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giovedì 3 settembre 2015

Estratti da “Per una base di dialogo. Dell’interazione tra strumenti obbliganti ed indirizzanti”, 1997


Quello che segue è un lungo testo, elaborato tra il 1994 ed il 1997 nell’ambito del corso di dottorato di ricerca in Pianificazione Territoriale ed Urbana presso il DPTU a Roma, sulla base di riflessioni e ricerche che risentono naturalmente del clima intellettuale e delle problematiche emergenti dei primi anni novanta nell’ambiente urbanistico italiano ed internazionale. È una piccola parte (una metà del “Quarto Percorso”) di un testo sicuramente lungo e complesso e che, come molte tesi di dottorato cerca di dire troppe cose insieme. Partito per una troppo ambiziosa meta il testo (che è disponibile integralmente qui) probabilmente in molte parti meriterebbe una radicale riscrittura (se ne avessi le forze) e sforbiciatura, in altre decisi approfondimenti.


Ma questo frammento, pur nella sua tessitura accademica (di cui non posso che scusarmi) conserva qualche interesse per il tema, costantemente emergente, della ricerca del sostituto funzionale della lotta di classe nell’attivismo localista. Si sarà intravisto in qualche post che condivido parte dell’ispirazione serbando al contempo significative remore (ben evidenti nella discussione con la “teoria della decrescita”, ad esempio qui, o qui).
Pure nell’ultimo post, sono stato portato a segnalare il rischio che “la ricerca di una qualche eticità sostanziale (declinabile in chiave funzionale, ad esempio di classe, come locale, cosa particolarmente critica) portata da macrosoggetti, più o meno immaginati o costruiti, e proiettata attraverso la propria azione nella sfera pubblica politica induca disciplinamenti in entrambe le direzioni. Verso la società e verso l'individuo. Ciò condurrebbe ad una apparente emancipazione, dai vincoli sistemici imposti dai codici ‘denaro’ e ‘potere’, nello stesso gesto ricreando potere sociale soggiogante”.

Un testo del 1997 dovrebbe essere del tutto riscritto, dunque lo riproduco senza alcuna modifica (le immagini rappresentano l’indice della tesi).



“Quarto Percorso: proposte per concepire il “Negoziato” ed il ruolo in esso delle norme sociali.



4.0- “Discorso” e “Comunità Politica”: alcune note a partire da John Friedmann.

4.0.1- Premessa: l’insufficienza dell’argomentazione come metodo di decisione,

In base alle molte cose dette sulla pratica dell’argomentazione razionale emerge, in qualche modo, la sua insufficienza come princìpio di spiegazione e guida dell’azione, almeno se quest’ultima è intesa - in base ad un elementare princìpio di realtà - per come la incontriamo di fatto nelle nostre pratiche. 
Da una parte, infatti, si deve sottolineare come all’argomentazione si debba ricorrere solo ogni qual volta si produce, di fatto e su qualche punto concreto, una contestazione da parte di qualche interessato; ciò perché non tutto, e non sempre, può essere espresso con le attenzioni per la separazione delle “sfere di validità” (e delle relative “pretese”) indicate nello schema ricostruttivo habermasiano.  E' abbastanza evidente, infatti, che si produrrebbe una regressione all'infinito.  Per ricordare brevemente il punto si può sottolineare come la distinzione prodotta fra tre complessi di razionalità e fonti di senso (quello cognitivo - strumentale, pratico - morale ed estetico - espressivo) non rimanda ad una proposta normativa, imposta, cioè, dall’esterno al linguaggio ed all’interazione, ma ambisce ad essere una ricostruzione razionale di “competenze” che sono comunque esercitate nel discorso di partecipanti correttamente socializzati.  Distinguere tra sfere di senso delle espressioni avanzate rimanda, allora, alla competenza di volta in volta esercitata, ed alla struttura dei rapporti con il mondo (oggettivo, sociale e soggettivo) attivati da parlanti pragmaticamente efficaci.  Esplicitare tale profondo rapporto tra il modo del proprio dire e le connessioni che si stabiliscono con il mondo è, in base all’auspicio di Habermas, produttore di socialità e razionalità.  “Socialità” in quanto rafforza i legami di solidarietà e comprensione che ci legano agli altri, attraverso la condivisione di significati, “razionalità” in quanto rende i saperi stessi più trasparenti e riflessivi.
Sulla base di questa posizione avevamo ricostruito, nel Percorso precedente, la proposta di distinguere tra “pretese di validità” diverse (di «verità ed efficacia», di «giustezza o adeguatezza», di «veridicità») che sono sempre compresenti in un atto linguistico completo e comprensibile, ma con diverso grado di importanza ed esplicitazione.  Vale qui la pena di sottolineare che riferirsi esplicitamente a sistemi di “pretese di validità”, detto con le parole di un interprete di Habermas, “significa spogliarsi di qualsiasi posizione di potere in termini di forza, prestigio, influenza, ed affidarsi esclusivamente alla validità, ossia alla difendibilità argomentativa di ciò che si enuncia a fronte di possibili critiche”[1].
Rispondere alla domanda cruciale: «in che senso dici questo ?» (ed anche, se del caso, farlo anticipatamente) significa, allora, tematizzare la “validità” proposta, cioè esplicitare la “sfera di senso” nella quale si avanzano delle pretese.  Pretese che sono sempre descrizioni di “stati del mondo” (fisico, sociale o soggettivo) esistenti o desiderati, e proposte di coordinamento in vista dell’azione.  Il discorso razionale è, in questo senso, sistematicamente, una forma di comunicazione rivolta a tematizzare “validità” scambiandosi argomenti.


Senza continuare questa ricostruzione della teoria di Habermas, della quale abbiamo parlato a lungo nel Percorso precedente, è tuttavia chiaro che se il parlante fosse nelle condizioni di dover esplicitare sempre tutte le premesse di quanto dice, distinguendo quelle che si riferiscono prioritariamente a “fatti” da quelle che rimandano a “norme” ed ad “identità”, sarebbe obbligato ad un discorso interminabile.  Inoltre, nessuno ha la pretesa di essere autotrasparente in relazione alle ragioni (o sul riferimento a sfere di senso) di ciò che dice.  Non credo sia necessario rifarsi su questo punto alla letteratura “postmoderna”[2] per ammettere che manchino fondazioni ultime e tutto si rimandi reciprocamente in un tessuto di testi e discorsi, nel suo insieme autoreferente.
D’altra parte, e più in generale, parlare del significato dell’«argomentazione razionale» per se stessa non può essere, in alcun modo, sufficiente per il nostro lavoro di urbanisti.  Non tutto e sempre può essere argomentazione. 
Abbiamo già fatto cenno alla non riducibilità della decisione all’argomentazione o al discorso, e al ruolo del “giudizio pratico”, inoltre faremo cenno in seguito alla struttura istituzionale in grado di accoglierlo e potenziarlo, però, prima produrre qualche limitata conclusione, è necessario avanzare sistematicamente un’importante specificazione: “l’argomentazione” è sempre intrecciata a forme negoziali, nelle pratiche con le quali abbiamo concretamente a che fare.  Se si vuole che il proprio discorso abbia la possibilità di avere qualche impatto sul reale tale circostanza non può essere mai dimenticata.


4.0.2- Una proposta ambigua: Friedmann e la prevalenza della “Comunità”.

Avanzando questa specificazione, oltre che seguire la dinamica interna del nostro discorso, si intende reagire alla percezione di un rischio.  Nel paradigma “comunicativo”, almeno in alcune influenti sue declinazioni, sembra di vedere una profonda linea di instabilità; si tratta di un’impressione generale e non specifica anche se in qualche punto appare più evidente.  In alcuni toni si registra un’inclinazione ambigua verso un’impostazione anarchica o, talvolta, liberal - radicale (nel senso di un Von Hayek) che si presenta, ma in modo non sufficientemente esplicito, come utopia politico/sociale.
Si tratta chiaramente della ripresa di una lunga tradizione, profondamente interna nella disciplina, ma quasi esente di riflessione sulle proprie radici.  Al di là di questo la perplessità che tale stato di fatto provoca in chi scrive è nella percezione della messa in opera di un’immagine assolutamente ridotta e “militante” (nel senso di semplificante) dell’esistenza di aggregazioni, funzionali e non, di uomini.  Un’immagine “discontinua” dove il salto è tra “comunità” ed “individuo” con una netta sottodeterminazione del secondo rispetto alla prima.  Tale insieme è attraversato diagonalmente da gruppi e organizzazioni letti come free-rider, che rifiutano di giocare il gioco “locale”, e quindi come nemici (o, talvolta, come oggetti nel senso di risorsa).
Sembra evidente che ciò si può collegare ad un grande movimento che ha interessato gli ultimi anni, confuso come tutti i fenomeni complessi, provocando una ricentratura dalla percezione di una relazione stratificata “orizzontale” della società (con divisione in “classi”, o aree di interesse) ad un’idea di società come insieme e rete di confini “verticali” locali.  Dove, all’interno di questi confini le relazioni sono immaginate come potenzialmente antiautoritarie, orizzontali, caratterizzate e coinvolgenti quanto nella società “globale” esse sono denunciate come gerarchiche, fredde e omologanti[3].
In questa vivida rappresentazione è, però, trascurata la percezione dell’importanza in positivo della stratificazione sociale, e della divisione del lavoro, soprattutto attraverso la mancata considerazione dell’importanza delle relazioni “funzionali” nel generare coesione attraverso l’interazione di forme di “agire strategico”.  Questo è precisamente il tema che sarà affrontato in questa parte del testo: la tesi è che anche l’agire strategico provoca coesione, sia pure in forma e per vie diverse dalla solidarietà elettiva.  Le due forme di legame ed intreccio tra le azioni e le personalità sono, anzi, tali da rimandarsi vicendevolmente.
Ciò può portare a recuperare un’attenzione meno selettiva verso il ruolo della democrazia istituzionale e della “ragion pratica” incorporata nelle istituzioni liberal-democratiche, come anche lo stesso Habermas, nell’ultima fase del suo lavoro, ricorda.  E rifiuta l’idea, molto radicata, che la legittimità democratica richieda, ad un qualche grado elevato, una sorta di “omogeneità” del demos.  Viene, al contrario, valorizzata la presenza di una sorta di solidarietà tra estranei che intendono restare tali; una solidarietà “astratta e mediata giuridicamente”, come dice Habermas in Fatti e norme[4].



In questa tesi é riverberata in fondo sia la critica di Luigi Mazza al “socialismo anarchico di Friedmann”, e quindi alla prospettiva che finalità generale e standard di valutazione dell’azione del planner sia la “ricostruzione” della Comunità Politica; che quella di Crosta alla possibilità stessa di fare dell’interazione sociale l’oggetto tematico di pratiche disciplinari[5].  Ciò non significa che la forte accentuazione del carattere politico e morale delle attività di pianificazione, presente negli approcci citati, non sia condivisa da chi scrive, ma, solo, che tale sottolineatura non deve mai fare dimenticare le prestazioni meno “nobili” della prassi urbanistica stessa.  Il suo essere una delle arene attraverso cui si vince e si perde nella corsa all’accesso delle risorse a base territoriale. 
La tesi che avanzeremo é che, anzi, c’é una relazione tanto stretta da essere indistinguibile tra le pratiche di interconnessione, e generazione di significati condivisi, e quelle di distribuzione di risorse via scontro. 

