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domenica 27 settembre 2015

Poul F. Kjaer, “Il concetto della politica nel costituzionalismo transnazionale: una prospettiva sociologica”





L’articolo di Poul Kjaer, che insegna a Francoforte alla Goethe University, è contenuto in un libro collettaneo di Christian Jorges e Tommi Ralli, dal titolo “Dopo la globalizzazione – nuovi schemi di conflitto e la loro ricostruzione legale e sociologica”, del 2011. Mi è stato segnalato da un amico che colgo l’occasione di ringraziare vivamente.
In effetti il contributo di Kjaer illumina quello che molto spesso si manifesta come un punto cieco del nostro sguardo sul mondo, consentendoci di ripensare in modo più profondo il nesso tra forme statuali consolidate e sistemi di governance plurali (e altamente conflittuali) nello spazio quantico dell’emergente transizione in corso. L’evidenza di questa transizione è l’enigma verso il quale sono continuamente tentate mosse adattive, ed entro il quale proliferano innumerevoli scontri d’ordine che strutturano la contemporaneità. 


L’argomento dell’autore è che quello che chiama “spazio transnazionale” è in realtà coevo, e funzionalmente sia connesso sia necessario, al principio organizzativo e allo spazio costitutivo che chiamiamo “spazio nazionale”. Lo è sempre stato; infatti sin dall’inizio il rapporto tra le strutture nazionali e quelle transnazionali si è configurato come “reciproca crescita”. Gli stati nazionali, che l’autore vede come essenziale invenzione europea, sono andati incontro ad un processo di progressivo consolidamento insieme alla crescita dell’internazionalismo colonialista da una parte, ed a accordi (come la Commissione Centrale per la navigazione del Reno, istituita durante il Congresso di Vienna del 1815) definitori di spazi internazionali di regolazione.
La tesi di Kjaer è che questo “spazio transnazionale”, oltre ad avere una sua logica (indipendente da quella dello stato, come dalle forme di coesione sociale ed integrazione culturale e politica sottostatali), ha anche la caratteristica di essere una sorta di “conglomerato di autostrutture [eigensrukturen]” che riproduce nel suo esistere e riprodursi forme autonome di modelli sociali. Determina, cioè, anche integrazione sociale (e politica). In conseguenza, “il mondo è caratterizzato da un livello plurale di strutture in formazione con diverse e distinte, ma intrecciate, logiche che operano allo stesso tempo”. Una cosa che è già successa nel passaggio dallo stato feudale a quello moderno (e dal feudalesimo al capitalismo, aggiungo). 

Kjaer vede, rischiosamente (a causa della possibilità di scivolare in categorie compromesse con la filosofia della storia), in questo modo la dimensione dello spazio interstatale come un “terzo livello” sovrapposto e compresente di organizzazione sociale ed integrazione culturale (politica ed antropologica): le vecchie strutture feudali, in alcuni casi ancora presenti, lo stato nazionale e, infine, il “terzo strato” determinato dal modello sociale di riproduzione del “regno transnazionale”. Il segmento centrale, lo stato nazionale, in questo contesto non scomparirà, ma viene ricollocato e, soprattutto, si trova in un conflitto strutturale tra principi organizzativi. Mentre esso è infatti fondato sul “principio territoriale di organizzazione” (e quello sottostatale su forme di gerarchia intrecciate ad omogeneità ascrittiva, ovvero “comunitaria”), l’ordinamento transnazionale si fonda su un principio di differenziazione funzionale.

Se questo è plausibile, la sfida diventa comprendere, liberandosi di occhiali obsoleti, come i “diversi strati” della società mondiale fattualmente presente interagiscono con la “moltitudine” degli ordini sociali che operano entro di essi e negli interstizi.

