismo e ad indicare nel Comune Urbano la “classica comunità
politica”. Ciò significa che “una data
comunità politica estenderà il suo dominio su uno spazio vitale che è, in ogni
caso, un’area fisicamente delimitata”[49].
Emerge, quindi, la già citata tesi della necessità di
una “separazione selettiva delle comunità territoriali dall’economia di
mercato”[50].
4.0.3-
Alcune linee di critica al comunitarismo in urbanistica.
Su tale programma si possono rilevare sia le critiche
di Mazza che quelle di Sernini. In
Terre sconfinate. Città limiti localismo, Sernini accusa gli elementi
volontaristici e utopistici, evidentemente presenti nella proposta di
Friedmann, di spingere il discorso fuori dei limiti di una teoria del piano
verso una “teoria generale dell’obbligazione politica e della società”. Il modello di Friedmann, con la sua enfasi
sulla piccola comunità territoriale autogestita, “è americano sia nell’antistatalismo
convinto e di princìpio, sia nell’insediamento territoriale di riferimento; la
proposta è di radicalesimo solidaristico comunitario e di self-help anzichè di
piano“[51]. Una proposta orfana delle Grandi Narrazioni
marxiste e che fa uso di “forzature improvvise, coltivazione esclusiva dei
localismi, riduzione della dimensione insediativa e totali cambiamenti
volontaristici del modo di vivere”[52].
Frettolosa, ma significativa di un ricorrente
fraintendimento, appare anche la voglia di Sernini (ma anche dello stesso
Friedmann) di arruolare Habermas come teorico del localismo o dello “sviluppo
locale autocentrato”. Non è difficile,
come abbiamo visto nel Terzo Percorso, citare frasi nelle quali il teorico
tedesco prende le distanze da un’idea così concretistica e indifferenziata di
sviluppo e di potere. In Fatti e Norme, ad esempio, e nel
contesto di una discussione proprio su Hannah Arendt, troviamo la seguente
affermazione: “la politica non può coincidere completamente con la prassi di
coloro che conversano tra loro per agire in maniera politicamente
autonoma. Esercitare l’autonomia
politica significa formare discorsivamente una volontà comune, non ancora dare
implementazione alle leggi che ne derivano.
E’ giusto che un concetto ampio di politica includa anche l’impiego del potere amministrativo dentro il sistema
politico nonché la competizione che è necessaria per entrare questo
sistema.
La costituzione di un codice potere implica che,
nell’emettere decisioni vincolanti per tutti, il sistema amministrativo sia
sempre controllato e diretto da autorizzazioni giuridiche. Propongo perciò di considerare il diritto
come il medium attraverso cui il potere comunicativo si converte in potere
amministrativo”[53].
E, poco più avanti, “l’idea dello stato di diritto
illumina semplicemente l’aspetto politico dell’equilibrio che deve instaurarsi
tra le tre forze principali integranti la società nel suo insieme: denaro,
potere amministrativo, solidarietà”[54]. Dove, come si può vedere, tutte e tre sono
qualificate come forze integranti e devono essere in equilibrio.
Lasciando per ora a questo punto insoddisfacente la
discussione su queste importanti questioni, rivolgiamoci ad approfondire la
comprensione del paradigma in oggetto osservandone qualche recezione italiana.
4.0.4- Recezioni italiane: il paradigma
“territorialista”
In una rilevante proposta
italiana che rilegge questo programma si annuncia la “ricerca di una nuova
patria”[55],
affermando la centralità del concetto di rinascita dei luoghi. Si legge, in quello che è sicuramente una
sorta di manifesto programmatico: “il concetto di abitare cattura le dimensioni
peculiari del locale: la concretezza, la disponibilità”[56],
e alcuni “primi elementi” come “l’attenzione per la specificità dei luoghi, la
rinnovata considerazione dell’equilibrio e della proporzione degli
insediamenti, il riconoscimento del nesso fra luogo e culture insediate, la
rivitalizzazione di ambiti sociali intermedi (fra la famiglia e la società) e
delle loro espressioni territoriali, e infine un atteggiamento di
collaborazione e non di dominio nei confronti della natura”[57].
In altre parole, il problema
sembra nascere dalla circostanza che nella teoria è presente una domanda non banale circa gli scopi
dell’azione comune sul territorio, che problematizza un livello dei beni
fondamentali, intorno ai quali costruire le politiche e le azioni progettuali,
ma anche la ricerca di una risposta
univoca a tale domanda. Se la prima cosa
è di fondamentale interesse, e rilevanza, la seconda passa il segno; o meglio
rappresenta il contributo specifico di un attore (l’urbanista) da porre ad un
diverso livello di “pretesa di verità”.
Occorre, infatti, che su tali cose l’accordo sia fondato su un consenso
veramente “generato pubblicamente ed
in comune”[58]. Esso non può essere anticipato nella teoria,
perlomeno non allo stesso livello.
Una parte del problema è,
dunque, l’idea di consenso e la sua mobilitazione nell’azione, intorno ad
un’ipotesi sostanziale già anticipata nella teoria. Il consenso degli abitanti è letto come
conferma della bontà dell’azione promossa e suo risultato, in qualche modo,
principale. Per certi aspetti
l’impostazione citata sembra ipnotizzata dalla ricerca del consenso, e dagli
effetti di sua costruzione, che si possono dare nell’azione urbanistica
stessa. Viceversa il consenso sembra, a
chi scrive, meglio descritto dalle parole di Crosta, ad esempio quando lo
definisce: “epifenomeno di un’attività diffusa che vede impegnati tutti gli
attori nella produzione di quadri di significato, entro cui - quando risultino
condivisi - sono continuamente negoziabili e rinegoziabili problemi e
soluzioni, obiettivi e mezzi”[59]. Ciò riporta al centro della scena i dubbi
sulla possibilità di guidare un
simile processo[60].
Pur se nel segno di
un’elevata indeterminazione sembra di vedere, cioè, in alcune accellerazioni
del paradigma in oggetto il rischio di una posizione “da maestro” che “apre gli
occhi” alla società intesa come un macrosoggetto[61].
Ciò riprodurrebbe la mossa
tradizionale di criticare la società reale alla luce di una «società ideale» di
cui si possiede la descrizione. Il
problema nasce, in altre parole, nel momento in cui si sviluppa l’idea metodica
della “ricostruzione” fino a “prefigurare la totalità di una forma di vita
riconciliata e [fino a] proiettarla nel futuro come un’utopia”[62].
Enfatizzare i rapporti,
anche negoziali, entro l’ ”attività diffusa” che (eventualmente) genera il
consenso porta, invece, lungo strade diverse che percorreremo. Prima di farlo, però, conviene sottolineare
come ciò non significhi che sempre il
più forte (come posizione nel mercato) vince.
Talvolta esso viene imbrigliato dall’azione congiunta di attese
generalizzate di comportamento e di attiva mobilitazione dei più deboli. Detto con le parole di Crosta: “nel negoziato
non si traducono meccanicamente i rapporti di potere (essi tra l’altro si
trasformano)”[63]. Come ciò avvenga è quanto cercheremo di
mostrare, sia pure in parte. A questo
scopo interpreteremo il sistema d’interazione, che stiamo cercando di
concettualizzare, come sistema di interdipendenza[64]
multipla e senza soggetto centrale.
Aspetto cruciale, in questa
direzione, non è più il consenso (senza il quale non si darebbe azione
legittima) ma l’insorgenza dell’azione stessa, per una varietà di meccanismi di
volta in volta da valutare. Il consenso
è un’eventualità (quasi sempre desiderabile) che può darsi in modo frammentato
e fluido, strettamente intrecciato a modalità di regolazione dell’interazione
meno nobili ma non meno efficaci.
La qualità dell’azione (e la
sua legittimità) è allora da ricercare nelle caratteristiche dell’intreccio,
più che nella sola ampiezza dell’area di consenso.
4.0.4.1- “Socializzazione” e
“individualizzazione”
Più approfonditamente mi sembra che alcune instabilità
del paradigma nascano da come il termine “socialità” è pensato ed
esplicitato. La socializzazione è un
processo originario irriducibile e che non si può non dare; per cui si intende,
in modo abbreviato, discutere la qualità
di profili di individualizzazione e socializzazione a rete troppo limitata (in
termini affettivi, di assunzione di responsabilità, reti di solidarietà,
percezione del sé, etc...) o non sufficientemente ancorati al “centro” della
personalità. Si tratta di
un’impostazione sicuramente importante, sia pure nell’elevata complessità e
frequente ambiguità che la contraddistingue.
Però un’ambiguità di fondo lascia, mi sembra, il suo
segno in questo modo di porre la questione.
Il “luogo”, inteso come totalità socioculturale nella quale si potrebbe
dire “si sta”, rischia sempre qui di essere inteso nel senso della
premodernità. Non è il caso di
tratteggiare tale senso in modo compiuto, ma si può dire che si tratta
dell’essere, sin dall’inizio ed in modo non evadibile, preso in una rete di
consuetudini aventi forza normativa, vincolante ma irriflessa.
