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mercoledì 30 settembre 2015

Pablo Bustinduy Amador, “Riflessioni dopo la battaglia”






Sul blog “Essere Sinistra”, la traduzione in italiano del Segretario per le relazioni internazionali di Podemos Pablo Bustinduy Amador; si tratta di uno scritto che parte dalla crisi greca ed in particolare dal quadro politico aperto dalla sua conclusione (cioè dall’accettazione forzata del Memorandum da parte del premier Tsipras, malgrado il referendum appena vinto) per cercare di definire un orizzonte strategico nel quale troviamo alla fine anche qualche sorpresa. Quella greca è una conclusione che ha dato scandalo a molti, per dire ad Habermas, Krugman, Munchau, Sapir, il solito Evans-Pritchard, ma anche Gysi, persino Fassina, l’analisi su questo punto di Bustinduy Amador non è certo originale, segue un’articolazione “noi/loro” tipica del movimento che avevamo già visto nelle parole (strategicamente piuttosto chiare, ma significativamente problematiche) di Iglesias, e infine l’improvviso allargamento del quadro delle alleanze potenziali in una direzione pragmatica inaspettata.
Tsipras e Iglesias

Ma andiamo con ordine, per Podemos l’esito che ha imposto il terzo memorandum (con il suo portato di politiche distruttive, o per meglio dire “estrattive” del surplus nazionale greco a servizio del debito estero) è “una grave battuta di arresto”. L’analista vede sostanzialmente un doppio gioco di potere all’opera nell’arena europea (e più specificatamente nella sua area euro): quello del sistema politico e finanziario tedesco, che cerca di difendere e rafforzare il proprio controllo, e quello più generale di chi cerca di “neutralizzare ogni possibile alternativa politica nella periferia”. Cioè, specificamente di neutralizzare i governi di sinistra radicale (o comunque di sinistra non socialdemocratica) che sono favoriti in alcuni paesi (Grecia, ovviamente, ma anche Spagna) dalla dinamica politica aperta dalla lunga crisi. In parole più chiare la situazione sarebbe caratterizzata da una polarità tra un blocco di potere egemonico che coinvolge la totalità dei paesi europei e le principali forze politiche, nell’obiettivo comune di impedire alternative alle politiche dominanti e, appunto, ostacolare i movimenti che stanno crescendo nelle periferie. È il discorso fatto da Iglesias. In questo schema classicamente populista il pezzo si chiuderà con l’invito a considerare l’occasione storica che questa situazione apre.
Quindi, anche trascendendo dallo specifico quadro greco, l’autore vede questo momento come espressione di uno scontro “globale” (termine che potrebbe significare sia internazionale sia multisettore, cioè complessivo) “tra austerità e democrazia”. Questo strano scontro, tra una politica ed una modalità di governo (se i termini fossero intesi per il loro letterale significato, e non fossero entrambi metaforizzati) determina quello che è definito come “gli orizzonti, le capacità e le possibilità di una azione politica di trasformazione per i decenni a venire”. Una cosa impegnativa.

E qui comincio a perdermi, perché veniamo a sapere che “Alexis Tsipras non si è scontrato con le forze conservatrici dell’ordine costituito, ma con uno status quo dinamico, che è in fase di ridefinizione e trasformazione”. Non so se capisco cosa sia “uno status quo dinamico”.
Pablo Bustinduy Amador

Il cuore del ragionamento politico di Podemos è però ora che arriva. Un partito deve mobilitare, e nessuno si muove se pensa di aver già perso, o che Non Ci Sono Alternative. In quel caso vota Partito Socialista, o Partito Popolare. Dunque, dal punto di vista che qui si difende per non cadere nel fatalismo, bisogna guardare ai segnali di movimento (le primarie del Partito laburista inglesi, le elezioni turche, le dinamiche politiche in Scozia, ora anche la Spagna) per vedere che l’ordine stabilito diventa instabile. E c’è quindi la possibilità di una “profonda trasformazione politica”, in Europa, che ponga fine all’austerità e ribalti i rapporti di forza.