Questi sistemi funzionali, che sfuggono al nostro sguardo in quanto principi ordinatori sia sociali sia politici, sono il sistema della scienza, quello dei mass media, dello sport, e anche dell’educazione. Oltre, naturalmente, l’economia.
Tutti “sistemi” (termine che sembra transitare in questo discorso da Luhmann) che tendono a sollevarsi dal principio di stabilizzazione e legittimazione a base territoriale, articolando e differenziando una stratificazione  di natura funzionale, che però va oltre nel suo farsi. Si tratta comunque di “una rottura qualitativa rispetto alla modernità classica” e di sistemi non solo pubblici (spesso privati, talvolta misti) “emersi” a partire da conflitti bisognosi di regolazione e per i quali i confini statuali erano drasticamente inadeguati (gli esempi sono ICANN per internet, OMS per la salute, ISO per gli standard di prodotto). Da questi esempi di Kjaer si vede bene come l’invito è ad attraversare le nostre categorie, ed i “cassetti” nei quali mettiamo in nostri attrezzi, per aprire lo sguardo a panorami diversi.

Questo processo, accelerato durante la seconda metà del XX secolo, potrebbe essere ancora ai suoi inizi, e non comporterà il semplice transito ad uno Stato-nazione a scala mondiale (cioè ad un impero costituito); ma potrebbe portare ad un potenziamento di una poliarchia strutturalmente diversa da quella all’opera entro lo stato nazione. Questa considerazione, che condivido, mostra anche il grande rischio davanti al quale la società contemporanea è nel superamento della grande conquista del novecento (la poliarchia nazionale) in favore di dinamiche plurali e potenzialmente oscure. Questo rischio, sul quale spesso ci siamo esercitati, rende però ancora più necessario disporre di categorie in grado di vedere cosa succede e, come vedremo, di rafforzare gli elementi di razionalità e politica integrativa pure presenti ed all’opera in queste dinamiche. Categorie in grado di identificare le arene attive e gli strumenti utilizzabili per agire in esse.

Questa è la dimensione nella quale articoli come questo sono preziosi (pur nella rischiosità e provvisorietà di alcune sue letture).

Molte di queste strutture (e qui, ci si riferisce alle istituzioni politiche, comunque scaturite originariamente da trattati internazionali) hanno progressivamente, anche se a ben vedere già da prima del loro inizio formale, rafforzato un livello di autonomia che le rende impossibili da comprendere davvero come semplici riflessi di una delega. Cioè esito semplicemente di una contrattazione inter-statale. Queste strutture sono l’Unione Europea, il WTO, e la Banca Mondiale. Tutte strutture produttrici di norme dotate di una propria dinamica non riducibile senza resti alla intersezione delle volontà statuali costituenti. Ognuna nasce come effetto complesso (basato su compromessi, equivoci, veri e propri tradimenti, esercizio di potere e attivazione di razionalità e sistemi di norme) dell’autonomizzarsi di un campo di problemi che si qualifica e candida come intrattabile nei termini dei singoli stati-nazione. E che si qualifica anche come indisponibile alla semplice forma del Trattato interstatale, cioè del mero scambio di potenza.
Poi ci sono quelle private, come molte multinazionali, molte strutture professionali (studi legali internazionali, grandi società di consulenza, di progettazione e normazione), ONG internazionali, network ambientalisti, think-thanks autorevoli. Tutte queste organizzazioni sono capaci di autonormarsi e di diventare, di fatto, fonti di ordinamenti sociali e di definizione cognitiva. Sono dimensioni di autorganizzazione, fonte di integrazione sia sociale sia politica (e cognitiva), che operano “al di là della sfera pubblica” nazionale. “Una vasta gamma di configurazioni funzionalmente delineate all’interno dello spazio trasnazionale in termini di conglomerati normativi [attivi] in settori come l’economia, la scienza, i mass media, lo sport, l’ambiente e così via”; tutte caratterizzate da un’elevata e complessa interazione tra dimensioni pubbliche e private.