Il nodo che viene alla luce è quello di una relazione tra “intenzione” ed “azione” non lineare, continuamente attraversato da conseguenze non intenzionali, capaci di orientare la (ulteriore) azione.  Ciò limita (ma non elimina) l’efficacia della sola ragione nel suo compito di guidare la società. 
Critiche di questo segno, nella seconda metà del nostro secolo, ne sono state avanzate in quantità estremamente ampia, sia da posizioni conservatrici e (talvolta) reazionarie, che da posizioni radicali, da destra e da sinistra, dalla filosofia e dalle scienze sociali.  La posizione che si prende in questo testo è intermedia: occorre predisporre gli strumenti intellettuali ed operativi per “tenere conto delle relazioni reciproche tra ragione e interazione sociale”[6]
A questo scopo è proposto un esercizio di lettura incrociata di due autori, anche distanti tra di loro come posizione disciplinare (non così come schieramento) ma non incompatibili, Elster ed Habermas; una lettura incentrata su frammenti per una teoria dell’azione capace di intrecciarsi con una semplice concettualizzazione della ragione pubblica. 
La speranza è, in tal modo, di fare un passo verso l’oltrepassamento[7] sia dell’approccio che vede la società guidata da esperti, in grado di riconoscerla nei termini di “domanda sociale”, e sia di quello in cui i pianificati (la “gente”) sono indotti al dialogo dai professionisti (“radicali”). 
Nel secondo caso i limiti sembrano, a chi scrive, emergere nelle pieghe stesse dell’interessante idea che ciò che conta sia un “buon” processo; e, cioè, “l’apprendimento” di un legame “diretto” con il territorio “abitato”[8] dai soggetti e con l’ambiente in cui sono immersi.  Oltre ad un certo fondamentalismo, le cui provenienze sarebbe ora troppo lungo e difficile risalire nella, interessante e generosa, posizione richiamata sembra a chi scrive di vedere una strategia di formazione del consenso che attenua il problema del rapporto con la scelta ed il conflitto, anzi gli innumerevoli conflitti che attraversano in tutte le direzioni la società.  Ciò si può intravedere nella strategia di riduzione dei conflitti, empiricamente rilevabili, a un livello fondamentale cui riportarli[9].
Anche se la posizione citata muove proprio da un’insoddisfazione verso la qualità, ed il processo di formazione stesso, delle scelte, oltre che dall’esistenza di conflitti rimossi, sembra aver subito, in altre parole, una mutazione lungo la via della ricerca del fondamento.  Ritrovando, infatti, quest’ultimo nel legame “diretto” tra territorio abitato ed abitanti viene ricercato un consenso che torna ad assomigliare all’assenso sulle proprie posizioni perchè giuste (ovviamente a fin di bene).  Il dialogo è presentato, allora, come una pratica il cui oggetto è già stabilito; una pratica capace di “portare alla luce il sommerso” senso del luogo[10].
Se si tratta, però, davvero di un “portare alla luce”, allora la cosa è problematica, in quanto il gesto stesso presuppone un’identità indipendente dal processo, cioè tale da esistere a priori (magari nascosta agli stessi interessati) rispetto al processo di comunicazione e conflitto generato localmente intorno alle pratiche urbanistiche.  Ciò è piuttosto pericoloso[11] in quanto sposta il problema del consenso su un binario preformato, anticipando nella teoria i risultati dell’interazione; cosa che, tra l’altro, proietta domande non semplici sul ruolo del planner stesso.  Emerge quasi un ruolo “educativo” e partigiano che, potendo naturalmente essere accolto da alcuni a guida della propria etica dell’azione, mi sembra avere tuttavia dei limiti come nucleo di una teoria più generale della pratica urbanistica.  Il prendere parte per una diversa organizzazione sociale configura, infatti, un ruolo politico forte per il planner, ma lascia il sospetto che non sia del planner[12], d’altra parte l’educazione è una pratica rischiosa, quando si disponga di poteri e saperi quali quelli urbanistici.  Il paternalismo è sempre dietro l’angolo[13] come la stessa storia disciplinare ci può mostrare con abbondanza di esempi.
In questa stessa direzione sembra andare anche la critica di Mazza che, discutendo della posizione di Friedmann, definisce il “radical planner” come “un attore critico completamente integrato nel gruppo in cui si riconosce e con cui opera e alla cui azione offre un legame circolare con la teoria nella prospettiva della «creazione di un ordine sociale alternativo, che necessariamente coinvolge la ristrutturazione delle relazioni di potere basilari»”[14].  Cioè, come “attivista politico che ha la formazione e gli strumenti di un intellettuale impegnato”[15].
Questo attivista ha un progetto specifico (anche se, con una certa ambiguità, non è riconosciuta la possibilità di un pensiero sostantivo separato dall’azione) la ricostruzione della “comunità politica”, cioè di una “visione centrale che guida un progetto di ricostruzione sociale”[16].


4.0.2.1- Il percorso di Friedmann

Per sviluppare questa riflessione, capace di far percepire lo sfondo sul quale si staglia la posizione che sto cercando di costruire, sarà, allora, necessario rivolgersi alla lettura di un testo capitale come “Pianificazione e dominio pubblico” di John Friedmann.
Per fare ciò, in modo almeno minimamente consapevole, però, bisogna ricostruire lo sfondo e la traiettoria nella quale il libro si inserisce, completandola. Come è noto l’importante urbanista americano ha attraversato, nel corso di un percorso pluridecennale, fasi anche notevolmente contraddittorie.  Secondo la lettura di Chiara Mazzoleni ha attraversato almeno tre fasi: un’iniziale impostazione comprensiva in chiave funzionalistica, negli anni ‘55- ’65, una fase intermedia, dal ’65 al ’70, in cui emerge una proposta “adattiva” e “contingente”, una fase terminale che dura fino all’oggi in cui avanza una posizione “transattiva” e “dialogico-interattiva” di grande interesse ma non esente da ombre.
Procederò sistematicamente ricostruendo, sia pure brevemente, lo sfondo rispetto al quale leggere il testo di Friedmann che sarà interrogato intorno ad alcune parole chiave.  Per fare ciò non sarà presa in considerazione la fase razional-comprensiva ma solo quelle successive.  In particolare la seconda fase della teorizzazione di Friedmann lo vede proporre una funzione del tecnico come attore strategico, espressione di una sorta di “minoranza creativa”, la cui azione dipende dal contesto e dalla selezione strategica direttamente coinvolta in pratiche negoziali.  Al planner “non è conferita autorità in virtù della sua posizione”[17] e, in conseguenza, il suo ruolo deve essere legittimato “attraverso l’azione concreta e la creazione di consenso.  Egli è ‘innovatore persuasivo’, esercita pressione per sostenere le proprie proposte ed è più interessato a giustificare le azioni che non a valutare le loro conseguenze”[18].  Emerge anche un’attenzione tematica a tipologie di piano in relazione a tipologie di contesto.
La riflessione muove da un’iniziale distinzione tra “pianificazione allocativa” e “pianificazione innovativa”; nel primo caso il problema è razionalizzare situazioni date, cioè collocare risorse scarse tra usi alternativi.  Nel secondo ci si riferisce alla gestione di politiche non routinarie, il suo problema diventa la mobilitazione di risorse e si costruisce in corso di azione.
Il secondo genere di pianificazione implica cambiamenti strutturali ma selettivi, un’azione squilibrante e propulsiva.  Esso si può definire come “azione strategica”, compiuta da una “minoranza creativa” di attori diversi, uniti in temporanee alleanze.  Lo stesso piano è una “mossa tattica” in questo contesto strategico, in quanto esso riesce a legittimare i nuovi obiettivi, giustificando l’azione e mobilitando il consenso.  E’, quindi, enfatizzata la funzione persuasiva.
Il piano è strumento utile a favorire l’azione dialogica, dove la nozione è “strettamente connessa al problema del consenso, si riferisce cioè ad azioni volte a creare il consenso sulle scelte di piano”[19].  Una concezione molto interessante, in quanto rappresenta un costante scivolamento possibile del termine “comunicazione”; un rischio che si presenta quando le relazioni di questa con le pratiche negoziali non sia oggetto di un’attenzione tematica e attenta come stiamo cercando di fare in questo testo.  La pianificazione assume, comunque, il ruolo di guida del cambiamento in un sistema sociale.  Essa può attivare, in altre parole, un processo di autogoverno.
In una fase successiva è riconosciuto che, a seconda del contesto specifico, la “pianificazione allocativa” può anche assumere un’orientamento al processo e basarsi sul negoziato (alla Lindblom) anzichè sul calcolo.  Emerge anche un’idea della “pianificazione innovativa” in termini di sperimentazione.
Viene, quindi, proposta la distinzione tra “razionalità funzionale” e “sostanziale” che fa riferimento a Mannheim.  La distinzione è nella familiare separazione tra “mezzi” e “fini”, o nel comprenderli entrambi.  La “pianificazione innovativa” è riportata chiaramente al secondo genere di razionalità.

Alla fine degli anni sessanta si trova, invece, la ricezione del modello dell’ “active society” di Etzioni, che supera l’idea (di Lindblom) del mero adattamento spontaneo delle azioni sociali, riproponendo un “sistema di guida” che, però, se deve fare fronte a fenomeni di instabilità, deve essere “decentrato”.  Ciò significa che deve essere composto da “sistemi di intelligenza” dispersi e frammentati.  Emerge, quindi, un utilizzo della teoria cibernetica (Deutsch) che introduce “un’immagine del sistema di guida sociale come insieme di flussi di informazione e sistemi di controllo”[20].
Vi è qui un’assonanza con il Melvin Webber del 1965, che enfatizza la descrizione della città come sistema dinamico in azione, e la rete a-spaziale di “legami di dipendenza” funzionale.  In Webber il “sistema urbano è rappresentato come una complessa rete organizzativa e funzionale di sotto sistemi interdipendenti, la cui stabilità, efficienza e crescita dipende da processi di autoorganizzazione e autoregolazione”[21].


In un articolo del 1971 emerge anche una critica più approfondita della concezione comprensiva che fa uso di Lindblom, Wilson ed Hirschman, enfatizzando il pluralismo e lo sviluppo squilibrato.  Prevale, quindi, la pianificazione “flessibile e adattiva” in una prospettiva negoziale.
Si può individuare, in questa fase, sia una recezione che una critica all’ “advocacy planning” che produrrebbe sostanzialmente instabilità.  Una critica che è allargata all’impostazione utilitarista di Lindblom ed a tutte le impostazioni pluraliste nel senso americano[22].  Si riafferma, con ciò, “un’esigenza di progetto, di una visione più organica in grado di comprendere tutti gli interessi”[23].  La pianificazione comincia ad essere letta come interazione tra un’intelligenza “scientifico - tecnica” e l’azione sociale organizzata.  E’, quindi, “un processo continuo di aggiustamento, di esplorazione, di scoperta e di apprendimento, all’interno del quale non si da separazione tra mezzi e fini”[24].  In tale contesto l’esperto è colui che ha una maggiore capacità di apprendimento, intesa come indagine empiricamente fondata attraverso “esperimenti significativi”[25].
Tale è lo sfondo sul quale emerge, in “Retracting America: a theory of transactive planning”, un’idea della pianificazione basata sulla dimensione comunicativa e l’apprendimento sociale.  Il dialogo è letto come dimensione costitutiva del tessuto sociale, a sua volta autonomo rispetto all’azione pubblica.  La pianificazione è un processo di innovazione e apprendimento sociale nel quale la conoscenza dell’esperto (scientifica) e dei soggetti (personale e “comune”) sono coniugate attraverso il mutuo apprendimento in una dimensione dialogica.  Il sistema di guida muta, dunque, in un sistema innovativo di apprendimento sociale che opera in “scenari sperimentali”, dove soggetti diversi sono impegnati in attività di sperimentazione capace di produrre trasformazioni sociali.
In questa fase, secondo le parole di Chiara Mazzoleni, “Friedmann enfatizza la dimensione dello sviluppo morale dei soggetti e sostiene che l’efficacia della pianificazione deve essere valutata in riferimento agli effetti prodotti sul comportamento degli stessi, in termini di autoconsapevolezza, senso di responsabilità e soprattutto di capacità di crescita attraverso cooperazione”[26].  Si tratta, dunque, di una funzione comunicativa ed educativa della pianificazione[27].
Riferimenti di questa impostazione sono la cultura regionalista degli anni ’20 (soprattutto Mumford e Geddes).  In questo contesto emerge l’idea di “comunità”, intesa come “aggregazione spontanea di soggetti che manifestano un approccio unitario, che non hanno bisogno di un’autorità esterna per preservare uno stato di coesione”[28].  La comunità, in altre parole, si fonda su princìpi morali liberamente assunti.
Nel successivo articolo “The good society” si afferma che la “buona società” è una rete di “buone comunità” dove, cioè, le relazioni tra i soggetti, che si riconoscono vicendevolmente come tali, sono nella pratica fondate su azioni dialogiche che prescindono da ordinamenti gerarchici e consentono relazioni dirette (faccia - a - faccia).
Esse devono essere costituite da piccoli gruppi che operano negli interstizi della società amministrata, attraverso la “pratica radicale”; trasformando alla lunga, e in modo non sistematico, le stesse istituzioni.  Secondo la lettura di Mazzoleni, insomma, “la costruzione di una società diversa si traduce nella ricerca della persona reale, nascosta sotto i condizionamenti, le aspettative e gli obblighi delle istituzioni e dei ruoli sociali”[29].  Emerge anche una concezione relazionale del soggetto stesso, che fa riferimento all’idea normativa della “comunità morale”, intorno alla quale costruire il “bene pubblico”.  Un “bene” che scaturisce da una rete concreta di riconoscimenti reciproci e di solidarietà, in polemica con l’atomistica concezione dell’ “interesse collettivo” di derivazione utilitarista.
Il “bene pubblico” si definisce in termini di processo.  Inoltre essi sono “presupposti nell’idea stessa di comunità”[30].  Prevale qui un’immagine della comunità in cui il riferimento è, in modo molto tradizionale, Tönnies[31] e in cui il sociale è espressione di una volontà comune, direttamente emergente dalle relazioni interpersonali che i soggetti stabiliscono vicendevolmente.  Il sociale è, cioè, un effetto della sola comunità, dove i rapporti sono diretti, non sono mediati dal rapporto con il mercato e sono esenti dal dominio.  Un’idea della massima importanza, interesse e (dal nostro punto di vista) anche pericolosità, della quale riparleremo a lungo.