D’altra parte, e qui mi sembra sia all’opera in profondità un luogo specifico dell’analisi marxista, (della sua filosofia della storia impregnata di movimento dialettico hegeliano travestito di materialismo, il cosiddetto “materialismo dialettico”): per Bustinduy Amador l’area euro, o meglio la modalità di produzione e riproduzione sociale e politica la cui logica espressione è l’euro, individua in realtà una “struttura socio-economica più sviluppata” (cioè un “centro di produzione più sviluppato e avanzato”), fuori del quale non si può socializzare altro che miseria. In termini concreti ciò si applica –qui con qualche plausibilità nella concreta situazione sul campo- nelle condizioni di estrema prostrazione e debolezza nelle quali la Grecia è giunta all’appuntamento con la minaccia di far fallire le sue banche e chiudere ogni linea di credito in valuta (indispensabile, a meno di rischiosissimi esperimenti valutari ed esercizi geostrategici ancora più arditi, per acquisti strategici in un paese che praticamente non ha più industria dopo gli anni dell’euro).
Tuttavia il punto va molto oltre la convenienza, o il “coraggio”, di Tsipras nelle condizioni storiche del giugno 2015. Non è della Grecia che Bustinduy Amador parla, lui pensa ad un governo di Podemos in Spagna, dopo le imminenti politiche. Ed è in questo senso che chiude la prospettiva, per altri movimenti centrale, “riconquistare la sovranità”. Un proclama che dichiara essere “vuoto” sia in Grecia sia in Spagna. Anzi una “opposizione” (quella tra euro e sovranità) “radicalmente falsa ed ingannevole”; ancora, “puerile e pericolosa”. Specificatamente, lo abbiamo visto, “E’ puerile e pericoloso immaginare che ci sono maggiori possibilità di ridistribuzione sociale, margini più elevati per il progresso e la giustizia sociale, al di fuori di una struttura socio-economica più sviluppata”. L’idea sembra essere che l’euro, l’integrazione finanziaria e la centralità della disciplina dei mercati insieme alla neutralizzazione di fatto della politica fiscale, che si è costituito in Europa sia un meccanismo economico che produce maggiore ricchezza delle alternative, con il solo difetto (inessenziale al funzionamento della “macchina”) di concentrarlo. Un’idea che era già decisamente troppo poco differenziata in Marx (che, pure, introduceva notevoli distinzioni) pensando alla fabbrica metalmeccanica come paradigma centrale della società. Che è paradossale in queste condizioni. Non è ricchezza quella che viene prodotta dai mercati finanziari, è potere. Questo si disarticola se viene distribuito diversamente, è come acqua che passa per una mano aperta. In altre parole, non si può redistribuire l’inflazione dei valori nominali dei prodotti finanziari, è solo un trucco ed un miraggio. Sortisce effetti concretissimi e potenti solo fino a che viene creduto, e solo fino a che resta in pochissime mani che si guardano bene dal cercare di trasformarla in beni materiali.  


Invece di spostare, come ad esempio vorrebbe Streeck (anche egli sulla base di categorie di analisi marxiste, nel gioco dei conflitti di classe osservabili a partire dagli schemi di valorizzazione economica ed accumulazione del profitto) lo scontro entro i confini dello stato nazione, richiamando quindi le decisioni cruciali nelle arene democratiche tradizionali, l’esponente di Podemos sembra immaginare lo scontro essenzialmente sul terreno europeo. In questo sembra condividere l’analisi con le forze socialdemocratiche tradizionali che per altri versi combatte. Su questo terreno, alla fine, si trova costretto infatti a ridefinirle da élite da combattere (come vorrebbe Iglesias) a potenziali alleate, come vedremo.
E questo per “il controllo politico della struttura produttiva”. Questa “lotta essenziale” si dovrebbe dare necessariamente nei luoghi più avanzati (un vecchio topos marxista). Cioè nei santuari del modello di produzione di valore imperniato sulla finanza ed il controllo delle colossali economie di scala e simboliche garantite dall’informazione. Un modello di produzione che, però, non passa neppure specificatamente per alcun luogo europeo. Attraversa luoghi e schiaccia tempi in quella sorta di “spazio quantico” che abbiamo provato a traguardare grazie agli occhiali di Kjaer nell’ultimo post. Uno spazio, e questo è altrettanto importante, frequentato da un altro popolo (quello dei connessi, dei lavoratori della conoscenza, degli apolidi). Un modello di produzione di “valore”, e soprattutto di sua accumulazione e concentrazione, imperniato strutturalmente su istituzioni e attori transnazionali divenuti i veri egemoni del nostro tempo, e sulle relative soggettività “nomadi” in esso attive.
Io non so, dunque, a cosa esattamente pensi Bustinduy Amador quando dice che “la nostra prospettiva e il nostro obiettivo devono rimanere la democratizzazione della produzione, il controllo e la distribuzione della ricchezza ovunque si produca”, anche se ad un certo livello sono d’accordo in principio. Pare anche a me si possa dire che qualcosa come un “controllo finanziario” è all’opera, e sicuramente “sta sottomettendo una dopo l’altra, tutte le conquiste e tutti i diritti della costellazione storica dello Stato Sociale”, ma questo “controllo” (la stessa parola fa problema probabilmente) è del tutto impersonale e per combatterlo occorre comprenderne strumenti e meccanismi. Mi pare che l’ambiente ecologico dell’euro sia uno di questi.
Pensarlo dunque in termini di modello produttivo “avanzato” (magari immaginando di poterlo conquistare come si fa con una fabbrica, occupandola) mi pare sia un errore capace di catturare la mente in una prigione.
Questo modello non è affatto “avanzato”, o “sviluppato”; il modello sociale ed economico nel quale troviamo finanza senza limiti, produzione immateriale di valori “distintivi” che concentrano il surplus, accentramento e controllo delle informazioni apparentemente libere e gratuite, deflazione strutturale dei beni materiali “poveri” e del lavoro ad essi corrispondente. È tutto il contrario. Un modello arretrato e distruttivo. Un modello che non produce, ma parassita strutture esistenti e le sfrutta consumandole.
Senza un reale futuro. Una cosa che si è spesso vista nella storia, ed è normalmente finita male.