La società globale, nel suo funzionamento effettivo, dipende insomma ormai da forme strutturali di creazione di ordine (e regolazione di attese di comportamento) che non dipendono solo, o neppure principalmente, dal principio della totalità delle attribuzioni ad un centro statuale sovrano (cioè autonomo e potente), ma da intrecci funzionali differenziati per specializzazione. Sul traffico marittimo “conta” l’IMO, sulla sicurezza del volo l’ICAO, sul sistema bancario, le norme alimentari, il commercio internazionale, le norme tecniche, …
E dall’altra parte di una sorta di spazio continuo troviamo le imprese private multinazionali che, partendo da un successo locale, sono progressivamente emerse (insieme al dominio americano nel suo “secolo”, su questo Arrighi) come strutture autonome dotate di un proprio diritto sui generis. Tutte queste imprese hanno un nucleo gerarchico “weberiano”, mentre sono tenute insieme da sanzioni negative e produzione di norme (anche sociali). Sono sistemi complessi che generano spontaneamente superiori livelli di differenziazione e principi generali e guida di processi sociali e integrazione. Attraversando il confine organizzativo (divenuto poroso in relazione ai diversi livelli e tipi di stakeholders) si nota che ognuna di queste organizzazioni verticali è parte di un “conglomerato più ampio” che comprende diversi attori e sistemi d’azione più o meno stabili di produttori, consumatori, autorità di regolamentazione (a livelli diversi di reciproca cattura e/o compromissione funzionale reciproca), che sono da concepire come un insieme di processi configurativi, funzionalmente definiti, capaci di produrre una convergenza di attese di comportamento a loro volta fondate su sistemi plurali e parzialmente sconnessi/sovrapposti di principi, norme e regole di opportuno livello. Si tratta del consolidamento di “fonti indipendenti di autorità” di nuovo genere rispetto all’autorità monopolista dello Stato-nazione. Un interessante esempio è nella definizione ed applicazione della “conoscenza scientifica” valida nell’ambito dell’analisi di rischio (articolazione del principio europeo di “precauzione”, o entro il comitato SPS dell’OMC).
Oppure “la spina dorsale dei regimi funzionali” (cioè, direi, lo snodo funzionale) è fatta presente dal lavoro di istituzioni specializzate nel giudizio e nell’ordinamento (apparentemente fattuale, in realtà sottilmente normativo) in classifiche globali. La creazione di benchmark, infatti, proietta uno spazio cognitivo globale, costringendo i suoi oggetti ad uniformità per avere successo (e, spesso, accesso a fondi e/o reputazione che ne sono la precondizione). I ranking e gli altri strumenti di benchmarks, dice l’autore, sono niente di meno che “la base costitutiva per universi funzionalmente delineati con portata globale”. L’integrazione di questi con strumenti di certificazione li potenzia ulteriormente.

In questa accezione, e numerose ulteriori possibili enumerazioni, “un gran numero di diverse forme di ordini normativi può essere osservato nello spazio transnazionale”. Essi “si scontrano come palle da biliardo” nello spazio da essi definito. Precisamente in uno spazio flessibile, influenzato dalla massa delle palle e dalla loro cinetica, e di natura intrinsecamente multidimensionale. Quel che all’inizio abbiamo chiamato “spazio quantico”. 



In questo spazio complesso (dotato di molteplici temporalità, anche esse influenzate da massa e cinetica degli attori in movimento), gli stati vedono la loro autonomia decisionale “strutturalmente limitata”. E sono costretti di fatto a “cercare la convergenza” con le norme prodotte da sé entro le dinamiche citate. La normatività interna dei mercati finanziari è solo un esempio. Un altro è quello della tecnologia, in particolare informatica.
Allora la sfida centrale per le organizzazioni statali, nel contesto contemporaneo, diventa per Kjaer di ridefinire sistemi di coerenza interna che mettano insieme, con il minore resto possibile, le aspettative autonomamente create nello spazio multidimensionale transnazionale. Tutte le dimensioni che etichettiamo come “nazionali” o “transnazionali” sono in realtà reciprocamente “profondamente impigliate ed intrecciate” (cit. Saskia Sassen).