Altro riferimento è Mumford e Cooley in cui le comunità, costituite da piccoli gruppi, e fondate sulle relazioni “faccia - a - faccia”, determinano una profonda integrazione tra individuo e gruppo.  Con le parole di Chiara Mazzoleni : “nella prospettiva di Friedmann, esse rappresentano la migliore espressione dell’organizzazione sociale, perché in questo tipo di comunità il soggetto può interiorizzare quei princìpi e quegli ideali che gli consentono di superare gli interessi privati e di conseguire il bene generale”[32].
L’utopia, senza dimensione spaziale, della “buona società” trova una sua specificazione nel cosiddetto “sviluppo agropolitano”.  Si tratta di una strategia di sviluppo territoriale delle regioni periferiche basata essenzialmente sul soddisfacimento dei “bisogni primari”.  Richiama, chiaramente, la cultura regionalista dei primi decenni del secolo; sono indicate alcune condizioni: la chiusura territoriale selettiva, la socializzazione della ricchezza, l’eguale accesso all’uso delle risorse.   Il princìpio dominante è quello dello sviluppo autosufficiente, in cui unità autogovernate (distretti) promuovono le relazioni interpersonali e lo sviluppo spontaneo.  I “distretti” sono “ambiti culturalmente e politicamente omogenei nei quali le funzioni di governo sono esercitate dalla collettività”[33].  Lo Stato deve svolgere funzioni protettive dei confini territoriali, facilitazione dello sviluppo coordinando qualche politica e redistribuzione in favore delle “unità” meno forti.
In questo contesto che risente della fusione di motivi anarchici[34] la pianificazione diventa “pratica sociale”.

Successivamente il modello è trasposto anche alle aree non periferiche, attraverso l’idea di un sistema come insieme di cellule “despecializzate, centrate su se stesse e autonome”[35].  Si assume, inoltre, che un tale sistema, oltre ad essere despecializzato, possa divenire anche “destrutturato”.
In questa fase Friedmann propone che le unità siano organizzate secondo il modello “territoriale”, dove si hanno “strutture integrate orizzontalmente, i cui elementi sono tra loro collegati da valori condivisi, da relazioni cooperative, da solidarietà”[36], mentre l’organizzazione funzionale alternativa vede “strutture integrate verticalmente, gerarchizzate, i cui elementi sono legati da un rapporto di dominanza, sottomissione e da relazioni fondate sull’interesse”[37].  Grazie a tale impostazione di sviluppo, che richiama il primo regionalismo e l’insegnamento di Dewey, Veblen e Cooley, si può sperare di “ritrovare un equilibrio organico, un ordine naturale”[38].

Anche guardando la cosa dal punto di vista dell’epistemologia della pratica, Friedmann propone la prospettiva di un’unificazione possibile delle diverse linee di pensiero e valoriali, attraverso processi di apprendimento in “scenari sperimentali”.  Ciò avviene grazie agli esperti (che sono anche educatori), capaci di vedere le cose da punti di vista meno ristretti e vincolanti di svelare la natura parziale delle immagini soggettive e condurre verso la sintesi[39].  Un’idea che è già presente in Geddes che “concepisce l’esperto come evocatore, come soggetto che è in grado di svelare un ordine già insito nel processo, un ordine essenzialmente naturale e di accedere alla verità riunificando diversi punti di vista, saperi parziali”[40].
Quindi la conoscenza trova la sua radice nella pratica ed è sempre “vivente”, specifica, concreta e rivolta al piano.



4.0.2.2- Pianificazione e Dominio Pubblico.

In Pianificazione e Dominio Pubblico tutto questo complesso programma viene specificato e dispiegato: obiettivo è il cambiamento della stessa vita quotidiana e delle basi organizzative dell’esistenza, secondo gli scopi di fondo di rendere equo l’accesso alle basi del potere; cioè, con le parole di Balducci, “affermare la sovranità popolare a tutti i livelli territoriali subordinando lo stato e l’economia alle esigenze della comunità politica”[41].  Quindi “disconnettersi dal sistema dominante delle relazioni di mercato sostituendogli un ricco mix di obiettivi di sviluppo” e farlo attraverso “azioni autoaffidanti entro ciascuna comunità territoriale”.
Ciò è ricondotto alle “arene” della famiglia, della comunità locale, della “periferia contadina” (il terzo mondo), della “comunità globale” (internazionale in relazione a qualche isolato tema come l’ambiente).   Dove, però, nei paesi occidentali il progetto di trasformazione si ferma al livello locale, salvo che per qualche occasionale scelta che consenta di legare fra loro esperienze separate di movimenti locali.
La “comunità locale” è, dunque, l’ambito della Comunità Politica, essa, secondo la diagnosi  di Friedmann, è stata frantumata dallo spazio economico (senza confini) e dall’articolazione burocratica dello stato.  Ciò porta alla necessità di “domare” lo spazio economico e la mobilità del capitale, riconducendoli sotto il controllo della Comunità Politica, e di mutare gli orientamenti al consumo a livelli comunali verso l’autoproduzione della vita.  Occorre, quindi, estendere lo “spazio politico” e contenere quello “economico”, riportandoli alla stessa scala (metropolitana) indicata in una taglia dimensionale che trova i suoi massimi tra le 100.000 e le 250.000 unità di popolazione.
Friedmann si spinge in questa direzione fino a proporre tasse differenziate e vincoli allo spostamento delle imprese.


4.0.2.3- La “Comunità Politica”.

Guardando la cosa da più vicino, con l’ausilio di questo sfondo, e focalizzando l’attenzione sul termine centrale di “Comunità Politica”, si può fare un significativo passo avanti nella comprensione della teoria di Friedmann.  Esse, anche nella sua opera più recente, hanno quattro caratteristiche essenziali: “il loro potere si estende su una data base territoriale, godono di continuità storica, si compongono di cittadini - membri, sono parte di un insieme di comunità tra le quali si condivide una cittadinanza”[42].  Una “comunità politica” è in qualche modo una sorta di “sistema di ordine politico” che implica “l’autoproduzione collettiva della vita e la rivendicazione da parte dello stato di un terreno politico”[43].  Una simile comunità si definisce “genuina”.
In opposizione a una concezione “monadica” dell’individuo, propria dei libertari e dell’antropologia del liberalismo classico (è citato Hobbes), Friedmann afferma la dipendenza di ognuno dall’aiuto degli altri, “siamo nati in famiglie, comunità, clan, tribù che hanno una loro struttura preesistente, una loro coerenza normativa, una loro storia”[44], e da un lungo processo evolutivo che porta ad apprendere “le regole di una condotta sociale condivisa” (Piaget).  Le fonti della socialità sono, quindi, la “manipolazione del mondo materiale” (cioè il lavoro) e l’interazione simbolica mediata dal linguaggio, ma anche la politica, che “viene definita dall’appartenenza ad una comunità politica”.
All’origine dell’idea di “Comunità Politica” viene citato il modello della Repubblica di Platone “la prima comunità ideale [che] fu una creazione della polis e costituì una scoperta notevole”[45].  Ciò conduce alla necessità di un “Dominio Pubblico”, inteso come “una sfera di interessi e discorsi comuni” e, più oltre, della “rinascita di un attivismo politico che rimuova l’iniziativa politica dallo stato ricentrandola sulla società civile cui a pieno titolo appartiene. Chiamo ciò ripresa della comunità politica”[46].
Viene comunque riconosciuto che il problema ha natura politica e consiste nel “ricostruire la via di ogni giorno”.  Riprendendo motivi anarchici Friedmann afferma, in questo contesto, che “si tratta di spostare l’asse dell’accumulazione di potere nella società dalla verticale, che riconnette allo stato il dominio delle corporazioni economiche, all’orizzontale, che riporta la società civile alla comunità politica. ... Al di sopra del livello della famiglia, la comunità politica assume la forma specifica di libere associazioni politiche che, quando si riuniscono in assemblea, possono affermare di esprimere la volontà sovrana del popolo in materia di questioni comuni. Questo desiderio universale di autonoma vita politica nasce dall’interno di un gruppo di persone che, abitando lo stesso spazio fisico, si attribuiscono il potere di rappresentare l’unica fonte legittima in quello spazio”[47].  Una frase di grande interesse e densità che presenta, abbastanza chiaramente, un’idea della legittimazione democratica di stampo assembleare e plebiscitario, consensualista e organica in senso spaziale.

Un’idea che, secondo il modo di vedere di chi scrive, appare troppo indifferenziata e “volontaristica” per poter costruire la base di una credibile teoria dell’azione (urbanistica) capace di affrontare i nodi di sapere e potere concretamente presenti davanti a noi.

I riferimenti espliciti di tale idea sono, comunque, Hannah Arendt di La condizione umana e Aristotele della Politica, ma anche Rousseau in Il contratto sociale.  In particolare da Rousseau si riprende solo il suggerimento di “un sistema politico radicato nella capacità di riunire tutta la popolazione a un qualche livello di governo, si tratti di vicinato, villaggio, o cittadina” mentre si afferma che “forme rappresentative di governo portano inevitabilmente a una tirannia delle minoranze”[48].
Da questa affermazione, passando per il riconoscimento che alle scale più elevate permangono differenze di classe, sesso, etnia, ecc, Friedmann arriva a criticare le “innaturali” divisioni della vita imposte dal capitalismo e ad indicare nel Comune Urbano la “classica comunità politica”.  Ciò significa che “una data comunità politica estenderà il suo dominio su uno spazio vitale che è, in ogni caso, un’area fisicamente delimitata”[49].
Emerge, quindi, la già citata tesi della necessità di una “separazione selettiva delle comunità territoriali dall’economia di mercato”[50].


4.0.3- Alcune linee di critica al comunitarismo in urbanistica.

Su tale programma si possono rilevare sia le critiche di Mazza che quelle di SerniniIn Terre sconfinate. Città limiti localismo, Sernini accusa gli elementi volontaristici e utopistici, evidentemente presenti nella proposta di Friedmann, di spingere il discorso fuori dei limiti di una teoria del piano verso una “teoria generale dell’obbligazione politica e della società”.  Il modello di Friedmann, con la sua enfasi sulla piccola comunità territoriale autogestita, “è americano sia nell’antistatalismo convinto e di princìpio, sia nell’insediamento territoriale di riferimento; la proposta è di radicalesimo solidaristico comunitario e di self-help anzichè di piano“[51].  Una proposta orfana delle Grandi Narrazioni marxiste e che fa uso di “forzature improvvise, coltivazione esclusiva dei localismi, riduzione della dimensione insediativa e totali cambiamenti volontaristici del modo di vivere”[52].

Frettolosa, ma significativa di un ricorrente fraintendimento, appare anche la voglia di Sernini (ma anche dello stesso Friedmann) di arruolare Habermas come teorico del localismo o dello “sviluppo locale autocentrato”.  Non è difficile, come abbiamo visto nel Terzo Percorso, citare frasi nelle quali il teorico tedesco prende le distanze da un’idea così concretistica e indifferenziata di sviluppo e di potere.  In Fatti e Norme, ad esempio, e nel contesto di una discussione proprio su Hannah Arendt, troviamo la seguente affermazione: “la politica non può coincidere completamente con la prassi di coloro che conversano tra loro per agire in maniera politicamente autonoma.  Esercitare l’autonomia politica significa formare discorsivamente una volontà comune, non ancora dare implementazione alle leggi che ne derivano.  E’ giusto che un concetto ampio di politica includa anche l’impiego del potere amministrativo dentro il sistema politico nonché la competizione che è necessaria per entrare questo sistema. 
La costituzione di un codice potere implica che, nell’emettere decisioni vincolanti per tutti, il sistema amministrativo sia sempre controllato e diretto da autorizzazioni giuridiche.  Propongo perciò di considerare il diritto come il medium attraverso cui il potere comunicativo si converte in potere amministrativo”[53].
E, poco più avanti, “l’idea dello stato di diritto illumina semplicemente l’aspetto politico dell’equilibrio che deve instaurarsi tra le tre forze principali integranti la società nel suo insieme: denaro, potere amministrativo, solidarietà”[54].  Dove, come si può vedere, tutte e tre sono qualificate come forze integranti e devono essere in equilibrio.

Lasciando per ora a questo punto insoddisfacente la discussione su queste importanti questioni, rivolgiamoci ad approfondire la comprensione del paradigma in oggetto osservandone qualche recezione italiana.

4.0.4- Recezioni italiane: il paradigma “territorialista”

In una rilevante proposta italiana che rilegge questo programma si annuncia la “ricerca di una nuova patria”[55], affermando la centralità del concetto di rinascita dei luoghi.  Si legge, in quello che è sicuramente una sorta di manifesto programmatico: “il concetto di abitare cattura le dimensioni peculiari del locale: la concretezza, la disponibilità”[56], e alcuni “primi elementi” come “l’attenzione per la specificità dei luoghi, la rinnovata considerazione dell’equilibrio e della proporzione degli insediamenti, il riconoscimento del nesso fra luogo e culture insediate, la rivitalizzazione di ambiti sociali intermedi (fra la famiglia e la società) e delle loro espressioni territoriali, e infine un atteggiamento di collaborazione e non di dominio nei confronti della natura”[57].