In un certo senso questo atteggiamento verso il mondo
“tradizionale” manca proprio di
identità (almeno nel senso dell’identità personale) in quanto l’individuo non è
sufficientemente distinto dal suo ambiente.
Persino Tönnies aveva presente il punto quando definiva scarsamente
individualizzato il soggetto nella “comunità”.
Già Durkheim, inoltre, ha messo in evidenza come intercorra una
relazione tra differenziazione sociale (divisione del lavoro) e individualizzazione
del singolo. La mancata procedura di
sospensione dei ruoli, e delle attese di comportamento degli altri nei nostri
confronti, infatti, impedisce il
processo di individualizzazione modernamente inteso (Mead). Ora, tale possibilità (di sospendere le
aspettative e criticarle) si può determinare proprio quando sorgono aspettative confliggenti. Cioè quando si attraversano territori diversi
e si incontra l’altro da sè. Tale
possibilità è propria della modernità.
In termini generali, è sicuramente vero che tale
possibilità si dà solo nella relazione, in una relazione linguisticamente
mediata con l’altro, ma in una relazione che passa per la comunicazione in reti
di significati e ruoli condivisi dai quali progressivamente affrancarsi.
Del resto nessuno può, pur liberandosi da particolari
contesti di vita, uscire dalla società in generale e insediarsi in uno spazio
di assoluta libertà (nel senso di solitudine).
Occorre sempre sia sostenuto da qualche riferimento ad un mondo di
significati ed attese di comportamento, per quanto astratto ed ampio. Grazie a tale considerazione non si tratta,
quindi, neppure di considerare possibile l’idea dell’uomo “atomistico” del
liberalismo classico, contro il quale giustamente si esprime Friedmann.
Il dilemma si potrebbe porre in questi termini: se
anche il radicamento organico è segno di eterotomia e non è desiderabile, non è
possibile che lungo la strada della creazione di una personalità
post-convenzionale si possa incontrare (per eccesso di ampiezza e molteplicità)
l’anonimia e l’indifferenziazione?
Questa sembra la tesi (peraltro molto tradizionale) contenuta in
attributi della “surmodernità” come “eccesso di tempo, di spazio, e di
individualità” (Augé).
Anche se ciò è sicuramente possibile, il desiderio di
essere “qualcosa di più di una serie di bisogni e di ruoli che esprimo al
supermercato o mentre guardo la televisione, mentre decido se comprare una
merce o cambiare un programma” (Touraine), ha veramente a che vedere con
l’essere radicato in un luogo? Se luogo significa “comunità” e “terra”, legame
biunivoco tra un popolo e un territorio si potrebbe dire che il rischio della
surmodernità si supera attraverso un ritorno alla modernità e non alla
premodernità. Voglio dire: nel legame
organico con un luogo ed una comunità io sono
una serie di bisogni e ruoli; si inceppa il processo di individualizzazione che
prima di ogni altra cosa è autonomia.
La cosa si può dire con le parole di Habermas: “le
prestazioni proprie addossate ai soggetti consistono qui in qualcosa di diverso
dalla scelta razionale regolata dalle proprie preferenze; ciò che essi devono
compiere è un tipo di autoriflessione morale ed esistentiva che non è
possibile, senza che uno assuma le prospettive dell’altro. Solo così si può stabilire un nuovo tipo di
congiungimento sociale fra i singoli individualizzati. Gli interessati devono produrre le proprie
forme di vita socialmente integrate, nell’atto di riconoscersi reciprocamente come soggetti capaci di agire
autonomamente e inoltre come soggetti che si fanno garanti della continuità
della propria biografia assunta responsabilmente”[65].
Anche se tale processo è rischioso, l’alternativa è il
ricadere in forme di identità convenzionale che avrebbero il sapore della
struttura di ruoli eterodiretta propria della premodernità.
4.0.4.2- Identità e “abitare”
L’identità nasce, in altre parole, dal rapporto con i
simili (cui diventare tali) e con i diversi, cioè nasce quando io posso scegliere, e debbo farlo, tra
alternative confliggenti. In questo
senso l’idea che l’identità è relazionale, nel senso che nasce nel proprio
vissuto dal rapporto che il singolo costruisce con i siti e con gli altri
soggetti che li vivono, è troppo rischiosa e indifferenziata. Richiama, effettivamente, ma in modo troppo abbreviato,
i toni dell’alta riflessione heideggeriana sul concetto di “abitare” (che non
ha a che fare con il territorio). Per il
filosofo tedesco, come è noto, “abitare essere posti nella pace vuol dire:
rimanere nella protezione entro ciò che ci è parente e che ha cura di ogni cosa
nella sua essenza”[66]. Ciò viene, in ultima analisi, ricondotto alla
sradicatezza degli uomini che non saprebbero più abitare.
Questa riflessione sull’abitare (e quella connessa sul
“luogo” che limiterebbe lo “spazio”) va collegata, mi sembra, alla tesi
sull’impossibilità di uscire dalla precomprensione che costituisce la nostra
stessa possibilità di incontrare il mondo (“circolo ermeneutico”). Detto in modo sintetico l’uomo, in quanto
esser-ci, è sempre gettato nel mondo e vi accede non solo grazie ad una facoltà
della ragione (kantianamente) ma attraverso “comprensione”, “interpretazione”,
“discorso (e linguaggio)”, “situazione affettiva”. Cioè in un progetto sempre “qualificato”,
“tendenzioso”.
L’«abitare» è una descrizione di questa condizione
dell’uomo, preso in un “rimanere nella protezione di ciò che ci è parente”, e
nella tensione al “costruire”, al “progettare”.
Detto con la necessaria sintesi, il punto è che se si
lascia cadere la seconda parte, il “pensare” ed il “costruire” il progetto
ermeneutico di Heidegger viene ridotto a solo tradizionalismo (pure presente).
In
definitiva, la ricerca di un modello insediativo di tipo non gerarchico,
policentrico, le cui unità sociali sono le cosiddette «comunità intenzionali» o
«comunità di abitanti» mi sembra confermi tale interpretazione. La ricerca vira subito, con una
caratteristica riduzione disciplinare le cui radici sono illustrate nelle
pagine precedenti, verso la “terra”.
La produzione di senso
comune, l’apprendimento collettivo dei bisogni è ricondotto ad un rapporto più
organico con le radici di senso, in grado di opporsi alle tendenze
valorizzanti, in senso economico, dell’attuale modalità di sviluppo. Il processo di interazione sociale ha un
centro sostantivo, una Verità da scoprire (siamo esseri “insediati”).
4.0.4.3- Excursus:
“Liberali” e “comunitari”
In definitiva si può
certamente dire che l’intreccio di tradizioni e motivazioni dell’interessante
paradigma in discussione è molto ampio.
Tra le più affascinanti quelle che potrebbero condurlo ad un confronto
con l’ampio dibattito tra “liberali” e “comunitari” che ha interessato
soprattutto l’ambiente americano[67].
Si tratta di una grande
varietà di posizioni che si sono opposte alla proposta di John Rawls di
costruire una Teoria della Giustizia sulla base di una ripresa del programma
contrattualista e di un’antropologia liberale.
Vengono criticati in particolare l’inadeguatezza della concezione del sé
liberale, l’insostenibilità della pretesa “neutralità” della Giustizia rispetto
ai divergenti piani di vita degli individui, l’imputazione di “diritti” agli
individui e la costruzione, su questa base, di una filosofia politica giudicata
inadeguata. Si afferma che ciò su cui
bisogna costruire la società non è un’astratta concezione del Giusto, ma la
virtù di derivazione aristotelica dell’amicizia. Quindi, “una società buona è quella in cui
ciascuno si riconosce con ciascun altro nella condivisione di una comune
appartenenza a una forma di vita, a una tradizione, a una concezione del bene”[68].
Per poter comprendere questa
posizione è, quindi, indispensabile fare qualche cenno alla proposta di Rawls;
egli costruisce una teoria piuttosto complessa sulla base della prevalenza del
concetto di Giustizia, facendo leva sul quale sottrarre alle negoziazioni ed
alle procedure di aggregazione degli interessi e delle volontà un insieme di
diritti fondamentali delle persone. Si
tratta di una sorta di mossa “costituzionale” che individua una piccola serie
(due) di Princìpi, ordinati per importanza, e propone di identificare una lista
di «Beni Principali», in grado di implicare una certa distribuzione di costi e
benefici, oneri e onori, risorse, diritti ed opportunità. Grazie all’applicazione dei Princìpi di
Giustizia alla Struttura Fondamentale della Società, si argomenta, si potrà
generare una stabile ed equa cooperazione sociale (cioè una “Società Bene
Ordinata”).
I Princìpi di Giustizia da
selezionare sono quelli che sarebbero scelti unanimemente in un’opportuna
situazione di scelta che Rawls descrive come “Posizione Originaria” sotto “velo
di ignoranza”. Cioè, nella scelta che
un’assemblea di individui, razionali ed egoistici, farebbe, senza conoscere il
proprio specifico ruolo e posizione, ma dovendo organizzare i princìpi
fondamentali sulla base dei quali costruire una società nella quale avranno
parte.