Questo modello di sviluppo non è una fase del sistema umano, un momento della dinamica della storia il cui telos si dispiega davanti a noi come autoaccrescimento. Questo modello è più un parassita, nato dalla crisi egemonica di un grande paese imperiale e dalla difficoltà del suo sistema economico a proteggere i propri margini di esistenza (cioè quelli delle forze in essi dominanti).

Certo, non c’è nessun determinismo in nessuna direzione. E non so, come nessuno sa, quale direzione prenderà il futuro sotto le potenti forze della tecnologia, della volontà dei popoli e della stessa pressione delle élite che difendono se stesse.

E certo, la crisi greca ha mostrato la debolezza del quadro dei poteri in Europa, la facilità con la quale essi si possono sentire sfidati. La violenza (che è sempre debolezza) con la quale reagiscono. La “forza nuda” (o il “ricatto nudo”, come ha scritto Varoufakis nel suo blog) che è inappropriata e dunque manifestazione di disperazione.

Ma questo, cioè l’enorme problema che abbiamo davanti e che occupa l’intero campo visivo possibile accecandoci, non è solo “un problema politico” come vorrebbe Bustinduy Amador.  Non si può, io credo, dire che “non è legale o tecnico”. Quindi non si può dire che “politica dovrebbe essere la natura e la logica che governa la nostra strategia alternativa.”
E’ da qui che nasce la dislocazione che fa escludere il tema euro. Un problema è sempre politico. Ma è anche sempre legale (in quanto la legge è connessa a due vie alla dinamica sociale). Ed è sempre tecnico.
Specificatamente questo problema della costruzione europea, è un problema di costruzione costituzionale, di sovrapposizione di strati di norme con una propria dinamica, e di strutture e funzionamenti potenti. Poi è anche un problema di soggettività, ed è un problema di potere. E di sua rappresentazione. Quindi è politico, tecnico e legale (soprattutto sul livello costituzionale).

Dire che si è rivelata nella crisi “la natura cruda di un potere tedesco in transizione, una logica di controllo politico e finanziario a tinte apertamente autoritarie” è vero. Dire però che “il carattere stesso di questa logica di potere dimostra che l’Europa è la dimensione, lo spazio politico della battaglia, e quindi il luogo che riflette i rapporti di forza tipici del tempo eccezionale in cui viviamo”, non mi sembra segua. O meglio, segue solo per effetto di un apriori filosofico e del vedere come politica (nel senso della lotta per il potere organizzativo) la questione.
Che ci sia “un luogo” che riflette i rapporti di forza “tipici” è una concettualizzazione molto problematica: questi rapporti sono ovunque e sono in nessun luogo. Vorrei essere chiaro: questo stesso argomento parla anche contro la soluzione di Streeck, e richiede di spingere più in fondo l’analisi e il lavoro di costruzione sociale, la ricerca di alleanze, la coltivazione di altri luoghi ed altri tempi; ma non mi pare che qui ci siano materiali intellettuali sufficienti.