In altre parole, il problema sembra nascere dalla circostanza che nella teoria è presente una domanda non banale circa gli scopi dell’azione comune sul territorio, che problematizza un livello dei beni fondamentali, intorno ai quali costruire le politiche e le azioni progettuali, ma anche la ricerca di una risposta univoca a tale domanda.  Se la prima cosa è di fondamentale interesse, e rilevanza, la seconda passa il segno; o meglio rappresenta il contributo specifico di un attore (l’urbanista) da porre ad un diverso livello di “pretesa di verità”.  Occorre, infatti, che su tali cose l’accordo sia fondato su un consenso veramente “generato pubblicamente ed in comune[58].  Esso non può essere anticipato nella teoria, perlomeno non allo stesso livello.
Una parte del problema è, dunque, l’idea di consenso e la sua mobilitazione nell’azione, intorno ad un’ipotesi sostanziale già anticipata nella teoria.  Il consenso degli abitanti è letto come conferma della bontà dell’azione promossa e suo risultato, in qualche modo, principale.  Per certi aspetti l’impostazione citata sembra ipnotizzata dalla ricerca del consenso, e dagli effetti di sua costruzione, che si possono dare nell’azione urbanistica stessa.  Viceversa il consenso sembra, a chi scrive, meglio descritto dalle parole di Crosta, ad esempio quando lo definisce: “epifenomeno di un’attività diffusa che vede impegnati tutti gli attori nella produzione di quadri di significato, entro cui - quando risultino condivisi - sono continuamente negoziabili e rinegoziabili problemi e soluzioni, obiettivi e mezzi”[59].  Ciò riporta al centro della scena i dubbi sulla possibilità di guidare un simile processo[60].
Pur se nel segno di un’elevata indeterminazione sembra di vedere, cioè, in alcune accellerazioni del paradigma in oggetto il rischio di una posizione “da maestro” che “apre gli occhi” alla società intesa come un macrosoggetto[61]
Ciò riprodurrebbe la mossa tradizionale di criticare la società reale alla luce di una «società ideale» di cui si possiede la descrizione.  Il problema nasce, in altre parole, nel momento in cui si sviluppa l’idea metodica della “ricostruzione” fino a “prefigurare la totalità di una forma di vita riconciliata e [fino a] proiettarla nel futuro come un’utopia”[62].

Enfatizzare i rapporti, anche negoziali, entro l’ ”attività diffusa” che (eventualmente) genera il consenso porta, invece, lungo strade diverse che percorreremo.  Prima di farlo, però, conviene sottolineare come ciò non significhi che sempre il più forte (come posizione nel mercato) vince.  Talvolta esso viene imbrigliato dall’azione congiunta di attese generalizzate di comportamento e di attiva mobilitazione dei più deboli.  Detto con le parole di Crosta: “nel negoziato non si traducono meccanicamente i rapporti di potere (essi tra l’altro si trasformano)”[63].  Come ciò avvenga è quanto cercheremo di mostrare, sia pure in parte.  A questo scopo interpreteremo il sistema d’interazione, che stiamo cercando di concettualizzare, come sistema di interdipendenza[64] multipla e senza soggetto centrale. 
Aspetto cruciale, in questa direzione, non è più il consenso (senza il quale non si darebbe azione legittima) ma l’insorgenza dell’azione stessa, per una varietà di meccanismi di volta in volta da valutare.  Il consenso è un’eventualità (quasi sempre desiderabile) che può darsi in modo frammentato e fluido, strettamente intrecciato a modalità di regolazione dell’interazione meno nobili ma non meno efficaci. 
La qualità dell’azione (e la sua legittimità) è allora da ricercare nelle caratteristiche dell’intreccio, più che nella sola ampiezza dell’area di consenso. 


4.0.4.1- “Socializzazione” e “individualizzazione”

Più approfonditamente mi sembra che alcune instabilità del paradigma nascano da come il termine “socialità” è pensato ed esplicitato.  La socializzazione è un processo originario irriducibile e che non si può non dare; per cui si intende, in modo abbreviato, discutere la qualità di profili di individualizzazione e socializzazione a rete troppo limitata (in termini affettivi, di assunzione di responsabilità, reti di solidarietà, percezione del sé, etc...) o non sufficientemente ancorati al “centro” della personalità.  Si tratta di un’impostazione sicuramente importante, sia pure nell’elevata complessità e frequente ambiguità che la contraddistingue.

Però un’ambiguità di fondo lascia, mi sembra, il suo segno in questo modo di porre la questione.  Il “luogo”, inteso come totalità socioculturale nella quale si potrebbe dire “si sta”, rischia sempre qui di essere inteso nel senso della premodernità.  Non è il caso di tratteggiare tale senso in modo compiuto, ma si può dire che si tratta dell’essere, sin dall’inizio ed in modo non evadibile, preso in una rete di consuetudini aventi forza normativa, vincolante ma irriflessa. 
In un certo senso questo atteggiamento verso il mondo “tradizionale” manca proprio di identità (almeno nel senso dell’identità personale) in quanto l’individuo non è sufficientemente distinto dal suo ambiente.  Persino Tönnies aveva presente il punto quando definiva scarsamente individualizzato il soggetto nella “comunità”.  Già Durkheim, inoltre, ha messo in evidenza come intercorra una relazione tra differenziazione sociale (divisione del lavoro) e individualizzazione del singolo.  La mancata procedura di sospensione dei ruoli, e delle attese di comportamento degli altri nei nostri confronti, infatti, impedisce il processo di individualizzazione modernamente inteso (Mead).  Ora, tale possibilità (di sospendere le aspettative e criticarle) si può determinare proprio quando sorgono aspettative confliggenti.  Cioè quando si attraversano territori diversi e si incontra l’altro da sè.  Tale possibilità è propria della modernità.
In termini generali, è sicuramente vero che tale possibilità si dà solo nella relazione, in una relazione linguisticamente mediata con l’altro, ma in una relazione che passa per la comunicazione in reti di significati e ruoli condivisi dai quali progressivamente affrancarsi
Del resto nessuno può, pur liberandosi da particolari contesti di vita, uscire dalla società in generale e insediarsi in uno spazio di assoluta libertà (nel senso di solitudine).  Occorre sempre sia sostenuto da qualche riferimento ad un mondo di significati ed attese di comportamento, per quanto astratto ed ampio.  Grazie a tale considerazione non si tratta, quindi, neppure di considerare possibile l’idea dell’uomo “atomistico” del liberalismo classico, contro il quale giustamente si esprime Friedmann.

Il dilemma si potrebbe porre in questi termini: se anche il radicamento organico è segno di eterotomia e non è desiderabile, non è possibile che lungo la strada della creazione di una personalità post-convenzionale si possa incontrare (per eccesso di ampiezza e molteplicità) l’anonimia e l’indifferenziazione?  Questa sembra la tesi (peraltro molto tradizionale) contenuta in attributi della “surmodernità” come “eccesso di tempo, di spazio, e di individualità” (Augé).
Anche se ciò è sicuramente possibile, il desiderio di essere “qualcosa di più di una serie di bisogni e di ruoli che esprimo al supermercato o mentre guardo la televisione, mentre decido se comprare una merce o cambiare un programma” (Touraine), ha veramente a che vedere con l’essere radicato in un luogo? Se luogo significa “comunità” e “terra”, legame biunivoco tra un popolo e un territorio si potrebbe dire che il rischio della surmodernità si supera attraverso un ritorno alla modernità e non alla premodernità.  Voglio dire: nel legame organico con un luogo ed una comunità io sono una serie di bisogni e ruoli; si inceppa il processo di individualizzazione che prima di ogni altra cosa è autonomia.

La cosa si può dire con le parole di Habermas: “le prestazioni proprie addossate ai soggetti consistono qui in qualcosa di diverso dalla scelta razionale regolata dalle proprie preferenze; ciò che essi devono compiere è un tipo di autoriflessione morale ed esistentiva che non è possibile, senza che uno assuma le prospettive dell’altro.  Solo così si può stabilire un nuovo tipo di congiungimento sociale fra i singoli individualizzati.  Gli interessati devono produrre le proprie forme di vita socialmente integrate, nell’atto di riconoscersi reciprocamente come soggetti capaci di agire autonomamente e inoltre come soggetti che si fanno garanti della continuità della propria biografia assunta responsabilmente”[65].
Anche se tale processo è rischioso, l’alternativa è il ricadere in forme di identità convenzionale che avrebbero il sapore della struttura di ruoli eterodiretta propria della premodernità.


4.0.4.2- Identità e “abitare”

L’identità nasce, in altre parole, dal rapporto con i simili (cui diventare tali) e con i diversi, cioè nasce quando io posso scegliere, e debbo farlo, tra alternative confliggenti.  In questo senso l’idea che l’identità è relazionale, nel senso che nasce nel proprio vissuto dal rapporto che il singolo costruisce con i siti e con gli altri soggetti che li vivono, è troppo rischiosa e indifferenziata.  Richiama, effettivamente, ma in modo troppo abbreviato, i toni dell’alta riflessione heideggeriana sul concetto di “abitare” (che non ha a che fare con il territorio).  Per il filosofo tedesco, come è noto, “abitare essere posti nella pace vuol dire: rimanere nella protezione entro ciò che ci è parente e che ha cura di ogni cosa nella sua essenza”[66].  Ciò viene, in ultima analisi, ricondotto alla sradicatezza degli uomini che non saprebbero più abitare. 
Questa riflessione sull’abitare (e quella connessa sul “luogo” che limiterebbe lo “spazio”) va collegata, mi sembra, alla tesi sull’impossibilità di uscire dalla precomprensione che costituisce la nostra stessa possibilità di incontrare il mondo (“circolo ermeneutico”).  Detto in modo sintetico l’uomo, in quanto esser-ci, è sempre gettato nel mondo e vi accede non solo grazie ad una facoltà della ragione (kantianamente) ma attraverso “comprensione”, “interpretazione”, “discorso (e linguaggio)”, “situazione affettiva”.  Cioè in un progetto sempre “qualificato”, “tendenzioso”.
L’«abitare» è una descrizione di questa condizione dell’uomo, preso in un “rimanere nella protezione di ciò che ci è parente”, e nella tensione al “costruire”, al “progettare”. 
Detto con la necessaria sintesi, il punto è che se si lascia cadere la seconda parte, il “pensare” ed il “costruire” il progetto ermeneutico di Heidegger viene ridotto a solo tradizionalismo (pure presente).

In definitiva, la ricerca di un modello insediativo di tipo non gerarchico, policentrico, le cui unità sociali sono le cosiddette «comunità intenzionali» o «comunità di abitanti» mi sembra confermi tale interpretazione.  La ricerca vira subito, con una caratteristica riduzione disciplinare le cui radici sono illustrate nelle pagine precedenti, verso la “terra”. 
La produzione di senso comune, l’apprendimento collettivo dei bisogni è ricondotto ad un rapporto più organico con le radici di senso, in grado di opporsi alle tendenze valorizzanti, in senso economico, dell’attuale modalità di sviluppo.  Il processo di interazione sociale ha un centro sostantivo, una Verità da scoprire (siamo esseri “insediati”).


4.0.4.3- Excursus: “Liberali” e “comunitari”

In definitiva si può certamente dire che l’intreccio di tradizioni e motivazioni dell’interessante paradigma in discussione è molto ampio.  Tra le più affascinanti quelle che potrebbero condurlo ad un confronto con l’ampio dibattito tra “liberali” e “comunitari” che ha interessato soprattutto l’ambiente americano[67]