Senza entrare nei
particolari della concezione presentata nel 1971 da Rawls[69],
i punti di attacco che saranno proposti da diverse parti[70]
si concentreranno sulla priorità del “Giusto” sul “buono”, sottolineando
l’importanza di uno spazio relazionale costitutivo che la teoria liberale
rimuoverebbe. Nella “Società Giusta”, si
argomenta, si vivono vite separate e reciprocamente indifferenti, nella
“Comunità” non ci si può separare dai coinvolgimenti contestuali nei quali si è
collocati; non vale la distanza (della Ragione) ma la vicinanza tra persone
concrete, non si incontrano estranei ma affini, gli impegni con gli altri non
sono valutati e scelti (eventualmente) ma semplicemente riconosciuti.
La comunità è uno spazio
costitutivo, nel senso che è uno spazio di orientamenti morali (o, per meglio
dire, etici) ineludibili, ma anche di pratiche concrete dalla cui “densità” è
impossibile e indesiderabile districarsi.
Il punto non è garantire indipendenza alle persone ed imputargli diritti
inalienabili (Rawls e Nozick) ma “avvolgerle in una rete di impegni e contesti
che rendano inservibile la nozione stessa di persona indipendente, e non solo
nel senso in cui l’indipendenza riguardi l’esistenza separata di ciascuno rispetto
ad altri, ma anche per quel che riguarda l’indipendenza di ognuno rispetto a
parti di sé, a interessi, ideali, tratti caratteriali e biografici, lealtà e
orientamenti contestualmente determinati”[71]. Rovesciando la prospettiva di Rawls (e di
Habermas) Sandel, ad esempio, dice che una persona libera da vincoli che non
siano stati da lei scelti, perchè definita prima di ciascun vicolo, non è
credibile, è «unencumbered» cioè “disincarnata e volatile”.
La
risposta di Rawls a questa importante obiezione è che quella della sua teoria
non è la persona completa e reale ma un profilo della sua parte pubblica,
ovvero l’insieme degli impegni che assume un proprio “profilo pubblico” (con
doveri e privilegi) senza fare riferimento alle specificità che ne fanno un essere
individuale ed irripetibile (o contestuale e immerso in una rete di solidarietà
concrete).
Il comunitarismo nega che
ciò sia possibile e desiderabile. Essere qualcuno significa essere immersi in
un contesto che implica valutazioni e attitudini ineludibili, del quale bisogna
solo divenire consapevoli. Sottoporlo a
critica (come vorrebbe anche Habermas) significa cambiare chi si è.
In
questa direzione un secondo tema, ma strettamente connesso al primo, e
necessario per qualificare la proposta, è quello di ciò che Charles Taylor chiama l’«io posizionale» e che descrive in
questo modo: stabilito che fare a meno dei quadri di riferimento è impossibile,
la risposta alla domanda «chi sono io?» prende una forma caratteristica:
bisogna riconoscere che “sapere chi sono vuol dire in un certo senso capire
dove sono. La mia identità è definita
dagli impegni e dalle identificazioni che costituiscono il quadro o l’orizzonte
entro il quale posso cercare di stabilire, caso per caso, che cosa è buono o
apprezzabile, che cosa devo fare, che cosa devo avversare o sottoscrivere. In altre parole, è l’orizzonte entro il quale
mi è possibile assumere una posizione”[72]. Cioè, puoi dire chi sei solo se sai
orientarti nello “spazio all’interno del quale nasce il problema di stabilire
che cosa sia bene e che cosa male, che cosa meriti di venir fatto e cosa no,
che cosa abbia significato e importanza e che cosa sia, invece, insignificante
e futile”[73].
Il
punto è che tale decisione non è, però, qualcosa che un altro possa fare in vece mia; non è qualcosa per fare la quale
basti “vedere bene” o “ben calcolare” anche in base a “Giustizia”. Da ciò deriva l’impossibilità stessa di
chiedersi che cosa sia una persona facendo astrazione dalle sue concrete
autointerpretazioni; porre la stessa domanda in questi termini è, secondo
Taylor, fuorviante perché esclude in partenza il punto di vista dal quale,
solo, si può trovare la risposta (ma anche la stessa domanda). Ovviamente farlo è effetto di un pregiudizio
scientista (o, come dice Taylor, “naturalista”). Tale pregiudizio afferma almeno quattro tesi
la cui rilevanza è considerata, in modo implausibile[74],
assolutamente generale:
“1.
L’oggetto di studio va preso in un senso ‘assoluto’, cioè così com’è in se
stesso, facendo astrazione dal significato che ha per noi e per qualsiasi altro
soggetto (va, cioè, considerato ‘oggettivamente’).
2.
L’oggetto è ciò che è indipendentemente da tutte le descrizioni e le
interpretazioni che ne danno i soggetti.
3.
In via di princìpio, l’oggetto può essere racchiuso in una descrizione
esplicita.
4.
In via di princìpio, l’oggetto può essere descritto senza fare riferimento a
ciò che lo circonda”[75].
Ma,
se ciò si potrebbe, in modo eccessivamente idealizzato, applicare allo studio
degli oggetti inanimati, per scopi strumentali di controllo sugli stessi, non
appare un modello sensato nel caso di ciò che inanimato non è. Di ciò che reagisce alle nostre azioni, ha
innumerevoli tendenze e direzioni di sviluppo evolutivo proprie, vuole
controllare da sé il proprio destino.
Tenere
ben presente la necessità di rendere percepibile tale orizzonte di senso, e
tale senso della posizione, letta dal punto di vista interno, indebolisce il
rischio di rimuovere quelle che si potrebbero chiamare le “capacità
antropologicamente più sottili e delicate del vivere nell’ambiente” in seguito,
ad esempio, ad una riduzione classificante dall’alto. Non è altrettanto efficace, però, nei
confronti del rischio dell’estetismo e/o dello storicismo che, sia pure in modo
illegittimo, potrebbe forse essere ritradotto in questo vocabolario.
A
rendere più difficile il cadere in questa riduzione arriva un altro punto
qualificante la proposta teorica che qui si riporta: l’”essere in movimento”
dell’identità e della narrazione di questa che, a tale punto, si rende
necessaria. La parte più interessante
della proposta di Taylor (e che rappresenta anche una risposta a molte delle
perplessità che questo testo avanza nei confronti dell’impostazione
“comunitaria”) è che il rapporto con i luoghi e con le culture, cioè con le
“comunità”, non può essere più interpretato in base a caratteristiche
universali primomoderne[76],
nè in riferimento alla loro «physis» e «kratos», metafisicamente intese,
secondo l’impostazione pre-moderna, resta l’interessante direzione aperta dalla
«chinesis» e dalla «relazione» nel suo duplice significato di “relatio”
(riferire, esporre, essere in rapporto) e di “ratio” (nesso).
Grazie
a simili accentuazioni Taylor si colloca, per così dire, a mezza strada tra
Comunitari e Liberali; cioè nel terreno più interessante e fecondo nel quale
troviamo anche Habermas.
Questo
mi sembra, infatti, il problema focale: se si decide di svolgere la riflessione
nella direzione di quell’unità del “carattere” (o dei singoli “caratteri”) che
possano orientare altrettanti modelli di sviluppo ed equilibrio, e quindi sotto
il segno dell’autenticità (dell’identità), allora il problema è definire la
direzione nella quale va la nostra motivazione più profonda, cioè “il nostro
impegno di lealtà dominante o i limiti esterni alle nostre possibilità e quindi
la direzione in cui si muove, o può muoversi, la nostra esistenza”[77]. Taylor usa qui la parola “muoversi”, in
quanto il problema non è mai che cosa siamo ma sempre del divenire nel quale
siamo: “il problema per noi è non solo quello di dire dove siamo, ma anche
quello di dove andiamo”[78]. E ciò è questione di direzione; ma verso le
direzioni si va o non si va, alle mete ci si allontana o ci si avvicina, non si
è; in tale senso entra in gioco la questione, cruciale, di dare un’interpretazione narrativa
all’identità.
In
base a tale impostazione si può dire “che noi progettiamo il nostro futuro a
partire dalla percezione di quello che siamo diventati, scegliendo all’interno
della gamma delle nostre possibilità attuali”[79]. O, in altre parole, “l’immagine che ho di me
stesso è quella di un essere che si muove e diviene, fenomeno che, per sua
natura, non può essere istantaneo”[80].
In
questo senso, e come abbiamo già anticipato, la soluzione migliore che si può
ricavare dalla lettura di questa importante letteratura, mi sembra quella che
riconosce come obiettivo la valorizzazione, nel modo più completo possibile,
della coerenza e dell’equilibrio di un’identità, letta secondo i propri
specifici canoni, ma contemporaneamente quella che agisce in modo tale che la
proprietà specifica mostrata dalla soluzione stessa “proietti” una sorta di
cogenza esemplare, anche al di là dei limiti contestuali cui, in prima istanza,
si riferisce[81].