Dire che “siamo in un lungo ciclo di trasformazione aperto dalla crisi finanziaria e prolungato dalla logica di controllo dell’austerità” è vero. Dire però che “abdicare da quello spazio, senza avere prima esaurito le possibilità di accumulazione di forze al suo interno, senza analizzare a fondo la moltiplicazione dei processi che vanno sorgendo in tutto il continente nella lotta per articolare una vera opposizione politica a quella logica di controllo (dalla Slovenia alla Spagna, dalla Grecia alla Scozia, dal Regno Unito alla Polonia, passando per le tensioni che scuotono tutti i partiti democratici sociali centro europei) significa abbandonare l’analisi del momento storico e regalarsi un passaporto per la marginalità, per l’accettazione della sconfitta”, si sposta tropo rapidamente su un altro terreno.
Qui si parla in effetti di rapporti di potere parlamentari, mentre prima si parlava di trasformazioni sociali.  E si indica la posta concreta, ma insieme deludente, di posizioni nel Consiglio Europeo (e nella Commissione). Si sta dicendo anche, ora è molto più chiaro, che bisogna restare connessi per poter prendere il controllo della macchina dell’Eurogruppo.

Si sta dicendo proprio che “la ristrutturazione delle forze anti-austerità è parallela alla transizione del comando europeo [nelle mani dei “democratici”] e corrisponde alla frequenza dell’onda lunga che dovrebbe governare l’analisi e le decisioni strategiche”. Certo “ciò non esclude alcuna opzione per il futuro: le rende dipendenti dalla nostra capacità di costruire, di articolare e di trasformare”.
Per fare questo l’idea (che esce alquanto dal “frame” populista) è “fare esattamente il contrario di dividersi e moralizzare il dibattito strategico: dobbiamo costruire un’alleanza democratica, grande e trasversale, il cui obiettivo tattico principale è l’accumulo di forze nel breve termine e lo sviluppo dell’intelligenza strategica sufficiente per quelle battaglie nelle quali la più favorevole può essere la correlazione di forze (per citarne solo alcune a breve termine: il debito, TTIP, la frode fiscale, la nozione di distribuzione di cittadinanza che coinvolge servizi pubblici e diritti sociali, ecc.)”. Mi pare giusto, ma non completamente coerente. Soprattutto se questa alleanza, come immediatamente chiarisce, si allarga alla cooptazione dei partiti socialdemocratici tradizionali.
Con le parole di Pablo Bustinduy Amador (è il suo punto 11): “Il movimento nei partiti socialdemocratici non è affatto trascurabile. L’austerità ha prodotto uno spazio socio-politico trasversale misto, che è ora aperto e in discussione. La Grecia è stata all’avanguardia in questa lotta, ma nel medio termine l’Europa sta affrontando una ristrutturazione decisiva delle sue forze egemoniche nella quale ciò che resta del blocco storico socialdemocratico rappresenta l’asse decisivo per ristabilire l’equilibrio delle forze su scala continentale . Il vero impegno strategico è lì e non altrove”.

Insomma, il movimento forse esprime una fase complessa di ridefinizione strategica, forse si trova ad intravedere un guado nel quale dovrà bagnarsi (il che potrebbe anche essere salutare, nella sua concretezza), forse affronta ora i suoi maggiori rischi. Quello di essere visto come non abbastanza nuovo, di essere inquadrato come un’altra versione furba delle stesse forze; d’altra parte di essere catturato in retoriche vecchie ed illustri, che però possono tenere ferma la mente.

Un testo come questo mi pare attraversato da interne linee di frattura molto istruttive. Se è vero che (dalla sua conclusione) “è necessario uno spazio nuovo, una lingua nuova e una strategia nuova”, e se “convocare tutte le forze del progresso” (con questa vecchia ed illustre parolina della rivoluzione francese che rifà sempre capolino) per “creare un’agenda nuova” (termine riducibile a tecnica di governo, in qualche modo deludentemente poco ambizioso) “sugli assi decisivi della transizione europea” può essere utile. Tuttavia alla fine restano solo parole vaghe come “spingere un progetto europeo basato sulla difesa della pace, dei diritti umani, dei servizi pubblici e della dignità dei popoli”.

Giusto. Ma troppo poco.
Ci aspetteremmo di più da chi vuol, cambiare tutto.




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