Si tratta di una grande varietà di posizioni che si sono opposte alla proposta di John Rawls di costruire una Teoria della Giustizia sulla base di una ripresa del programma contrattualista e di un’antropologia liberale.  Vengono criticati in particolare l’inadeguatezza della concezione del sé liberale, l’insostenibilità della pretesa “neutralità” della Giustizia rispetto ai divergenti piani di vita degli individui, l’imputazione di “diritti” agli individui e la costruzione, su questa base, di una filosofia politica giudicata inadeguata.  Si afferma che ciò su cui bisogna costruire la società non è un’astratta concezione del Giusto, ma la virtù di derivazione aristotelica dell’amicizia.  Quindi, “una società buona è quella in cui ciascuno si riconosce con ciascun altro nella condivisione di una comune appartenenza a una forma di vita, a una tradizione, a una concezione del bene”[68].
Per poter comprendere questa posizione è, quindi, indispensabile fare qualche cenno alla proposta di Rawls; egli costruisce una teoria piuttosto complessa sulla base della prevalenza del concetto di Giustizia, facendo leva sul quale sottrarre alle negoziazioni ed alle procedure di aggregazione degli interessi e delle volontà un insieme di diritti fondamentali delle persone.  Si tratta di una sorta di mossa “costituzionale” che individua una piccola serie (due) di Princìpi, ordinati per importanza, e propone di identificare una lista di «Beni Principali», in grado di implicare una certa distribuzione di costi e benefici, oneri e onori, risorse, diritti ed opportunità.  Grazie all’applicazione dei Princìpi di Giustizia alla Struttura Fondamentale della Società, si argomenta, si potrà generare una stabile ed equa cooperazione sociale (cioè una “Società Bene Ordinata”).
I Princìpi di Giustizia da selezionare sono quelli che sarebbero scelti unanimemente in un’opportuna situazione di scelta che Rawls descrive come “Posizione Originaria” sotto “velo di ignoranza”.  Cioè, nella scelta che un’assemblea di individui, razionali ed egoistici, farebbe, senza conoscere il proprio specifico ruolo e posizione, ma dovendo organizzare i princìpi fondamentali sulla base dei quali costruire una società nella quale avranno parte. 
Senza entrare nei particolari della concezione presentata nel 1971 da Rawls[69], i punti di attacco che saranno proposti da diverse parti[70] si concentreranno sulla priorità del “Giusto” sul “buono”, sottolineando l’importanza di uno spazio relazionale costitutivo che la teoria liberale rimuoverebbe.  Nella “Società Giusta”, si argomenta, si vivono vite separate e reciprocamente indifferenti, nella “Comunità” non ci si può separare dai coinvolgimenti contestuali nei quali si è collocati; non vale la distanza (della Ragione) ma la vicinanza tra persone concrete, non si incontrano estranei ma affini, gli impegni con gli altri non sono valutati e scelti (eventualmente) ma semplicemente riconosciuti.
La comunità è uno spazio costitutivo, nel senso che è uno spazio di orientamenti morali (o, per meglio dire, etici) ineludibili, ma anche di pratiche concrete dalla cui “densità” è impossibile e indesiderabile districarsi.  Il punto non è garantire indipendenza alle persone ed imputargli diritti inalienabili (Rawls e Nozick) ma “avvolgerle in una rete di impegni e contesti che rendano inservibile la nozione stessa di persona indipendente, e non solo nel senso in cui l’indipendenza riguardi l’esistenza separata di ciascuno rispetto ad altri, ma anche per quel che riguarda l’indipendenza di ognuno rispetto a parti di sé, a interessi, ideali, tratti caratteriali e biografici, lealtà e orientamenti contestualmente determinati”[71].  Rovesciando la prospettiva di Rawls (e di Habermas) Sandel, ad esempio, dice che una persona libera da vincoli che non siano stati da lei scelti, perchè definita prima di ciascun vicolo, non è credibile, è «unencumbered» cioè “disincarnata e volatile”.
La risposta di Rawls a questa importante obiezione è che quella della sua teoria non è la persona completa e reale ma un profilo della sua parte pubblica, ovvero l’insieme degli impegni che assume un proprio “profilo pubblico” (con doveri e privilegi) senza fare riferimento alle specificità che ne fanno un essere individuale ed irripetibile (o contestuale e immerso in una rete di solidarietà concrete).
Il comunitarismo nega che ciò sia possibile e desiderabile. Essere qualcuno significa essere immersi in un contesto che implica valutazioni e attitudini ineludibili, del quale bisogna solo divenire consapevoli.  Sottoporlo a critica (come vorrebbe anche Habermas) significa cambiare chi si è. 
In questa direzione un secondo tema, ma strettamente connesso al primo, e necessario per qualificare la proposta, è quello di ciò che Charles Taylor  chiama l’«io posizionale» e che descrive in questo modo: stabilito che fare a meno dei quadri di riferimento è impossibile, la risposta alla domanda «chi sono io?» prende una forma caratteristica: bisogna riconoscere che “sapere chi sono vuol dire in un certo senso capire dove sono.  La mia identità è definita dagli impegni e dalle identificazioni che costituiscono il quadro o l’orizzonte entro il quale posso cercare di stabilire, caso per caso, che cosa è buono o apprezzabile, che cosa devo fare, che cosa devo avversare o sottoscrivere.  In altre parole, è l’orizzonte entro il quale mi è possibile assumere una posizione”[72].  Cioè, puoi dire chi sei solo se sai orientarti nello “spazio all’interno del quale nasce il problema di stabilire che cosa sia bene e che cosa male, che cosa meriti di venir fatto e cosa no, che cosa abbia significato e importanza e che cosa sia, invece, insignificante e futile”[73].
Il punto è che tale decisione non è, però, qualcosa che un altro possa fare in vece mia; non è qualcosa per fare la quale basti “vedere bene” o “ben calcolare” anche in base a “Giustizia”.  Da ciò deriva l’impossibilità stessa di chiedersi che cosa sia una persona facendo astrazione dalle sue concrete autointerpretazioni; porre la stessa domanda in questi termini è, secondo Taylor, fuorviante perché esclude in partenza il punto di vista dal quale, solo, si può trovare la risposta (ma anche la stessa domanda).  Ovviamente farlo è effetto di un pregiudizio scientista (o, come dice Taylor, “naturalista”).  Tale pregiudizio afferma almeno quattro tesi la cui rilevanza è considerata, in modo implausibile[74], assolutamente generale:
“1. L’oggetto di studio va preso in un senso ‘assoluto’, cioè così com’è in se stesso, facendo astrazione dal significato che ha per noi e per qualsiasi altro soggetto (va, cioè, considerato ‘oggettivamente’).
2. L’oggetto è ciò che è indipendentemente da tutte le descrizioni e le interpretazioni che ne danno i soggetti.
3. In via di princìpio, l’oggetto può essere racchiuso in una descrizione esplicita.
4. In via di princìpio, l’oggetto può essere descritto senza fare riferimento a ciò che lo circonda”[75].

Ma, se ciò si potrebbe, in modo eccessivamente idealizzato, applicare allo studio degli oggetti inanimati, per scopi strumentali di controllo sugli stessi, non appare un modello sensato nel caso di ciò che inanimato non è.  Di ciò che reagisce alle nostre azioni, ha innumerevoli tendenze e direzioni di sviluppo evolutivo proprie, vuole controllare da sé il proprio destino.
Tenere ben presente la necessità di rendere percepibile tale orizzonte di senso, e tale senso della posizione, letta dal punto di vista interno, indebolisce il rischio di rimuovere quelle che si potrebbero chiamare le “capacità antropologicamente più sottili e delicate del vivere nell’ambiente” in seguito, ad esempio, ad una riduzione classificante dall’alto.  Non è altrettanto efficace, però, nei confronti del rischio dell’estetismo e/o dello storicismo che, sia pure in modo illegittimo, potrebbe forse essere ritradotto in questo vocabolario. 
A rendere più difficile il cadere in questa riduzione arriva un altro punto qualificante la proposta teorica che qui si riporta: l’”essere in movimento” dell’identità e della narrazione di questa che, a tale punto, si rende necessaria.  La parte più interessante della proposta di Taylor (e che rappresenta anche una risposta a molte delle perplessità che questo testo avanza nei confronti dell’impostazione “comunitaria”) è che il rapporto con i luoghi e con le culture, cioè con le “comunità”, non può essere più interpretato in base a caratteristiche universali primomoderne[76], nè in riferimento alla loro «physis» e «kratos», metafisicamente intese, secondo l’impostazione pre-moderna, resta l’interessante direzione aperta dalla «chinesis» e dalla «relazione» nel suo duplice significato di “relatio” (riferire, esporre, essere in rapporto) e di “ratio” (nesso).
Grazie a simili accentuazioni Taylor si colloca, per così dire, a mezza strada tra Comunitari e Liberali; cioè nel terreno più interessante e fecondo nel quale troviamo anche Habermas.


Questo mi sembra, infatti, il problema focale: se si decide di svolgere la riflessione nella direzione di quell’unità del “carattere” (o dei singoli “caratteri”) che possano orientare altrettanti modelli di sviluppo ed equilibrio, e quindi sotto il segno dell’autenticità (dell’identità), allora il problema è definire la direzione nella quale va la nostra motivazione più profonda, cioè “il nostro impegno di lealtà dominante o i limiti esterni alle nostre possibilità e quindi la direzione in cui si muove, o può muoversi, la nostra esistenza”[77].  Taylor usa qui la parola “muoversi”, in quanto il problema non è mai che cosa siamo ma sempre del divenire nel quale siamo: “il problema per noi è non solo quello di dire dove siamo, ma anche quello di dove andiamo”[78].  E ciò è questione di direzione; ma verso le direzioni si va o non si va, alle mete ci si allontana o ci si avvicina, non si è; in tale senso entra in gioco la questione, cruciale, di dare un’interpretazione narrativa all’identità.
In base a tale impostazione si può dire “che noi progettiamo il nostro futuro a partire dalla percezione di quello che siamo diventati, scegliendo all’interno della gamma delle nostre possibilità attuali”[79].  O, in altre parole, “l’immagine che ho di me stesso è quella di un essere che si muove e diviene, fenomeno che, per sua natura, non può essere istantaneo”[80].
In questo senso, e come abbiamo già anticipato, la soluzione migliore che si può ricavare dalla lettura di questa importante letteratura, mi sembra quella che riconosce come obiettivo la valorizzazione, nel modo più completo possibile, della coerenza e dell’equilibrio di un’identità, letta secondo i propri specifici canoni, ma contemporaneamente quella che agisce in modo tale che la proprietà specifica mostrata dalla soluzione stessa “proietti” una sorta di cogenza esemplare, anche al di là dei limiti contestuali cui, in prima istanza, si riferisce[81].
Cioè che possa essere considerata effettivamente pertinente anche per attori che operano in altri contesti (sia per essi comprensibile e, mutando ciò che c’è da mutare, accettabile).  Questa impostazione permette di orientare la “pretesa di validità” della propria azione e descrizione non solo alle ovvietà condivise di una data cultura ma a ciò che può consentire di unire le culture (“comunità”) in unità di senso di ordine superiore.  Però garantendo questo effetto non dall’alto di categorie e criteri universali (tali cioè da essere, sin dall’inizio, comuni a tutti per la presunta compresenza di qualche livello o carattere “strutturale” al quale le differenze scompaiono, di qualche carattere “invariante”) ma per una dinamica, o un processo, di comprensione reciproca sempre più allargata.  Una comprensione che si appoggia al linguaggio naturale.
Ciò non esprime una forma di relativismo perché si ricerca un metro di giudizio, capace di mettere in scala ordinale descrizioni e scelte.  Tale metro, però, è rappresentato solo “dai termini che, sottoposti al vaglio della riflessione critica e depurati dagli errori, si rivelano capaci di dare il senso più compiuto alla nostra esistenza”[82].  Cioè che sono capaci di “offrire l’orientamento migliore e più realistico in rapporto al bene, ma anche consentire di comprendere meglio le azioni ed i sentimenti morali, nostri ed altrui, e dar loro senso”[83].  Ciò si può ottenere legando strettamente il “linguaggio della deliberazione a quello della valutazione di azioni, sentimenti ed orientamenti al valore”[84].   “Comprendere meglio” e “dare un senso” alle azioni, ai sentimenti ed agli orientamenti di valore, qui significa semplicemente, ma non banalmente, che grazie ai “termini” ricercati possiamo produrre l’enunciazione più chiara e significativa dei problemi che abbiamo davanti.
Termini come «dignità», «coraggio» o «brutalità», per restare agli esempi di Taylor , sono il linguaggio in cui di fatto viviamola nostra vita.  Di essi non possiamo sbarazzarci solo perché “la loro logica non quadra con un certo modello di ‘scienza’ che noi sappiamo a priori costituire il quadro entro il quale gli esseri umani devono trovare spiegazioni”[85].
Tale modo di proporre un uso con minori steccati del linguaggio rappresenta un contributo altamente chiarificatorio del quale faremo tesoro nelle Conclusioni e, soprattutto, nell’Appendice.

Per ora, prima di concludere questa riflessione, descrivendo la proposta più recente ed interessante di riconoscere l’esistenza di una forma argomentativa di tipo narrativo che faccia leva sul metro dell’identità nel senso qui difeso, vale forse la pena cercare di precisare il secondo dei termini richiamati in precedenza quando si è affermata la necessità di un “metro di giudizio”.  La ricerca di un “metro”, capace di legare strettamente “deliberazione” e “valutazione” di “azioni, sentimenti ed orientamenti al valore”, come voleva anche Forester, si collega, chiaramente, ad una centralità del “giudizio pratico”, nella sua forma “riflettente”[86]; un giudizio che, come abbiamo visto nel Terzo Percorso, rimanda all’esercizio contestuale di “immaginazione” e “riflessione”[87] esercitate in un’ambito di “comunicabilità” o “pubblicità”.  In tale senso il segreto è riuscire ad esaminare il dilemma, per il quale mancano criteri orientativi sufficienti, anche dal punto di vista dell’«altro concreto» e di coglierne la logica interna.  Ciò è quanto si può considerare, secondo la massima di Kant, un “riflettere in vista di un concetto reso in tal modo possibile”[88].  In tal senso è fondamentalmente in migliore posizione “chi ha più familiarità con più aspetti del contesto”[89].  Una posizione simile rimanda, come abbiamo visto, all’illustre teorizzazione della “saggezza” o “phronesis” aristotelica.
In base all’uso di questo strumento intellettuale (di cui abbiamo già parlato nel Terzo Percorso) anche quando princìpi condivisi e descrizioni della situazione sono disponibili si tratta sempre, ormai, di princìpi in contesti.  Ciò che bisogna fare, per “giudicare” in base ad essi è esprimere una descrizione della situazione prospetticamente orientata e chiedere su tale azione il consenso.  In tale senso va interpretato anche il princìpio di selezione dell’identità (o “autenticità”) individuato dai teorici di cui stiamo parlando.