Cioè
che possa essere considerata effettivamente pertinente anche per attori che
operano in altri contesti (sia per essi comprensibile e, mutando ciò che c’è da
mutare, accettabile). Questa
impostazione permette di orientare la “pretesa di validità” della propria
azione e descrizione non solo alle ovvietà condivise di una data cultura ma a
ciò che può consentire di unire le culture (“comunità”) in unità di senso di
ordine superiore. Però garantendo questo
effetto non dall’alto di categorie e criteri universali (tali cioè da essere,
sin dall’inizio, comuni a tutti per la presunta compresenza di qualche livello
o carattere “strutturale” al quale le differenze scompaiono, di qualche
carattere “invariante”) ma per una dinamica, o un processo, di comprensione
reciproca sempre più allargata. Una
comprensione che si appoggia al linguaggio naturale.
Ciò
non esprime una forma di relativismo perché si ricerca un metro di giudizio,
capace di mettere in scala ordinale descrizioni e scelte. Tale metro, però, è rappresentato solo “dai
termini che, sottoposti al vaglio della riflessione critica e depurati dagli
errori, si rivelano capaci di dare il senso più compiuto alla nostra esistenza”[82]. Cioè che sono capaci di “offrire
l’orientamento migliore e più realistico in rapporto al bene, ma anche
consentire di comprendere meglio le azioni ed i sentimenti morali, nostri ed
altrui, e dar loro senso”[83]. Ciò si può ottenere legando strettamente il
“linguaggio della deliberazione a quello della valutazione di azioni,
sentimenti ed orientamenti al valore”[84]. “Comprendere meglio” e “dare un senso” alle
azioni, ai sentimenti ed agli orientamenti di valore, qui significa
semplicemente, ma non banalmente, che grazie ai “termini” ricercati possiamo
produrre l’enunciazione più chiara e significativa dei problemi che abbiamo
davanti.
Termini
come «dignità», «coraggio» o «brutalità», per restare agli esempi di Taylor ,
sono il linguaggio in cui di fatto viviamola nostra vita. Di essi non possiamo sbarazzarci solo perché
“la loro logica non quadra con un certo modello di ‘scienza’ che noi sappiamo a
priori costituire il quadro entro il quale gli esseri umani devono trovare
spiegazioni”[85].
Tale
modo di proporre un uso con minori steccati del linguaggio rappresenta un
contributo altamente chiarificatorio del quale faremo tesoro nelle Conclusioni
e, soprattutto, nell’Appendice.
Per
ora, prima di concludere questa riflessione, descrivendo la proposta più
recente ed interessante di riconoscere l’esistenza di una forma argomentativa
di tipo narrativo che faccia leva sul metro dell’identità nel senso qui difeso,
vale forse la pena cercare di precisare il secondo dei termini richiamati in
precedenza quando si è affermata la necessità di un “metro di giudizio”. La ricerca di un “metro”, capace di legare strettamente
“deliberazione” e “valutazione” di “azioni, sentimenti ed orientamenti al
valore”, come voleva anche Forester, si collega, chiaramente, ad una centralità
del “giudizio pratico”, nella sua forma “riflettente”[86];
un giudizio che, come abbiamo visto nel Terzo Percorso, rimanda all’esercizio
contestuale di “immaginazione” e “riflessione”[87]
esercitate in un’ambito di “comunicabilità” o “pubblicità”. In tale senso il segreto è riuscire ad
esaminare il dilemma, per il quale mancano criteri orientativi sufficienti,
anche dal punto di vista dell’«altro concreto» e di coglierne la logica
interna. Ciò è quanto si può
considerare, secondo la massima di Kant, un “riflettere in vista di un concetto
reso in tal modo possibile”[88]. In tal senso è fondamentalmente in migliore
posizione “chi ha più familiarità con più aspetti del contesto”[89]. Una posizione simile rimanda, come abbiamo
visto, all’illustre teorizzazione della “saggezza” o “phronesis” aristotelica.
In
base all’uso di questo strumento intellettuale (di cui abbiamo già parlato nel
Terzo Percorso) anche quando princìpi condivisi e descrizioni della situazione
sono disponibili si tratta sempre, ormai, di princìpi in contesti. Ciò che bisogna fare, per “giudicare” in base
ad essi è esprimere una descrizione della situazione prospetticamente orientata
e chiedere su tale azione il consenso.
In tale senso va interpretato anche il princìpio di selezione
dell’identità (o “autenticità”) individuato dai teorici di cui stiamo parlando.
Richiamando
la proposta di Taylor, secondo cui occorre riferirsi ai “termini che,
sottoposti al vaglio della riflessione critica e depurati dagli errori, si
rivelano capaci di dare il senso più compiuto alla nostra esistenza”[90],
resta da chiarire che significhi, in questo contesto, “depurare dall’errore”:
in base a quanto detto è semplicemente calarsi in un processo di esplorazione
reciproca, volto a rendere possibile l’enunciazione più chiara e significativa
del problema da parte dei parlanti e tale da eliminare confusioni,
contraddizioni; da consentire un “franco riconoscimento di ciò che influisce su
di noi”[91].
Ciò
mi sembra, se capisco bene, un’interessante e condivisibile descrizione di
quell’orientamento al “bene comune” che, per molte linee di tendenza
contemporanee[92],
è parte di ogni ideale di “vita buona” attualmente credibile e sostenibile.
Per
concludere, si può affermare, spero con qualche plausibilità, che proporre
questa linea di riflessione significa favorire il rafforzamento della “sfera
pubblica” e delle associazioni volontarie capaci di stimolare un orientamento
verso il “bene comune”, nel quadro di forme di “comunità volute” (e non
ascrittive come quelle prefigurate da molti urbanisti) che condividono una
certa disponibilità a superarsi, ad incontrare l’altro. La difficoltà a definire questo “bene
comune”, che genera la stessa “comunità”, in senso non ascrittivo (per nascita)
o metafisico (per adesione alla Verità) è ciò che, nelle parti più sensibili
della prospettiva che sto mostrando, muove il tentativo di fare leva sull’ideale dell’autenticità. Detto con le parole, che citeremo più volte,
di Ferrara: “quando il vivere una buona
vita non può più essere concepito come l’approssimarsi, all’interno della
propria esistenza, ad un modello canonico della ‘migliore vita per un essere
umano’, il solo modo che rimane per pensare questa nozione è concepire la buona
vita come la vita in cui ciò che è tipico della mia personalità è espresso in
una forma esemplare che diventa pertinente ed illuminante anche per altri”[93].
In
questo senso mi sembra chiaro che la cosa determinate, che andrebbe messa in
evidenza, è l’inutilizzabilità dei punti di vista archimedei esterni (cioè di
quei punti di vista che funzionano neutralizzando il singolo soggetto con i
suoi valori, il suo telos e tutto quanto detto fino ad ora) propri, tra
l’altro, delle impostazioni scientiste classiche; quel che bisogna fare è, al
contrario, mettersi nelle condizioni di avere[94]
familiarità con più elementi possibili del contesto e cercare di comprendere un
fenomeno proprio nella sua singolarità.
Tale
posizione comporta, detto in un altro linguaggio, la necessità di mirare ad una
“’cultura’ della tradizione, nel senso letterale della parola, a uno sviluppo e
a una continuazione di ciò che noi riconosciamo come il legame concreto fra noi
tutti”[95].
In
un certo senso, ciò potrebbe essere visto come il compito cui si appresta uno
scrittore che fosse venuto in possesso di un romanzo incompiuto, e al quale
venisse chiesto un Percorso aggiuntivo.
Egli, per poter tracciare una credibile continuazione, dovrebbe naturalmente
cercare di immergersi nella trama per comprenderne il “tessuto interno” nel
senso di tutte le distinzioni cruciali, dei valori di fondo e delle opposizioni
ai disvalori, riconosciuti come tali dall’opera; solo dopo aver fatto ciò
progettare un Percorso che la rispetti meglio nei suoi propri termini[96].
Si
genera, in altre parole, grazie a tale delicata mossa interpretativa la
possibilità di confrontare tra di loro due “continuazioni” non sulla base di
qualche punto di riferimento esterno, cioè di un criterio metafisicamente
inteso, ma in funzione della normatività interna espressa proprio dalla
direzione nella quale “scorre meglio” il racconto.
Nell’approccio
comunitario, soprattutto nelle più recenti varianti “repubblicane”, c’è,
dunque, molto di interessante. Esso
rappresenta la messa in evidenza di dimensioni dimenticate che non possono
restare tali.
Tuttavia ad una lettura
frettolosa, o troppo di parte, si presentano anche dei rischi. Come abbiamo già detto è evidente quello di
interpretare metafisicamente la comunità stessa o di ricadere nel
tradizionalismo, interpretandola normativamente.
4.0.4.4- Un esempio: la
posizione di Giusti
In senso proprio, quindi,
l’identificazione con un approccio “comunitario” nel senso stretto del
dibattito filosofico, non può essere espressa se non con grande prudenza. Infatti non mi sembra di aver mai rilevato
citazioni dirette a qualche autore chiaramente comunitario.