Questa diagnosi fondata su materiali e strumenti sociologici, enfatizza il contributo delle entità transnazionali, sia pubbliche sia private, alla creazione di amministrazione o, comunque, di sostituti funzionali al governo. Cosa che Kjaer definisce una “specificità giuridica e politica” e addirittura ne fa il substrato per una “forma di ordine costituzionale” diversa da quella limitata ai soli stati-nazione. La connessione interna tra diritto e potere politico, di cui parla Habermas (ad esempio in Fatti e norme) è qui chiamata in causa e confrontata con la posizione di Luhmann che vede più una sintesi funzionale. L’autore sviluppa una critica abbastanza decisa alle “distinzioni manichee” di Luhmann, che velano la continuità, in toni di grigio, tra potere ed influenza che si dà nella società reale, in particolare nel contesto contemporaneo. Ciò rende il sistema politico nel suo insieme come “fenomeno gradualistico o concentrico” nel quale razionalità politica e “densità” ha andamento decrescente man mano ci si allontana verso la periferia meno regolata. Il problema è che questi termini topologici, come “centro/periferia”, assumono un’insopprimibile vaghezza (o un contestualismo sempre revocabile), “impalpabile”, alimentando una “incertezza sistematica”.

Riprendendo la concettualizzazione hegeliana dello stato come struttura tridimensionale (strutture istituzionali; entità che costituisce una collettività e confine verso gli altri stati) Kjaer ribadisce allora che nella sua visione il costante scontro per la definizione del confine tra sfere in cui è appropriato l’esercizio di razionalità politica e sfere esenti, esprime uno scontro di supremazia nel quale le configurazioni nazionali date non possono più presumere e pretendere di sussumere la società intera entro la propria razionalità definita ex ante, ma non sono neppure (come vorrebbe Luhmann) entità meramente metaforiche. Al contrario in tutta la società, attraversata come è da fratture orizzontali di sfere di senso ed organizzative sull’asse locale (comunitario), statuale, transnazionale, sono presenti quelle che chiama “forme politiche di comunicazione”, sia pure in modo altamente differenziato. Permane in questo senso mutato la connessione interna di cui parla Habermas nel suo libro del 1992.

Da una parte, quindi, vediamo molto bene la tendenza ad emarginare le forme democratiche tradizionali, accusate di non essere più adeguate alla rappresentazione dell’ipercomplesso mondo contemporaneo, soprattutto in relazione alla necessaria velocità e flessibilità, ed inoltre di essere legate per loro costruzione genetica e retroterra culturale-organizzativo a limitazioni territoriali ex ante. Cioè accusate di essere stabilite troppo saldamente nella definizione delle procedure e nelle articolazioni delle reti di attivazione consolidate e non più così centrali (o, almeno, con troppi “resti” bisognosi di regolazione).
Dall’altra assistiamo alla soluzione funzionale, ma insoddisfacente, di stabilire ad hoc partenariati diretti ed accordi specializzati (spesso con crescita delle relative istituzioni dedicate).
Oppure di lasciare proliferare, in forma autoorganizzata ma implicitamente autorizzata, organizzazioni costituzionali globali specializzate in ambiti di evidente interesse pubblico (nonché di potere), ma non direttamente statuali (o non riconducibili ad un solo stato) che svolgono l’importante funzione di stabilizzare i sistemi attraverso una produzione secondaria di norme.