Richiamando la proposta di Taylor, secondo cui occorre riferirsi ai “termini che, sottoposti al vaglio della riflessione critica e depurati dagli errori, si rivelano capaci di dare il senso più compiuto alla nostra esistenza”[90], resta da chiarire che significhi, in questo contesto, “depurare dall’errore”: in base a quanto detto è semplicemente calarsi in un processo di esplorazione reciproca, volto a rendere possibile l’enunciazione più chiara e significativa del problema da parte dei parlanti e tale da eliminare confusioni, contraddizioni; da consentire un “franco riconoscimento di ciò che influisce su di noi”[91].
Ciò mi sembra, se capisco bene, un’interessante e condivisibile descrizione di quell’orientamento al “bene comune” che, per molte linee di tendenza contemporanee[92], è parte di ogni ideale di “vita buona” attualmente credibile e sostenibile.

Per concludere, si può affermare, spero con qualche plausibilità, che proporre questa linea di riflessione significa favorire il rafforzamento della “sfera pubblica” e delle associazioni volontarie capaci di stimolare un orientamento verso il “bene comune”, nel quadro di forme di “comunità volute” (e non ascrittive come quelle prefigurate da molti urbanisti) che condividono una certa disponibilità a superarsi, ad incontrare l’altro.  La difficoltà a definire questo “bene comune”, che genera la stessa “comunità”, in senso non ascrittivo (per nascita) o metafisico (per adesione alla Verità) è ciò che, nelle parti più sensibili della prospettiva che sto mostrando, muove il tentativo di  fare leva sull’ideale dell’autenticità.  Detto con le parole, che citeremo più volte, di  Ferrara: “quando il vivere una buona vita non può più essere concepito come l’approssimarsi, all’interno della propria esistenza, ad un modello canonico della ‘migliore vita per un essere umano’, il solo modo che rimane per pensare questa nozione è concepire la buona vita come la vita in cui ciò che è tipico della mia personalità è espresso in una forma esemplare che diventa pertinente ed illuminante anche per altri”[93].
In questo senso mi sembra chiaro che la cosa determinate, che andrebbe messa in evidenza, è l’inutilizzabilità dei punti di vista archimedei esterni (cioè di quei punti di vista che funzionano neutralizzando il singolo soggetto con i suoi valori, il suo telos e tutto quanto detto fino ad ora) propri, tra l’altro, delle impostazioni scientiste classiche; quel che bisogna fare è, al contrario, mettersi nelle condizioni di avere[94] familiarità con più elementi possibili del contesto e cercare di comprendere un fenomeno proprio nella sua singolarità.
Tale posizione comporta, detto in un altro linguaggio, la necessità di mirare ad una “’cultura’ della tradizione, nel senso letterale della parola, a uno sviluppo e a una continuazione di ciò che noi riconosciamo come il legame concreto fra noi tutti”[95].
In un certo senso, ciò potrebbe essere visto come il compito cui si appresta uno scrittore che fosse venuto in possesso di un romanzo incompiuto, e al quale venisse chiesto un Percorso aggiuntivo.  Egli, per poter tracciare una credibile continuazione, dovrebbe naturalmente cercare di immergersi nella trama per comprenderne il “tessuto interno” nel senso di tutte le distinzioni cruciali, dei valori di fondo e delle opposizioni ai disvalori, riconosciuti come tali dall’opera; solo dopo aver fatto ciò progettare un Percorso che la rispetti meglio nei suoi propri termini[96].

Si genera, in altre parole, grazie a tale delicata mossa interpretativa la possibilità di confrontare tra di loro due “continuazioni” non sulla base di qualche punto di riferimento esterno, cioè di un criterio metafisicamente inteso, ma in funzione della normatività interna espressa proprio dalla direzione nella quale “scorre meglio” il racconto.

Nell’approccio comunitario, soprattutto nelle più recenti varianti “repubblicane”, c’è, dunque, molto di interessante.  Esso rappresenta la messa in evidenza di dimensioni dimenticate che non possono restare tali.
Tuttavia ad una lettura frettolosa, o troppo di parte, si presentano anche dei rischi.  Come abbiamo già detto è evidente quello di interpretare metafisicamente la comunità stessa o di ricadere nel tradizionalismo, interpretandola normativamente. 


4.0.4.4- Un esempio: la posizione di Giusti

In senso proprio, quindi, l’identificazione con un approccio “comunitario” nel senso stretto del dibattito filosofico, non può essere espressa se non con grande prudenza.  Infatti non mi sembra di aver mai rilevato citazioni dirette a qualche autore chiaramente comunitario.
Il “manifesto” italiano dell’approccio “territorialista” va in stampa nel 1990, in quella data le principali opere “comunitarie” sono già pubblicate in inglese[97] ma arrivano tardi le traduzioni italiane[98] e la famosa raccolta di Alessandro Ferrara è del 1992.  Infatti, nel testo di Magnaghi “Per una nuova carta urbanistica” sono citati : Cacciari, Lovelock, Krier L., Emanuel, Ruffolo, Virilio, Bateson, Meadows, O’Connor, Hirsh, Habermas, Sachs, Offe, Dodge, Berg, Cunha, Altieri, Vernetti, Irigary, Bassanini, Heidegger, La Cecla, Borachia, Tosi, Paolillo, Moretti, Damiani, Brown, Lovins, Sini, Raffestin, Kropotkin, Friedmann, Ratto, Bocchi, Ceruti, Morin.  I filosofi non sono dunque molti, e tra questi nessuno che si occupi principalmente di etica (salvo Offe e l’Habermas “pre-etico” della “Crisi di razionalità nel capitalismo maturo”).  L’orizzonte sembra per lo più indirizzato a questioni epistemologiche ed ecologiche. 
I riferimenti del solo Giusti, invece, (nel suo interessante “Locale, territorio, comunità, appunti per un glossario”) sono: Ardigò, Atlan, Bagnasco, Baldeschi, Busino, Butera, Catelli, Guidicini, Conti, Crosta, Cusmano, Dematteis, Duput, Durand, Eisenstadt, Elia, Martinelli, Farinelli, Formenti, Galtung, Garofoli, Geroldi, Gasparini, Fatti, Habermas (Teoria dell’agire comunicativo), Hartshone, Hirsh, Husserl, Illich, Inglehart, Isnard, Jammer, Jantsch, Lacoste, Lanternari, Magnaghi, Maturana, Varela, Mela, Momigliano, Morin, Norberg-Schulz, Offe, Parson, Pieretti, Polany, Pollini, Raffestin, Roncayolo, Ruffolo, Sachs I., Sachs W., Scivoletto, Sernini, Strassoldo, Tonnies.  Dove i più citati sono: Bagnasco (4), Sachs (3), Polany (3), Dematteis (2), Illich (2), Offe (2), Ruffolo (2).  Pertinente allo sfondo in oggetto sembra solo la citazione di Habermas, anche se ai tempi della “Teoria...” (1981 in tedesco) il dibattito “comunitario” non era ancora sorto, che si trova nel contesto di una distinzione tra “comunità” e “società”. 


Giusti definisce “comunità” come l’effetto della “maturazione da parte del gruppo di una specifica identità, l’acquisizione di un elevato senso di appartenenza, la formazione di rapporti di solidarietà”[99] e “società”, “il gruppo sociale che si riconosce ed interagisce secondo logiche economiche (in senso lato), strutturate intorno ad un contratto sociale (Tönnies, 1963)”[100] e richiama subito dopo Habermas nel seguente modo : “se la modernizzazione sociale è caratterizzata da modalità di integrazione sistemica tali da configurarsi come colonizzazione dei mondi vitali da parte dei sottosistemi funzionali (Habermas, 1986), la condizione - in senso lato - postmoderna (o, se questo termine disturba, «altermoderna»; insomma l’ambito del gruppo sociale riferito al mondo - della - vita, che resiste alla modernizzazione e persegue logiche di sviluppo eterodosse) è caratterizzata dalla rivalutazione dell’ambito comunitario, e contemporaneamente dalla sua ridefinizione”[101].

Si presenta, in tale modo, un lettura ridotta di Habermas sulla quale ritornerò, ma vediamo prima come Giusti continua: riconosce subito che la centralità della comunità «postmoderna» è un’opzione politica, ideologica, e la descrive come la valorizzazione della dimensione della “configurazione organica, informale, personale anzichè funzionale dei rapporti”, un “luogo” dove si possono esprimere meglio la “valorizzazione delle differenze, diffusione delle opportunità politiche, apertura comunicativa, reversibilità del potere, ...” cose che, a parere dell’autore, “definiscono un concetto diverso da quello tradizionale di comunità, intesa come gruppo sociale che paga la sua forte identità e il suo estremo equilibrio sociale e biologico con una struttura politica oggi evidentemente inaccettabile”[102].  Si ricercano, quindi, strutture di “identità collettiva, nella società ‘postmoderna’, che facciano riferimento alla concretezza, alla materialità e alla quotidianità di piccoli ambiti di riferimento, luoghi sociali regolati da valori primari e non informati dall’indifferenziazione metropolitana del villaggio globale.”  Questo mi sembra un punto rilevante: si fa riferimento, come anche in Friedmann, alla “materialità e quotidianità di piccoli ambiti”. 
Nel seguito il “riconoscimento di interessi comuni”, da parte della comunità, è ricondotto alla “relativa omogeneità caratteristica della cultura locale, [che] consente di perseguire questi interessi attraverso il ricorso a risorse locali[103].  La “comunità locale” è, infatti, definita come “l’ambito del mondo vitale, il gruppo sociale in cui l’omogeneità culturale, e d’altra parte l’essere campo delle operazioni ‘precategoriali’ dei soggetti concreti (Husserl, 1961), permettono l’adozione di una progettualità immanente: spontanea, implicita, recursiva e non esplicitamente (o costitutivamente) fondata, e pressoché esclusivamente autoriferita” la “società locale“ è, al contrario, interpretata come “la somma delle comunità fra loro cooperanti”[104].  In questo contesto di confronto emergono ulteriori specificazioni: la comunità è letta come “l’ambito in cui è automatica l’espressione dei valori conviviali” mentre la “società locale è semmai il luogo della sperimentazione dell’iniezione di valori solidaristici nella logica economica, anche attraverso il tentativo di individuare esplicitamente un interesse generale comune che tendenzialmente regoli e componga l’insieme dei percorsi progettuali specifici delle comunità”[105].  Viene anche citato esplicitamente il riferimento alla dimensione territoriale “intesa come strutturazione attiva ...  del luogo concreto che rappresenta la geografia di vita del soggetto, che solo così nella società tardo moderna ritrova ‘una propria identità, riscoprendo le sue radici e la sua territorialità’ (Mela, 1983)”[106].

Venendo agli elementi di critica che possono essere rilevati nella posizione di Giusti, e nel suo uso delle fonti, leggendola sullo sfondo del dibattito tra comunitari e liberali, si può sottolineare come l’insieme oscilli tra una posizione politica e costruttiva (antimetafisica) ed una essenzialistica (rivolta, cioè, a rilevare una “presenza” vera ad un livello “più fondamentale”) di taglio fenomenologico.  Effettivamente mi sembra di vedere all’opera alcuni degli sfondi culturali sui quali si è sviluppato il dibattito in oggetto; ma non c’è traccia delle sue distinzioni caratteristiche cui abbiamo fatto cenno e, in primo luogo, della descrizione della posizione liberale (Rawls).
Il “contratto sociale” è citato con riferimento alla posizione di Tönnies, in un testo edito nel 1963 (Comunità e società, Edizioni di Comunità 1963), ma addirittura del 1887.  Sicuramente la posizione comunitaria si oppone alla messa in opera delle “logiche economiche”, in senso molto lato, “strutturate intorno ad un contratto sociale” ma pensa a formulazioni dello stesso molto più recenti.
In questo contesto è richiamato anche Habermas (in una fase in cui al massimo si confrontava con il solo Rawls) citando la famosa tesi della “colonizzazione dei mondi vitali da parte dei sottosistemi funzionali”.  Qui, però, il termine “mondo vitale” è gravemente equivocato, nella direzione caratteristica di riportarlo troppo rapidamente ad un ambito di prossimità territoriale, in quanto la “sfera del mondo della vita” (dizione che usa nella sue tesi di dottorato) è solo la rete dei significati socialmente e irriflessivamente tramandata dalla tradizione attraverso il linguaggio, supporto dell’agire comunicativo ma, contemporaneamente, suo limite.  Essa non è caratterizzata dall’”azione comunicativa” (come dice nella tesi) ma la ostacola rendendola anche possibile. 


4.0.4.4.1- Il “mondo della vita” ed il richiamo ad Habermas: un equivoco.