Il “manifesto” italiano
dell’approccio “territorialista” va in stampa nel 1990, in quella data le
principali opere “comunitarie” sono già pubblicate in inglese[97]
ma arrivano tardi le traduzioni italiane[98]
e la famosa raccolta di Alessandro Ferrara è del 1992. Infatti, nel testo di Magnaghi “Per una nuova
carta urbanistica” sono citati : Cacciari, Lovelock, Krier L., Emanuel,
Ruffolo, Virilio, Bateson, Meadows, O’Connor, Hirsh, Habermas, Sachs, Offe,
Dodge, Berg, Cunha, Altieri, Vernetti, Irigary, Bassanini, Heidegger, La Cecla,
Borachia, Tosi, Paolillo, Moretti, Damiani, Brown, Lovins, Sini, Raffestin,
Kropotkin, Friedmann, Ratto, Bocchi, Ceruti, Morin. I filosofi non sono dunque molti, e tra
questi nessuno che si occupi principalmente di etica (salvo Offe e l’Habermas
“pre-etico” della “Crisi di razionalità nel capitalismo maturo”). L’orizzonte sembra per lo più indirizzato a
questioni epistemologiche ed ecologiche.
I riferimenti del solo
Giusti, invece, (nel suo interessante “Locale, territorio, comunità, appunti
per un glossario”) sono: Ardigò, Atlan, Bagnasco, Baldeschi, Busino, Butera,
Catelli, Guidicini, Conti, Crosta, Cusmano, Dematteis, Duput, Durand,
Eisenstadt, Elia, Martinelli, Farinelli, Formenti, Galtung, Garofoli, Geroldi,
Gasparini, Fatti, Habermas (Teoria dell’agire comunicativo), Hartshone, Hirsh,
Husserl, Illich, Inglehart, Isnard, Jammer, Jantsch, Lacoste, Lanternari,
Magnaghi, Maturana, Varela, Mela, Momigliano, Morin, Norberg-Schulz, Offe,
Parson, Pieretti, Polany, Pollini, Raffestin, Roncayolo, Ruffolo, Sachs I.,
Sachs W., Scivoletto, Sernini, Strassoldo, Tonnies. Dove i più citati sono: Bagnasco (4), Sachs
(3), Polany (3), Dematteis (2), Illich (2), Offe (2), Ruffolo (2). Pertinente allo sfondo in oggetto sembra solo
la citazione di Habermas, anche se ai tempi della “Teoria...” (1981 in tedesco)
il dibattito “comunitario” non era ancora sorto, che si trova nel contesto di
una distinzione tra “comunità” e “società”.
Giusti definisce “comunità”
come l’effetto della “maturazione da parte del gruppo di una specifica
identità, l’acquisizione di un elevato senso di appartenenza, la formazione di
rapporti di solidarietà”[99]
e “società”, “il gruppo sociale che si riconosce ed interagisce secondo logiche
economiche (in senso lato), strutturate intorno ad un contratto sociale
(Tönnies, 1963)”[100]
e richiama subito dopo Habermas nel seguente modo : “se la modernizzazione
sociale è caratterizzata da modalità di integrazione sistemica tali da
configurarsi come colonizzazione dei mondi vitali da parte dei sottosistemi
funzionali (Habermas, 1986), la condizione - in senso lato - postmoderna (o, se
questo termine disturba, «altermoderna»; insomma l’ambito del gruppo sociale
riferito al mondo - della - vita, che resiste alla modernizzazione e persegue
logiche di sviluppo eterodosse) è caratterizzata dalla rivalutazione
dell’ambito comunitario, e contemporaneamente dalla sua ridefinizione”[101].
Si presenta, in tale modo,
un lettura ridotta di Habermas sulla quale ritornerò, ma vediamo prima come
Giusti continua: riconosce subito che la centralità della comunità
«postmoderna» è un’opzione politica, ideologica, e la descrive come la
valorizzazione della dimensione della “configurazione organica, informale,
personale anzichè funzionale dei rapporti”, un “luogo” dove si possono
esprimere meglio la “valorizzazione delle differenze, diffusione delle opportunità
politiche, apertura comunicativa, reversibilità del potere, ...” cose che, a
parere dell’autore, “definiscono un concetto diverso da quello tradizionale di
comunità, intesa come gruppo sociale che paga la sua forte identità e il suo
estremo equilibrio sociale e biologico con una struttura politica oggi
evidentemente inaccettabile”[102]. Si ricercano, quindi, strutture di “identità
collettiva, nella società ‘postmoderna’, che facciano riferimento alla
concretezza, alla materialità e alla quotidianità di piccoli ambiti di
riferimento, luoghi sociali regolati da valori primari e non informati
dall’indifferenziazione metropolitana del villaggio globale.” Questo mi sembra un punto rilevante: si fa
riferimento, come anche in Friedmann, alla “materialità e quotidianità di
piccoli ambiti”.
Nel seguito il
“riconoscimento di interessi comuni”, da parte della comunità, è ricondotto
alla “relativa omogeneità caratteristica della cultura locale, [che] consente
di perseguire questi interessi attraverso il ricorso a risorse locali”[103]. La “comunità locale” è, infatti, definita
come “l’ambito del mondo vitale, il gruppo sociale in cui l’omogeneità
culturale, e d’altra parte l’essere campo delle operazioni ‘precategoriali’ dei
soggetti concreti (Husserl, 1961), permettono l’adozione di una progettualità
immanente: spontanea, implicita, recursiva e non esplicitamente (o
costitutivamente) fondata, e pressoché esclusivamente autoriferita” la “società
locale“ è, al contrario, interpretata come “la somma delle comunità fra loro
cooperanti”[104]. In questo contesto di confronto emergono
ulteriori specificazioni: la comunità è letta come “l’ambito in cui è
automatica l’espressione dei valori conviviali” mentre la “società locale è
semmai il luogo della sperimentazione dell’iniezione di valori solidaristici
nella logica economica, anche attraverso il tentativo di individuare
esplicitamente un interesse generale comune che tendenzialmente regoli e
componga l’insieme dei percorsi progettuali specifici delle comunità”[105]. Viene anche citato esplicitamente il
riferimento alla dimensione territoriale “intesa come strutturazione attiva
... del luogo concreto che rappresenta
la geografia di vita del soggetto, che solo così nella società tardo moderna ritrova
‘una propria identità, riscoprendo le sue radici e la sua territorialità’
(Mela, 1983)”[106].
Venendo agli elementi di
critica che possono essere rilevati nella posizione di Giusti, e nel suo uso
delle fonti, leggendola sullo sfondo del dibattito tra comunitari e liberali,
si può sottolineare come l’insieme oscilli tra una posizione politica e
costruttiva (antimetafisica) ed una essenzialistica (rivolta, cioè, a rilevare
una “presenza” vera ad un livello “più fondamentale”) di taglio
fenomenologico. Effettivamente mi sembra
di vedere all’opera alcuni degli sfondi culturali sui quali si è sviluppato il
dibattito in oggetto; ma non c’è traccia delle sue distinzioni caratteristiche
cui abbiamo fatto cenno e, in primo luogo, della descrizione della posizione
liberale (Rawls).
Il “contratto sociale” è
citato con riferimento alla posizione di Tönnies, in un testo edito nel 1963 (Comunità e società, Edizioni di Comunità
1963), ma addirittura del 1887.
Sicuramente la posizione comunitaria si oppone alla messa in opera delle
“logiche economiche”, in senso molto lato, “strutturate intorno ad un contratto
sociale” ma pensa a formulazioni dello stesso molto più recenti.
In
questo contesto è richiamato anche Habermas (in una fase in cui al massimo si
confrontava con il solo Rawls) citando la famosa tesi della “colonizzazione dei
mondi vitali da parte dei sottosistemi funzionali”. Qui, però, il termine “mondo vitale” è
gravemente equivocato, nella direzione caratteristica di riportarlo troppo
rapidamente ad un ambito di prossimità territoriale, in quanto la “sfera del
mondo della vita” (dizione che usa nella sue tesi di dottorato) è solo la rete
dei significati socialmente e irriflessivamente tramandata dalla tradizione
attraverso il linguaggio, supporto dell’agire comunicativo ma,
contemporaneamente, suo limite. Essa non
è caratterizzata dall’”azione comunicativa” (come dice nella tesi) ma la
ostacola rendendola anche possibile.
4.0.4.4.1- Il “mondo della
vita” ed il richiamo ad Habermas: un equivoco.
Vediamo meglio questo punto:
in un coordinamento volto all'intesa, per Habermas, si
generano comprensioni fondate su un “riconoscimento
intersoggettivo di pretese di validità criticabili”, basate su convincimenti non coatti. Nella prima fase del suo pensiero maturo[107]
si può dire che il meccanismo alternativo
dell’”agire teleologico” (solo strumentale) ha a che
fare con la manipolazione ed é parassitario e distruttivo dei legami sociali
comunicativi (comprensioni reciproche di linguaggi, idee, valori ecc...), cioé
dei “mondi vitali” senza i quali non si dà società. Si genera, in effetti, secondo Habermas, una
sorta di “colonizzazione del mondo della vita” da parte degli imperativi
sistemici e strumentali.