Anche in queste organizzazioni semiprivate (dove il “semi” riferisce alla natura del bene organizzato, più che alla sua forma giuridica prime facie) si determina, per l’autore, una dinamica politica. Ad esempio, la corte di arbitrato per lo sport sviluppa norme aventi carattere legale per gli associati e gli stakeholders in riferimento alla complessa dinamica propriamente politica che si determina nel Comitato Olimpico Internazionale (dinamica sensibile a tratti anche alla “alta” politica, come si intravede in occasione di scelte dirimenti come la sede delle olimpiadi). Oppure, altro esempio ben noto, il FMI è a tutta evidenza una istituzione “genuinamente politica” che prende, con insufficienti requisiti di trasparenza e notevole dose di falsa coscienza, decisioni vincolanti (ed a volte devastanti, come durante la crisi greca) muovendosi sotto la guida di una “razionalità politica” che piega la più apparente “razionalità economica”. L’esempio è il calcolo del “moltiplicatore” (negativo dell’austerità) che contro ogni logica è stato definito in 0,5 su pressioni politiche di più paesi europei e presumibilmente anche degli USA, malgrado le opposizioni ragionevoli (ad esempio del membro brasiliano) entro il board. 


Queste strutture si trovano, insomma, ad essere “in mezzo”. Ed a configurarsi come “terre di nessuno” nelle quali “diversi ordini normativi si scontrano in quanto diversi ambiti di significato sono in collisione”. I termini chiave dello scontro diventano la definizione degli stakeholders (è del tutto evidente che includere tra i primi soprattutto le banche creditrici, o il popolo greco faceva una grande differenza), la trasparenza (se i verbali dello scontro nel board fossero stati pubblicati tempestivamente la decisione non sarebbe stata presa in quella forma), l’autorappresentanza (quindi anche la modalità di costituzione della governance) e la responsabilità. Questi quattro termini prendono il posto funzionale di “nazione”, “sfera pubblica”, “rappresentazione” e “delegazione” nella politica nazionale.
Ma c’è una differenza: “i concetti transnazionali hanno una componente cognitiva di gran lunga superiore rispetto ai loro omologhi dello stato-nazione”. Il maggior grado di incertezza (basti pensare al concetto-chiave di stakeholders, rispetto a quello territorialmente definito di nazione) lo rende insieme più flessibile e molto più esigente. Ma anche più esposto al rischio di essere svuotato (ancora l’esempio del FMI nella decisione greca iniziale).
Lo stesso si può dire del criterio della trasparenza, sostituto funzionale della sfera pubblica nella dinamica dello stato-nazione. O l’autorappresentazione, che impone il vincolo autoassunto della coerenza ed espone le quasi-istituzioni transnazionali al rischio di essere prese in delitto di contraddizione performativa (anche e soprattutto da parte dei loro numerosi avversari).


Dunque queste strutture, prese nel loro insieme e nel quadro della dinamica che istituiscono, per l’autore non sono propriamente antidemocratiche, ma più a-democratiche. Sono, cioè, “al di là della democrazia” (nazionale). Si tratta di sistemi di ordinamento che sono emersi in modo incrementale e nel corso di decenni. E facendo di volta in volta seguito ad emergenti esigenze di funzionalità impellenti.
È solo dall’attrito di regolazione, e dallo scontro reciproco, nonché con le strutture statuali e gli interessi che restano locali (in primis quelli dei meno mobili e dei più fragili), che nasce “ex post” la dimensione politica. Partendo dall’esigenza di sfruttare esigenze scoperte e problemi sociali concreti, queste strutture si trovano, man mano che avanza il processo di istituzionalizzazione, a sviluppare una sorta di “coscienza politica” ed insieme a produrre forme di ordine sociale. Spesso “ob torto collo”.

Insomma, “nel mondo transnazionale il perseguimento di obiettivi politici non è la ragion d’essere primaria”, ma si presenta egualmente, come “una sorta di confine” che viene (o meglio  può essere) attraversato nella dinamica concreta d’azione e sotto pressione delle circostanze. Quando accade, sotto pressione dei conflitti, può emergere una “comunità politica” dalle pieghe della “comunità di legge”.

Almeno questo è l’auspicio dell’autore (e, in termini molto diversi anche in termini di attori sociali, anche di autori come Michael Hardt e Antonio Negri in “Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione”, 2000, per dire del carattere aperto del nodo messo in luce).

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