Vediamo meglio questo punto: in un coordinamento volto all'intesa, per Habermas, si generano comprensioni fondate su un riconoscimento intersoggettivo di pretese di validità criticabili”, basate su convincimenti non coatti Nella prima fase del suo pensiero maturo[107] si può dire che il meccanismo alternativo dell’”agire teleologico” (solo strumentale) ha a che fare con la manipolazione ed é parassitario e distruttivo dei legami sociali comunicativi (comprensioni reciproche di linguaggi, idee, valori ecc...), cioé dei “mondi vitali” senza i quali non si dà società.  Si genera, in effetti, secondo Habermas, una sorta di “colonizzazione del mondo della vita” da parte degli imperativi sistemici e strumentali.
Però il termine “mondo vitale” (lebenswelt) va ben compreso: il mondo vitale” è solo il “supporto” dell'agire comunicativo; per Habermas, infatti, non si può dare in nessun caso una comunicazione che sia rivolta genericamente ad una sorta di uditorio universale, presupponendo una, inesistente, omogeneità di saperi condivisi da tutti (condizione per una corretta ricezione del messaggio)Al contrario una comunicazione orientata all'intendersi è sempre diretta, e proveniente, ad, o da, una specifica “comunità” tale perchè condivide un “mondo vitale”; cioè ad un insieme di individui che condividano un corpus di conoscenze ed interpretazioni, ma non solo, da loro considerate non problematiche[108].  Essi non sono, in altre parole, selezionati per prossimità ma per legami culturali, sia pure impliciti.  “Il mondo vitale è un serbatoio o uno sfondo di certezze ed evidenze non problematizzate ma problematizzabili man mano che diventano rilevanti per una situazione[109].  Esso é costituito da contenuti cognitivi, più o meno complessi, retti dalla impalcatura di concetti del mondo e corrispondenti pretese di validità, presupposti come provvisoriamente aproblematici dagli attori in interazione
Con le parole di Habermas: il mondo vitale immagazzina il lavoro interpretativo svolto dalle generazioni precedenti; esso é il contrappeso conservatore contro il rischio di dissenso che sorge in ogni processo effettivo dell'intendersi[110]Il problema, con riferimento a tale contrappeso conservatore, é che esso appare tendenzialmente impermeabile alla critica e, in tale senso, é di ostacolo allintesa razionale tra gli agenti in modo comunicativo
Se i contesti situazionali bisognosi di accordo vengono, invece, letti alla luce dell'operato interpretativo dei partecipanti - quindi attraverso uno sforzo diretto a una intesa rischiosa proprio perché motivata razionalmente -, e non via riferimento alle ovvietà culturali o alla tradizione dei comportamenti e delle norme, assunte naturalisticamente, allora e solo allora, per Habermas, possiamo attenderci orientamenti all'azione innovativi, condivisi, riflessivi e razionali.

Tale é il processo che genera razionalizzazione sociale, cioè il passaggio da un intendersi imputato normativamente versus una intesa raggiunta in modo comunicativo[111].  Il solo riferimento ad un “mondo vitale” resta nel versante del “intendersi imputato normativamente” (dalla tradizione).  Per l’autore tedesco si tratta, al contrario, di raggiungere una zona critica nella quale una intesa conseguita in modo comunicativo dipende da autonome prese di posizione del tipo si/no su pretese di validità criticabili[112].  Tale zona critica si appoggia sulla preesistenza di “mondi vitali” condivisi ma per trascenderli.
Il concetto procedurale di razionalità comunicativa si regge su tale assunto, oltre che, come abbiamo visto nel Terzo Percorso, sul concetto di decentramento della comprensione del mondo; entrambe interpretate come condizioni necessarie per una società emancipata[113].
In questo modo il bisogno di comprensione si articola nelle tre sfere separate del:
a)       "sapere normativo" (da mettere in relazione al mondo sociale),
b)      in quello "soggettivo" (cioé dalla prospettiva alter-ego da coprire in modo comunicativo vis-a-vis)
c)       in quello "oggettivo" (demandato, così mi sembra, alla arena tecnica ed al lavoro interpretativo degli esperti)

In effetti Habermas propone una direzione alla razionalizzazione sociale che non lasci le tre sfere (lette con riferimento anche a Weber) a diversi gradi di relazione ad interessi e di differenziazioneSi tratterebbe, in altre parole, di generare una sorta di modello non-selettivo di razionalizzazione che sia capace di fare qualcosa di più oltre a collegare le tre sfere di valore culturale a sistemi di azione, a loro volta in grado di produrre rispettivi saperi specializzati, in base a istanze di validità ad esse relative.
Secondo il diagramma teorico di Habermas, per superare questa condizione, la razionalità di una comunicazione è, da leggere, in rapporto con la sua capacità di attivare le potenzialità comunicative implicite nella comunità verso la quale è diretta e la cui azione intende contemporaneamente normare, sviluppare in senso espressivo ed orientare in quello cognitivoCiò significa che la razionalità è in rapporto con la criticabilità e la capacità di fondazione
Quindi unespressione comunicativa può essere considerata razionale se mette il soggetto cui è diretta nella condizione di poter esprimere, in risposta, una presa di posizione si/no sulla sua pretesa di validità”.  In altri termini se l'ascoltatore, avvalendosi di ragioni, può concordare o meno con l'espressione comunicativa del proponente ma in entrambi i casi è da questa messo in condizione di esprimere una convinzione
Il punto è che una razionalità così strutturata è capace di rinforzare, e rendere riflessivi, i legami sociali e disintrecciare valori e presupposizioni da stili di vita tradizionali, impermeabili alla comunicazione socialeRispetto a tale schema Habermas mette in evidenza, in Il pensiero post-metafisico, come il processo abbia due facce, se visto dal punto di vista degli individui socializzati: perdita dei sostegni convenzionali ed emancipazione dalle forme naturali di dipendenza.  Su questa linea passa, a suo parere, un conflitto teorico e culturale; questo processo viene infatti, da alcuni, interpretato come individualizzazione progressiva dei soggetti ed espansione delle possibilità di scelta, quindi sotto un segno positivo (tipicamente il passaggio dal lavoro in semiservitù del contadino medioevale al «libero» lavoro salariato, secondo la ironica definizione di Marx), per altri il segno deve essere negativo, per Habermas varrebbe, piuttosto, un segno plurivalente.  Ciò si oppone alla comprensione della modernità come ampliamento di ambiti di opzione per decisori razionali e disfacimento, senza resti, dei tradizionali mondi della vita per prendere in considerazione solo prestazioni funzionalmente specifiche.  Ma anche, e questo è il punto, ogni tentazione di ricaduta nel calore e nella protezione di luoghi chiusi ed avvolgenti esperienze “comunitarie”.
Riprendendo il concetto, assai complesso, di “mondo della vita”, sul quale ci siamo soffermati già in precedenza si può quindi dire che Habermas, combattendone la comprensione, riduttiva, in senso culturalista, arriva a descriverlo in termini di humus formativo di cultura, personalità e società
Viene, in altre parole, visto nei termini del suo partecipare della formazione della “società” (definita come: “gli ordinamenti legittimi attraverso i quali i partecipanti alla comunicazione regolano la loro appartenenza a gruppi sociali generando, così, solidarietà”[114]) e a “strutture della personalità” (definite: “le competenze che rendono un soggetto capace di parlare e agire, mettendolo in grado, quindi, di partecipare a processi d'intesa e di affermare con ciò la propria identità”[115]).

In questo contesto il processo per il quale il “mondo della vita” si differenzia e riproduce è descritto come “razionalizzazione”, cioè formazione di livelli superiori di apprendimento.  Tuttavia, identificare “mondo della vita” e “società” (o, peggio, “comunità”) rappresenterebbe quello che Habermas chiama un “idealismo ermeneutico”.  Implica, infatti, almeno tre finzioni: l'autonomia degli agenti, l’indipendenza della cultura, la trasparenza della comunicazione.
Come abbiamo già visto, per evitare questo rischio entra in gioco il II livello al quale Habermas comprende la società: il “sistema”.  Grazie a tale concetto si può, infatti, distinguere tra una “integrazione sociale” ed una “integrazione sistemica”.  La prima risponde alle presupposizioni dell'Agire Comunicativo, la seconda alla “razionalità rispetto allo scopo”. 
In definitiva “le società costituiscono nessi di azione stabilizzati sistemicamente di gruppi integrati socialmente”[116].  Si stabilisce, dunque, una sorta di doppia evoluzione secondo la quale si formano, progressivamente, sempre più sottosistemi che non hanno bisogno di medium linguistici, nè degli onerosi vincoli della razionalità comunicativa per funzionare.  Il tono non è di condanna di una delle modalità di organizzazione e riproduzione sociale (anche se una lettura frettolosa, effettivamente, potrebbe dare questa impressione). 
E' la progressiva formazione di dimensioni di cultura - società - personalità, cioè la “razionalizzazione del mondo della vita”, a generare la necessità della formazione di sottosistemi regolati dalla razionalità allo scopo e privi di rimandi normativi[117].  Ciò indica effettivamente un processo di aumento di razionalità (nel senso di Weber), ma porta anche con sé il rischio di strumentalizzazione dello stesso “mondo della vita” da parte dei sottoinsiemi regolati sistemicamente (cioè dotati di una propria logica interna) ad esso impermeabili.  E' il rischio di “colonizzazione” che rappresenta la peculiare forma in cui Habermas ridefinisce la classica tesi della reificazione[118].
Ma a tale rischio non si può rispondere ricadendo ad un livello inferiore di differenziazione.

La posizione di Habermas è dunque assai complessa, la contrapposizione “tra sistema e mondo della vita”, che (insieme ad un’interpretazione concretistica del “mondo della vita” ed una sua sostanziale, ma incomprensibile, identificazione con comunità a base territoriale) viene citata da Giusti nella tesi, non può essere letta come contrapposizione tra luogo dell’autonomia e dell’eteronomia.  Il “mondo della vita” di per sé non è in alcun modo il “luogo dell’autonomia”; al più è la base irriflessiva e la condizione stessa della possibilità dell’attribuzione di senso.
In conclusione, la citata “rivalutazione dell’ambito comunitario”, che chiude la frase in precedenza citata dell’articolo di Giusti, non ha molto a che vedere con Habermas salvo che sotto esigenti e complesse distinzioni.
La ricerca di strutture di “identità collettiva, nella società ‘postmoderna’, che facciano riferimento alla concretezza, alla materialità e alla quotidianità di piccoli ambiti di riferimento, luoghi sociali regolati da valori primari e non informati dall’indifferenziazione metropolitana del villaggio globale”, inoltre, va in una direzione totalmente diversa.  Habermas è per un’integrazione sociale post-convenzionale ed alquanto “astratta”.  Per comprenderla occorre leggerla in riferimento al dibattito di filosofia politica ed, in particolare, alla posizione di Rawls.  La “materialità e quotidianità di piccoli ambiti” non ha proprio nulla a che vedere con ciò.
Il fatto che solo attraverso la strutturazione attiva del luogo concreto (che rappresenta la “geografia di vita del soggetto”) il soggetto possa ritrovare una “propria identità” riscoprendo le sue radici (Mela citato da Giusti) sposta proprio l’ambito di riferimento delle riflessioni in direzione di uno storicismo sociologicamente (ed antropologicamente) interpretato sul quale ci siamo già lungamente espressi.