Però il termine “mondo
vitale” (lebenswelt)
va ben compreso: il “mondo vitale” è solo
il “supporto” dell'agire comunicativo; per Habermas, infatti, non si può
dare in nessun caso una comunicazione che
sia rivolta genericamente ad una sorta di uditorio universale, presupponendo
una, inesistente, omogeneità di saperi condivisi da tutti (condizione per una
corretta ricezione del messaggio).
Al contrario una comunicazione orientata
all'intendersi è sempre diretta, e
proveniente, ad, o
da, una specifica “comunità” tale perchè
condivide un “mondo vitale”; cioè ad un insieme di individui che condividano un corpus di
conoscenze ed interpretazioni, ma non solo,
da loro considerate non problematiche[108]. Essi non
sono, in altre parole, selezionati per prossimità ma per legami culturali, sia
pure impliciti. “Il
mondo vitale è un serbatoio o uno sfondo di certezze ed evidenze non
problematizzate ma problematizzabili man mano che diventano rilevanti per una
situazione”[109].
Esso é
costituito da contenuti cognitivi, più o
meno complessi, retti dalla “impalcatura” di “concetti del mondo” e corrispondenti “pretese
di validità”, presupposti come provvisoriamente
aproblematici dagli attori in interazione.
Con
le parole di Habermas: “il mondo vitale
immagazzina il lavoro interpretativo svolto dalle generazioni precedenti; esso
é il contrappeso conservatore contro il rischio di dissenso che sorge in ogni
processo effettivo dell'intendersi”[110]. Il problema, con
riferimento a tale “contrappeso
conservatore”, é che esso appare tendenzialmente impermeabile alla critica e, in tale
senso, é di ostacolo all’intesa razionale
tra gli agenti in modo comunicativo.
Se i
contesti situazionali bisognosi di accordo vengono, invece, letti alla luce
dell'operato interpretativo dei partecipanti - quindi
attraverso uno sforzo diretto a una “intesa
rischiosa” proprio perché motivata
razionalmente -, e non via riferimento
alle ovvietà culturali o alla tradizione dei comportamenti e delle norme, assunte naturalisticamente, allora e solo
allora, per Habermas, possiamo attenderci orientamenti all'azione innovativi, condivisi,
riflessivi e razionali.
Tale é il
processo che genera “razionalizzazione
sociale”, cioè il passaggio da un “intendersi
imputato normativamente versus una
intesa raggiunta in modo comunicativo”[111]. Il solo
riferimento ad un “mondo vitale” resta nel versante del “intendersi imputato
normativamente” (dalla tradizione). Per
l’autore tedesco si tratta, al contrario, di raggiungere una “zona
critica” nella quale una “intesa conseguita in modo comunicativo dipende da autonome
prese di posizione del tipo si/no su pretese di validità criticabili”[112]. Tale zona critica si appoggia sulla
preesistenza di “mondi vitali” condivisi ma per trascenderli.
Il
concetto procedurale di razionalità comunicativa si regge su tale assunto, oltre che, come abbiamo visto nel Terzo
Percorso, sul concetto di “decentramento” della
comprensione del mondo; entrambe interpretate come condizioni necessarie per
una società emancipata[113].
In
questo modo il bisogno di comprensione si articola nelle tre sfere separate
del:
a) "sapere
normativo" (da mettere in
relazione al mondo sociale),
b) in quello "soggettivo" (cioé dalla prospettiva alter-ego da coprire in modo
comunicativo vis-a-vis)
c) in quello "oggettivo" (demandato, così mi sembra, alla arena tecnica ed al lavoro interpretativo degli esperti).
In effetti Habermas propone una direzione alla razionalizzazione sociale
che non lasci le tre sfere (lette con riferimento anche a Weber) a diversi gradi di relazione ad interessi e di
differenziazione. Si tratterebbe, in altre parole, di generare una sorta di
“modello non-selettivo” di razionalizzazione che sia
capace di fare qualcosa di più oltre a collegare
le tre sfere di valore culturale a sistemi di azione, a loro volta in grado
di produrre rispettivi saperi specializzati, in base a istanze di validità ad
esse relative.
Secondo
il diagramma teorico di
Habermas, per superare questa condizione, la
razionalità di una comunicazione è, da
leggere, in rapporto con la sua capacità di attivare le
potenzialità comunicative implicite
nella comunità verso la quale è diretta e la cui azione intende
contemporaneamente normare,
sviluppare in senso espressivo ed orientare in quello cognitivo. Ciò significa che la razionalità è in rapporto con la
criticabilità e la capacità di fondazione.
Quindi
un’espressione comunicativa può essere considerata
razionale se mette il soggetto cui è diretta nella condizione di poter
esprimere, in risposta, una presa di posizione si/no sulla sua “pretesa di validità”. In altri termini se
l'ascoltatore, avvalendosi
di ragioni, può concordare o meno con l'espressione comunicativa del
proponente ma in entrambi i casi è da
questa messo in condizione di esprimere una convinzione.
Il punto è che una razionalità così strutturata è capace di rinforzare, e
rendere riflessivi, i legami sociali e disintrecciare valori e presupposizioni
da stili di vita tradizionali,
impermeabili alla comunicazione sociale. Rispetto a tale
schema Habermas mette in evidenza, in Il
pensiero post-metafisico, come il processo abbia due facce, se visto dal punto di vista degli individui socializzati: perdita dei sostegni convenzionali ed emancipazione dalle forme naturali di
dipendenza. Su questa linea
passa, a suo parere, un conflitto teorico e culturale; questo
processo viene infatti, da alcuni,
interpretato come individualizzazione progressiva dei soggetti ed espansione
delle possibilità di scelta, quindi sotto un segno positivo (tipicamente il
passaggio dal lavoro in semiservitù del contadino
medioevale al «libero» lavoro salariato, secondo la ironica definizione di Marx), per
altri il segno deve essere negativo, per Habermas
varrebbe, piuttosto, un segno plurivalente.
Ciò si oppone alla
comprensione della modernità come ampliamento di ambiti
di opzione per decisori razionali e disfacimento, senza resti, dei tradizionali
“mondi della vita” per prendere in considerazione solo prestazioni
funzionalmente specifiche.
Ma anche, e questo è il punto, ogni tentazione di ricaduta nel calore e
nella protezione di luoghi chiusi ed avvolgenti esperienze “comunitarie”.
Riprendendo il concetto, assai
complesso, di “mondo della vita”, sul quale ci siamo soffermati già in
precedenza si può quindi dire che Habermas, combattendone la comprensione,
riduttiva, in senso culturalista, arriva a descriverlo in termini di humus
formativo di cultura, personalità e
società.
Viene, in altre parole,
visto nei termini del suo partecipare della formazione della “società”
(definita come: “gli ordinamenti legittimi attraverso i quali i partecipanti
alla comunicazione regolano la loro appartenenza a gruppi sociali generando,
così, solidarietà”[114])
e a “strutture della personalità” (definite: “le competenze che rendono un
soggetto capace di parlare e agire, mettendolo in grado, quindi, di partecipare
a processi d'intesa e di affermare con ciò la propria identità”[115]).
In questo
contesto il
processo per il quale il “mondo della vita” si differenzia e riproduce è
descritto come “razionalizzazione”, cioè formazione di livelli superiori di
apprendimento. Tuttavia, identificare
“mondo della vita” e “società” (o, peggio, “comunità”) rappresenterebbe quello
che Habermas chiama un “idealismo ermeneutico”.
Implica, infatti, almeno tre finzioni: l'autonomia degli agenti, l’indipendenza della cultura, la trasparenza
della comunicazione.
Come abbiamo già visto, per evitare questo rischio
entra in gioco il II livello al quale Habermas comprende la società: il “sistema”. Grazie a tale concetto si può, infatti,
distinguere tra una “integrazione sociale” ed una “integrazione
sistemica”. La prima risponde alle
presupposizioni dell'Agire Comunicativo, la seconda alla “razionalità rispetto
allo scopo”.
In definitiva “le società
costituiscono nessi di azione stabilizzati sistemicamente di gruppi integrati
socialmente”[116]. Si stabilisce, dunque, una sorta di doppia evoluzione secondo la quale si
formano, progressivamente, sempre più sottosistemi che non hanno bisogno di
medium linguistici, nè degli onerosi vincoli della razionalità comunicativa per
funzionare. Il tono non è di condanna di
una delle modalità di organizzazione e riproduzione sociale (anche se una
lettura frettolosa, effettivamente, potrebbe dare questa impressione).