[1] - Walter Privitera, Il luogo della critica.  Per leggere Habermas, Rubettino, 1996, p.54
[2]- Cioè ad autori come Heidegger, Foucault, Derrida, Rorty.
[3] - Riguardo alla coppia omologanti/caratterizzanti vedremo che a livello del singolo individuo sembra a chi scrive che le cose potrebbero essere descritte in modo simmetricamente opposto.
[4] - Ed anche nel, più recente, Jurgen Habermas, Solidarietà tra estranei, Guerini, 1997.
[5] - Pier Luigi Crosta, “Istituzionalizzare l’interazione sociale in pratiche professionali ?”, Urbanistica 106. 
[6] - Charles Lindblom citato da Crosta, op.cit., p.113
[7] - Un gesto intellettuale e pratico che reca con sé le tracce di ciò che attraversa spostandosi. 
[8] - Come è noto si tratta di un termine con forti risonanze heideggeriane, del quale vorrei segnalare solo il legame con una forte e radicale critica della ragione politicamente connotato. 
[9] - Questo livello non è più trovato nella “dialettica” tra capitale e lavoro ma in quella “locale” “globale” dove il nemico è il sistema economico globalizzato visto quale distruttore di differenza locale e radicamento identitario.
[10] - Sembrerebbe che in tale ricerca di senso sia implicato un gesto di ricerca del livello di omogeneità al quale ancorare la possibilità stessa di un consenso legittimante l’azione.  Di fronte alla crescente indisponibilità della nozione di “popolo”, allora, si cerca un’equivalente funzionale nella nozione, egualmente concreta, di popolazione “abitante”. 
[11] - Anche nei termini stessi dell’approccio che qui ricostruisco andando in conflitto con l’ispirazione “costruttivista” che pure lo attraversa.  E’, a mio parere, una faglia di instabilità del paradigma relativamente profonda e rischiosa. 
[12] - Dello stesso avviso sembra essere anche Sernini in un recente intervento.
[13] - Questa questione è naturalmente piuttosto complessa e richiederebbe un’approfondita analisi pratica e concettuale oltre al richiamo critico di alcuni autori fondamentali come Friedmann e Forester.  Ciò non si può fare dati i limiti del presente lavoro.
[14] - Luigi Mazza, “Attivista e gentiluomo”, in ASUR, n° 48, 1993, p.40
[15] - Idem.
[16] - John Friedmann, Pianificazione e dominio pubblico, Dedalo, 1993, p.314
[17] - Chiara Mazzoleni, “Tradizione e mutamento nella teoria della pianificazione anglo-americana dopo gli anni ’60 : ricostruzione logica e interpretazione critica”, dissertazione di dottorato di ricerca, Venezia, aprile, 1987, p.168.
[18] - Idem., p.171
[19] - Idem.
[20] - Idem, p.177
[21] - Idem, p.151
[22] - Si intende con impostazione pluralista quelle teorie della democrazia che enfatizzano l’interazione tra differenti individui, portatori di punti di vista sul mondo che non devono essere necessariamente portati a comunicare.  Politicamente si tratta di posizioni liberiste nelle quali le funzioni di coordinamento ed allocazione delle risorse sono prevalentemente affidate al mercato anziché alla politica in alcuna sua forma.  Cosa diversa è il “pluralismo ragionevole” di Rawls che enfatizza il collegamento e la compatibilità liberamente e razionalmente accettata.
[23] - Idem, p.181
[24] - Idem, p.182
[25] - Posizione che si riferisce esplicitamente e chiaramente a Dewey.
[26] - Idem, p.184
[27] - Con riferimento ad una concezione “terapeutica” del linguaggio (Wittgenstein) e della pragmatica della comunicazione oltre che, come è ovvio, a Dewey.
[28] - Idem, p.185
[29] - Idem, p.187
[30] - Idem, p.188
[31] - Ferdinand Tönnies descrive la “comunità” come un organismo naturale nel quale prevale l’interesse comune su quello individuale, gli interessi collettivi predominano, i membri sono scarsamente individualizzati, e l’orientamento morale oltre che intellettuale è dato da credenze di tipo religioso, inoltre la condotta quotidiana è regolata dai costumi e la solidarietà è globale e spontanea, la proprietà comune.  Al contrario, la “società”  comprende relazioni sociali di segno contrario; vi domina, quindi, la volontà individuale, i membri sono fortemente individualizzati, gli interessi dei singoli prevalgono e l’azione di ciascuno è dominata dall’opinione pubblica, l’agire quotidiano dalla moda. La solidarietà, inoltre, si realizza solo in termini di contratto e ruota intorno allo scambio di beni e servizi, la proprietà privata domina.
La Comunità rappresenta uno stadio di sviluppo storico anteriore alla società e sede della “cultura” (contrapposta alla “civilizzazione”).
[32] - Idem, p.188
[33] - Idem, p.189
[34] - Come è noto l’anarchismo è quell’insieme di dottrine che accentuano la necessità di fare a meno dello stato, cioè del dominio della legge e delle autorità costituite in ogni loro forma.  Ciò allo scopo di assicurare la massima libertà all’individuo e di dispiegare le sue migliori facoltà.  In particolare l’autonomia e la capacità di cooperare con il suo prossimo.  Come ricorda Gallino, “la teoria sociale implicita nell’anarchismo si fonda sulla credenza che qualsiasi comunità di individui, quando sia libera da interferenze esterne, è in grado di realizzare da sola un ordine sufficiente per far fronte ai suoi principali bisogni, senza dover ricorrere a leggi, forme di governo, o capi di qualsiasi specie.” (Luciano Gallino, Sociologia della politica, Utet, 1989, p.9)
In particolare, Kropotkin, citato frequentemente da Friedmann in Pianificazione e dominio pubblico (pp. 306, 312, 364, 378, 313, 314, 312-15), asserisce la solidarietà essere la dimensione “naturale” dell’uomo e sottende una radicale diffidenza nei confronti della società industriale con una corrispondente esaltazione della “comunità”.  Di villaggio, quindi delle virtù contadine, di una vita vissuta a contatto con la natura.
[35] - Idem, p.190
[36] - Idem, p.191
[37] - Idem.
[38] - Idem, p.197
[39] - Qualcosa del genere è proposta anche da Schön con la sua descrizione della competenza come capacità di vedere i propri  “modi di vedere”.
[40] - Idem, p.200
[41] - Alessandro Balducci, Disegnare il futuro, Il Mulino, 1991, p.167
[42] - John Friedmann, Pianificazione e dominio pubblico, op.cit., p.48
[43] - Idem, p.412
[44] - Idem, p.423
[45] - Idem, p.425
[46] - Idem, p.428
[47] - Idem, p.434
[48] - Idem, p.435, nota.
[49] - Idem, p.436
[50] - Idem, p.484
[51] - Michele Sernini, Terre sconfinate. Città limiti localismo, Franco Angeli, 1996, p.118
[52] - Idem, p.119 nello stesso contesto una frettolosa critica ad Habermas che trascura la sua attenzione alla “ragion pratica” istituzionalizzata nelle strutture dello stato di diritto sulle quali ormai sempre più spesso insiste. Una critica che si basa su un testo di Ferry edito nel 1987.
[53] - Jurgen Habermas, Fatti e norme, op.cit., p.180
[54] - Idem.
[55] - Alberto Magnaghi, Mauro Giusti, “Presentazione”, in Alberto Magnaghi (a cura di), Il territorio dell’abitare, Franco Angeli, 1990, p.13
[56] - Idem, p.14
[57] - Idem, p.19
[58] - Jurgen Habermas, “L’insostenibile contingenza della giustizia”, Micromega, 5/95, p.139
[59] - Crosta, “Istituzionalizzare l’interazione sociale in pratiche professionali?”, op.  cit.  , p.  114
[60] - Dubbi simili li avanza anche Habermas in un modo diverso soprattutto nell’ultima parte della sua opera e nel dibattito con Rawls. 
[61] - Dello stesso avviso è anche Sernini, op.cit.
[62] - Jurgen Habermas, Dopo l’utopia, Marsilio 1992, p.114
[63] - Pier Luigi Crosta, La politica del piano, Franco Angeli, 1991, p.  119
[64] - Anzichè come sistema funzionale nel quale le relazioni tra gli attori siano riconducibili, in via di princìpio, senza resto, a relazioni di ruolo. 
[65] - Jurgen Habermas, Il pensiero post-metafisico, Laterza, 1991, p.235
[66] - Martin Heidegger, “Costruire, abitare, pensare”, in Saggi e discorsi, Mursia, 1987, p.99
[67] - Su questa importante letteratura cfr. Alessandro Ferrara, Comunitarismo e liberalismo, Ed. Riuniti, 1992; Michele Mangini, La giustizia e gli ideali. Una critica alla giustizia liberale, Editori Riuniti, 1994
Michele Mangini (a cura di), L’etica delle virtù e i suoi critici, La città del sole, Napoli, 1996; Antonella Besussi, Giustizia e comunità. Saggio sulla filosofia politica contemporanea, Liguori ed., Napoli, 1996
[68] - Salvatore Veca, “Il paradigma delle teorie della giustizia”, in Manuale di filosofia politica, a cura di Sebastiano Maffettone e Salvatore Veca, Donzelli, 1996, p.187
[69] - John Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, 1982.
[70] - Alasdair MacIntyre, Dopo la virtù, Feltrinelli, 1988 (ed. or. 1981)
Michael J. Sandel, Il liberalismo e i limiti della giustizia, Feltrinelli, 1994, (ed. or. 1982)
Charles Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, 1993 (ed. Or. 1989)
Michael Walzer, Sfere di Giustizia, Feltrinelli, 1987 (ed. or. 1983)
Robert Bellah, Habits of the heart. Individualism and committment in American life, University of California Press, Berkeley, 1985.
[71] - Antonella Besussi, “Liberalismo e comunitarismo: le ragioni di un dissenso”, in Manuale di filosofia politica, a cura di Sebastiano Maffettone e Salvatore Veca, Donzelli, 1996, p.9
[72]- Charles Taylor, Radici dell’io, op. cit., p.43
[73]- Idem, p.44.
[74]- Per una discussione di un tema simile ma con importanti differenze di accentuazione cfr. Stefano Moroni, “Sul significato della ragione pratica nel campo della pianificazione territoriale”, CRU, n°4, 1995.
[75]- Charles Taylor, Radici dell’io, op.cit., p.51
[76] - Cioè in base alla mossa illuminista di escludere tutte le caratteristiche individuali per tenere solo quelle comuni (o “invarianti”).
[77]- Idem, p.66
[78]- Idem, p.67
[79]- Idem, citando Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, 1976
[80]- Idem, p.71
[81]- Questa è l’ipotesi di lavoro cui, purtroppo ancora in modo abbastanza incompleto e poco chiaro, sta lavorando Alessandro Ferrara e su cui si esprime Taylor.
[82]- Charles Taylor, Radici dell’io, op.cit., p.82
[83]- Ibidem.
[84]- Ibidem.
[85] - Idem, p. 84
[86]- Cioè al “Giudizio Riflettente” che ha trovato una sua formulazione rigorosa, una prima volta, nella Critica del Giudizio di Kant.
[87]- Cfr. Hannah Arendt, Teoria del giudizio politico, Il Melangolo, 1990.
[88]- Immanuel Kant, Critica del Giudizio, Utet, 1993, p.104
[89]- Alessandro Ferrara, L’eudaimonia postmoderna, op.cit., p.119
[90]- Charles Taylor, Radici dell’io, op.cit., p.82
[91]- Idem, p.614
[92]- Quelli che si chiamano generalmente i teorici “repubblicani” e sono l’evoluzione del pensiero “comunitario” di cui ho parlato in precedenza.  Si tratta di una posizione molto recente, che enfatizza non più il termine <<comunità>>, ma ciò che la costituisce come tale. Dunque l’orientamento al <<bene comune>>.  Un autore chiave è, in tal senso, Robert Bellah (ed il suo libro introduttivo Habits of the heart, op. cit., 1985) che, preoccupato della minaccia generata dalla frammentazione e dal narcisismo espressivista (di cui vede tracce nell’utilitarismo, attraverso il suo individualismo, e nel “trionfo del terapeutico”) punta l’attenzione sul recupero del linguaggio dell’impegno pubblico.  Da Bellah, in seguito, la posizione è stata ripresa ad opera di autori come Taylor e, più di recente, anche Sandel.
[93]- Alessandro Ferrara, “Il paradosso della comunità”, Iride, n°16 anno VIII, dicembre 1995, p.717.
[94]- L’attore cui penso è qui il “sistema concreto di azione” che si genera in un processo di progettazione e non qualche esperto specifico o qualche decisore, anche se tutti possono svolgere una parte; cfr. Michel Crozier e Erhard Friedberg, Attore sociale e sistema, Etas Libri, 1978.
[95]- Hans George Gadamer, Il problema della coscienza storica, Guida ed., 1974, p.47
[96]- La metafora è di Ronald Dworkin.
[97] - Sandel, 1982; Taylor, 1985, 1989 ; MacIntyre, 1981, 1982, 1984, 1988 ; Bellah, 1987, Selznick, 1987
[98] - Sandel, 1994 ; MacIntyre, 1988 ; Walzer, 1987 ; Taylor, 1993, 1994
[99] - Mauro Giusti, “Locale, territorio, comunità, appunti per un glossario”, in Il territorio dell’abitare.  Lo sviluppo globale come alternativa strategica, Franco Angeli, 1990, p.152
[100] - Idem.
[101] - Idem, p.153
[102] - Idem.
[103] - Idem, p.154
[104] - Idem., p.155
[105] - Idem.
[106] - Idem.
[107] - Rappresentata dal punto raggiunto con Teoria dell’agire comunicativo.
[108]- Comunità reali possono essere anche attraversate diagonalmente da diversi “mondi vitali” e lo stesso individuo appartenere a più di essi.
[109]- Jurgen Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, 1981.
[110]- Idem.
[111]- Idem, p.139.
[112]- Ibidem.
[113] - Il concetto di “decentramento”, in particolare, é ripreso da Piaget e si riferisce al nesso interno fra le strutture di un'immagine del mondo; precisamente al processo evolutivo che consente all'adolescente, nel suo passaggio alla vita adulta, di differenziare una comprensione del mondo plasmata in modo egocentrico in una articolazione secondo i tre “mondi” soggettivo, sociale ed oggettivo.  Quindi “concetti del mondo” e “pretese di validità” relative si modificano, ed articolano reciprocamente, con il decentramento delle immagini del mondo che costituiscono la “riserva di sapere culturale”.
[114]- Jurgen Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, op.cit., p.730
[115]- Ibidem
[116]- Idem, p.748
[117]- Questo è uno dei punti delicati della teoria di Habermas, dove forse la schematizzazione ed idealizzazione raggiunge livelli troppo estremi.  Pur essendo una rappresentazione idealtipica sembra difficile immaginare sottosistemi totalmente non regolati da norme (anche se qui si tratta, evidentemente di "norme morali" mentre può darsi regolazione a mezzo di "norme giuridiche positive" -orientate allo scopo- e, probabilmente, anche di "norme sociali" -rituali e consuetudinarie- a basso tenore di razionalità).
[118]-Cfr.  Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, op.cit., p.808-9

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