E' la progressiva formazione
di dimensioni di cultura - società - personalità, cioè la “razionalizzazione
del mondo della vita”, a generare la necessità della formazione di sottosistemi
regolati dalla razionalità allo scopo e privi di rimandi normativi[117]. Ciò indica effettivamente un processo di
aumento di razionalità (nel senso di Weber), ma porta anche con sé il rischio
di strumentalizzazione dello stesso “mondo della vita” da parte dei
sottoinsiemi regolati sistemicamente (cioè dotati di una propria logica
interna) ad esso impermeabili. E' il
rischio di “colonizzazione” che rappresenta la peculiare forma in cui Habermas
ridefinisce la classica tesi della reificazione[118].
Ma a tale rischio non si può
rispondere ricadendo ad un livello inferiore di differenziazione.
La posizione di Habermas è dunque assai complessa, la
contrapposizione “tra sistema e mondo della vita”, che (insieme ad
un’interpretazione concretistica del “mondo della vita” ed una sua sostanziale,
ma incomprensibile, identificazione con comunità a base territoriale) viene
citata da Giusti nella tesi, non può essere letta come contrapposizione tra
luogo dell’autonomia e dell’eteronomia.
Il “mondo della vita” di per sé non è in alcun modo il “luogo
dell’autonomia”; al più è la base irriflessiva e la condizione stessa della
possibilità dell’attribuzione di senso.
In conclusione, la citata “rivalutazione dell’ambito
comunitario”, che chiude la frase in precedenza citata dell’articolo di Giusti,
non ha molto a che vedere con Habermas salvo che sotto esigenti e complesse
distinzioni.
La ricerca di strutture di “identità collettiva, nella
società ‘postmoderna’, che facciano riferimento alla concretezza, alla
materialità e alla quotidianità di piccoli ambiti di riferimento, luoghi
sociali regolati da valori primari e non informati dall’indifferenziazione
metropolitana del villaggio globale”, inoltre, va in una direzione totalmente
diversa. Habermas è per un’integrazione
sociale post-convenzionale ed alquanto “astratta”. Per comprenderla occorre leggerla in
riferimento al dibattito di filosofia politica ed, in particolare, alla
posizione di Rawls. La “materialità e
quotidianità di piccoli ambiti” non ha proprio nulla a che vedere con ciò.
Il fatto che
solo attraverso la strutturazione attiva del luogo concreto (che
rappresenta la “geografia di vita del soggetto”) il soggetto possa ritrovare
una “propria identità” riscoprendo le sue radici (Mela citato da Giusti) sposta
proprio l’ambito di riferimento delle riflessioni in direzione di uno
storicismo sociologicamente (ed antropologicamente) interpretato sul quale ci
siamo già lungamente espressi.
[1]
- Walter Privitera, Il luogo della
critica. Per leggere Habermas,
Rubettino, 1996, p.54
[3]
- Riguardo alla coppia omologanti/caratterizzanti vedremo che a livello del
singolo individuo sembra a chi scrive che le cose potrebbero essere descritte
in modo simmetricamente opposto.
[4]
- Ed anche nel, più recente, Jurgen Habermas, Solidarietà tra estranei, Guerini, 1997.
[5]
- Pier Luigi Crosta, “Istituzionalizzare l’interazione sociale in pratiche
professionali ?”, Urbanistica 106.
[6]
- Charles Lindblom citato da Crosta, op.cit., p.113
[7]
- Un gesto intellettuale e pratico che reca con sé le tracce di ciò che
attraversa spostandosi.
[8]
- Come è noto si tratta di un termine con forti risonanze heideggeriane, del
quale vorrei segnalare solo il legame con una forte e radicale critica della
ragione politicamente connotato.
[9]
- Questo livello non è più trovato nella “dialettica” tra capitale e lavoro ma
in quella “locale” “globale” dove il nemico è il sistema economico globalizzato
visto quale distruttore di differenza locale e radicamento identitario.
[10]
- Sembrerebbe che in tale ricerca di senso sia implicato un gesto di ricerca
del livello di omogeneità al quale ancorare la possibilità stessa di un
consenso legittimante l’azione. Di
fronte alla crescente indisponibilità della nozione di “popolo”, allora, si
cerca un’equivalente funzionale nella nozione, egualmente concreta, di
popolazione “abitante”.
[11]
- Anche nei termini stessi dell’approccio che qui ricostruisco andando in
conflitto con l’ispirazione “costruttivista” che pure lo attraversa. E’, a mio parere, una faglia di instabilità
del paradigma relativamente profonda e rischiosa.
[12]
- Dello stesso avviso sembra essere anche Sernini in un recente intervento.
[13]
- Questa questione è naturalmente piuttosto complessa e richiederebbe
un’approfondita analisi pratica e concettuale oltre al richiamo critico di
alcuni autori fondamentali come Friedmann e Forester. Ciò non si può fare dati i limiti del
presente lavoro.
[14]
- Luigi Mazza, “Attivista e gentiluomo”, in ASUR, n° 48, 1993, p.40
[15]
- Idem.
[16]
- John Friedmann, Pianificazione e
dominio pubblico, Dedalo, 1993, p.314
[17]
- Chiara Mazzoleni, “Tradizione e mutamento nella teoria della pianificazione
anglo-americana dopo gli anni ’60 : ricostruzione logica e interpretazione
critica”, dissertazione di dottorato di ricerca, Venezia, aprile, 1987, p.168.
[18] - Idem., p.171
[19] - Idem.
[20] - Idem, p.177
[21] - Idem, p.151
[22]
- Si intende con impostazione pluralista quelle teorie della democrazia che
enfatizzano l’interazione tra differenti individui, portatori di punti di vista
sul mondo che non devono essere necessariamente portati a comunicare. Politicamente si tratta di posizioni
liberiste nelle quali le funzioni di coordinamento ed allocazione delle risorse
sono prevalentemente affidate al mercato anziché alla politica in alcuna sua
forma. Cosa diversa è il “pluralismo
ragionevole” di Rawls che enfatizza il collegamento e la compatibilità
liberamente e razionalmente accettata.
[23] - Idem, p.181
[24] - Idem, p.182
[25]
- Posizione che si riferisce esplicitamente e chiaramente a Dewey.
[26]
- Idem, p.184
[27]
- Con riferimento ad una concezione “terapeutica” del linguaggio (Wittgenstein)
e della pragmatica della comunicazione oltre che, come è ovvio, a Dewey.
[28] - Idem, p.185
[29] - Idem, p.187
[30] - Idem, p.188
[31]
- Ferdinand Tönnies descrive la “comunità” come un organismo naturale nel quale
prevale l’interesse comune su quello individuale, gli interessi collettivi
predominano, i membri sono scarsamente individualizzati, e l’orientamento
morale oltre che intellettuale è dato da credenze di tipo religioso, inoltre la
condotta quotidiana è regolata dai costumi e la solidarietà è globale e
spontanea, la proprietà comune. Al
contrario, la “società” comprende
relazioni sociali di segno contrario; vi domina, quindi, la volontà
individuale, i membri sono fortemente individualizzati, gli interessi dei
singoli prevalgono e l’azione di ciascuno è dominata dall’opinione pubblica,
l’agire quotidiano dalla moda. La solidarietà, inoltre, si realizza solo in
termini di contratto e ruota intorno allo scambio di beni e servizi, la
proprietà privata domina.
La Comunità rappresenta
uno stadio di sviluppo storico anteriore alla società e sede della “cultura”
(contrapposta alla “civilizzazione”).
[32] - Idem, p.188
[33] - Idem, p.189
[34]
- Come è noto l’anarchismo è quell’insieme di dottrine che accentuano la necessità
di fare a meno dello stato, cioè del dominio della legge e delle autorità
costituite in ogni loro forma. Ciò allo
scopo di assicurare la massima libertà all’individuo e di dispiegare le sue
migliori facoltà. In particolare
l’autonomia e la capacità di cooperare con il suo prossimo. Come ricorda Gallino, “la teoria sociale
implicita nell’anarchismo si fonda sulla credenza che qualsiasi comunità di
individui, quando sia libera da interferenze esterne, è in grado di realizzare
da sola un ordine sufficiente per far fronte ai suoi principali bisogni, senza
dover ricorrere a leggi, forme di governo, o capi di qualsiasi specie.”
(Luciano Gallino, Sociologia della
politica, Utet, 1989, p.9)
In particolare, Kropotkin,
citato frequentemente da Friedmann in Pianificazione
e dominio pubblico (pp. 306, 312, 364, 378, 313, 314, 312-15), asserisce la
solidarietà essere la dimensione “naturale” dell’uomo e sottende una radicale
diffidenza nei confronti della società industriale con una corrispondente
esaltazione della “comunità”. Di
villaggio, quindi delle virtù contadine, di una vita vissuta a contatto con la
natura.
[35] - Idem, p.190
[36] - Idem, p.191
[37] - Idem.
[38] - Idem, p.197
[39]
- Qualcosa del genere è proposta anche da Schön con la sua descrizione della
competenza come capacità di vedere i propri
“modi di vedere”.
[40]
- Idem, p.200
[41]
- Alessandro Balducci, Disegnare il
futuro, Il Mulino, 1991, p.167
[42]
- John Friedmann, Pianificazione e
dominio pubblico, op.cit., p.48
[43] - Idem, p.412
[44] - Idem, p.423
[45] - Idem, p.425
[46] - Idem, p.428
[47] - Idem, p.434
[48] - Idem, p.435, nota.
[49] - Idem, p.436
[50] - Idem, p.484
[51]
- Michele Sernini, Terre sconfinate.
Città limiti localismo, Franco Angeli, 1996, p.118
[52]
- Idem, p.119 nello stesso contesto una frettolosa critica ad Habermas che trascura
la sua attenzione alla “ragion pratica” istituzionalizzata nelle strutture
dello stato di diritto sulle quali ormai sempre più spesso insiste. Una critica
che si basa su un testo di Ferry edito nel 1987.
[53]
- Jurgen Habermas, Fatti e norme,
op.cit., p.180
[54]
- Idem.
[55]
- Alberto Magnaghi, Mauro Giusti, “Presentazione”, in Alberto Magnaghi (a cura
di), Il territorio dell’abitare,
Franco Angeli, 1990, p.13
[56] - Idem, p.14
[57] - Idem, p.19
[58]
- Jurgen Habermas, “L’insostenibile contingenza della giustizia”, Micromega,
5/95, p.139
[59]
- Crosta, “Istituzionalizzare l’interazione sociale in pratiche
professionali?”, op. cit. , p.
114
[60]
- Dubbi simili li avanza anche Habermas in un modo diverso soprattutto
nell’ultima parte della sua opera e nel dibattito con Rawls.
[61]
- Dello stesso avviso è anche Sernini, op.cit.
[62]
- Jurgen Habermas, Dopo l’utopia,
Marsilio 1992, p.114
[63]
- Pier Luigi Crosta, La politica del
piano, Franco Angeli, 1991, p. 119
[64]
- Anzichè come sistema funzionale nel quale le relazioni tra gli attori siano
riconducibili, in via di princìpio, senza resto, a relazioni di ruolo.
[65]
- Jurgen Habermas, Il pensiero
post-metafisico, Laterza, 1991, p.235
[66]
- Martin Heidegger, “Costruire, abitare, pensare”, in Saggi e discorsi, Mursia, 1987, p.99
[67]
- Su questa importante letteratura cfr. Alessandro Ferrara, Comunitarismo e liberalismo, Ed.
Riuniti, 1992; Michele Mangini, La
giustizia e gli ideali. Una critica alla giustizia liberale, Editori Riuniti,
1994
Michele Mangini (a cura
di), L’etica delle virtù e i suoi
critici, La città del sole, Napoli, 1996; Antonella Besussi, Giustizia e comunità. Saggio sulla filosofia
politica contemporanea, Liguori ed., Napoli, 1996
[68]
- Salvatore Veca, “Il paradigma delle teorie della giustizia”, in Manuale di filosofia politica, a cura di
Sebastiano Maffettone e Salvatore Veca, Donzelli, 1996, p.187
[69]
- John Rawls, Una teoria della giustizia,
Feltrinelli, 1982.
[70]
- Alasdair MacIntyre, Dopo la virtù,
Feltrinelli, 1988 (ed. or. 1981)
Michael J. Sandel, Il liberalismo e i limiti della giustizia,
Feltrinelli, 1994, (ed. or. 1982)
Charles Taylor, Radici dell’io. La
costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, 1993 (ed. Or. 1989)
Michael Walzer, Sfere di Giustizia, Feltrinelli, 1987 (ed. or. 1983)
Robert Bellah, Habits of the heart. Individualism and committment in American life,
University of California Press, Berkeley, 1985.
[71]
- Antonella Besussi, “Liberalismo e comunitarismo: le ragioni di un dissenso”,
in Manuale di filosofia politica, a
cura di Sebastiano Maffettone e Salvatore Veca, Donzelli, 1996, p.9
[72]- Charles Taylor, Radici dell’io, op. cit., p.43
[73]- Idem, p.44.
[74]-
Per una discussione di un tema simile ma con importanti differenze di
accentuazione cfr. Stefano Moroni, “Sul significato della ragione pratica nel
campo della pianificazione territoriale”, CRU, n°4, 1995.
[75]-
Charles Taylor, Radici dell’io,
op.cit., p.51
[76]
- Cioè in base alla mossa illuminista di escludere tutte le caratteristiche
individuali per tenere solo quelle comuni (o “invarianti”).
[77]- Idem, p.66
[78]- Idem, p.67
[79]-
Idem, citando Martin Heidegger, Essere e
tempo, Longanesi, 1976
[80]-
Idem, p.71
[81]- Questa è l’ipotesi di lavoro cui, purtroppo ancora
in modo abbastanza incompleto e poco chiaro, sta lavorando Alessandro Ferrara e
su cui si esprime Taylor.
[82]- Charles Taylor, Radici dell’io, op.cit., p.82
[83]- Ibidem.
[84]- Ibidem.
[85] - Idem, p. 84
[86]- Cioè al “Giudizio Riflettente” che ha trovato una
sua formulazione rigorosa, una prima volta, nella Critica del Giudizio di Kant.
[87]- Cfr. Hannah Arendt, Teoria del giudizio politico, Il Melangolo, 1990.
[88]- Immanuel Kant, Critica
del Giudizio, Utet, 1993, p.104
[89]- Alessandro Ferrara, L’eudaimonia postmoderna, op.cit., p.119
[90]- Charles Taylor, Radici dell’io, op.cit., p.82
[91]- Idem, p.614
[92]- Quelli che si chiamano generalmente i teorici
“repubblicani” e sono l’evoluzione del pensiero “comunitario” di cui ho parlato
in precedenza. Si tratta di una
posizione molto recente, che enfatizza non più il termine
<<comunità>>, ma ciò che la costituisce come tale. Dunque
l’orientamento al <<bene comune>>.
Un autore chiave è, in tal senso, Robert Bellah (ed il suo libro
introduttivo Habits of the heart, op.
cit., 1985) che, preoccupato della minaccia generata dalla frammentazione e dal
narcisismo espressivista (di cui vede tracce nell’utilitarismo, attraverso il
suo individualismo, e nel “trionfo del terapeutico”) punta l’attenzione sul
recupero del linguaggio dell’impegno pubblico.
Da Bellah, in seguito, la posizione è stata ripresa ad opera di autori
come Taylor e, più di recente, anche Sandel.
[93]- Alessandro Ferrara, “Il paradosso della comunità”,
Iride, n°16 anno VIII, dicembre 1995, p.717.
[94]- L’attore cui penso è qui il “sistema concreto di
azione” che si genera in un processo di progettazione e non qualche esperto
specifico o qualche decisore, anche se tutti possono svolgere una parte; cfr.
Michel Crozier e Erhard Friedberg, Attore
sociale e sistema, Etas Libri, 1978.
[95]- Hans George Gadamer, Il problema della coscienza storica, Guida ed., 1974, p.47
[96]- La metafora è di Ronald Dworkin.
[97] - Sandel, 1982; Taylor, 1985,
1989 ; MacIntyre, 1981, 1982, 1984, 1988 ; Bellah, 1987, Selznick,
1987
[98]
- Sandel, 1994 ; MacIntyre, 1988 ; Walzer, 1987 ; Taylor, 1993,
1994
[99]
- Mauro Giusti, “Locale, territorio, comunità, appunti per un glossario”, in Il territorio dell’abitare. Lo sviluppo globale come alternativa
strategica, Franco Angeli, 1990, p.152
[100] - Idem.
[101] - Idem, p.153
[102] - Idem.
[103] - Idem, p.154
[104] - Idem., p.155
[105] - Idem.
[106]
- Idem.
[107]
- Rappresentata dal punto raggiunto con Teoria
dell’agire comunicativo.
[108]- Comunità reali possono
essere anche attraversate diagonalmente da diversi “mondi vitali” e lo stesso
individuo appartenere a più di essi.
[110]- Idem.
[111]- Idem, p.139.
[113]
- Il concetto di “decentramento”, in particolare, é ripreso da Piaget e si
riferisce al nesso interno fra le strutture di un'immagine del mondo;
precisamente al processo evolutivo che consente all'adolescente, nel suo
passaggio alla vita adulta, di differenziare una comprensione del mondo
plasmata in modo egocentrico in una articolazione secondo i tre “mondi”
soggettivo, sociale ed oggettivo. Quindi
“concetti del mondo” e “pretese di validità” relative si modificano, ed
articolano reciprocamente, con il decentramento
delle immagini del mondo che costituiscono la “riserva di sapere culturale”.
[115]- Ibidem
[116]- Idem, p.748
[117]-
Questo è uno dei punti delicati della teoria di Habermas, dove forse la schematizzazione
ed idealizzazione raggiunge livelli troppo estremi. Pur essendo una rappresentazione idealtipica
sembra difficile immaginare sottosistemi totalmente non regolati da norme
(anche se qui si tratta, evidentemente di "norme morali" mentre può darsi
regolazione a mezzo di "norme giuridiche positive" -orientate allo
scopo- e, probabilmente, anche di "norme sociali" -rituali e
consuetudinarie- a basso tenore di razionalità).
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