L’articolo
di Poul Kjaer, che insegna a Francoforte alla Goethe University, è contenuto in
un libro collettaneo di Christian Jorges e Tommi Ralli, dal titolo “Dopo la globalizzazione – nuovi schemi di
conflitto e la loro ricostruzione legale e sociologica”, del 2011. Mi è
stato segnalato da un amico che colgo l’occasione di ringraziare vivamente.
In effetti il
contributo di Kjaer illumina quello che molto spesso si manifesta come un punto
cieco del nostro sguardo sul mondo, consentendoci di ripensare in modo più profondo
il nesso tra forme statuali consolidate e sistemi di governance plurali (e
altamente conflittuali) nello spazio quantico dell’emergente transizione in
corso. L’evidenza di questa transizione è l’enigma verso il quale sono
continuamente tentate mosse adattive, ed entro il quale proliferano
innumerevoli scontri d’ordine che strutturano la contemporaneità.
L’argomento
dell’autore è che quello che chiama “spazio
transnazionale” è in realtà coevo, e funzionalmente sia connesso sia
necessario, al principio organizzativo e allo spazio costitutivo che chiamiamo
“spazio nazionale”. Lo è sempre
stato; infatti sin dall’inizio il rapporto tra le strutture nazionali e quelle
transnazionali si è configurato come “reciproca crescita”. Gli stati nazionali,
che l’autore vede come essenziale invenzione europea, sono andati incontro ad
un processo di progressivo consolidamento insieme alla crescita
dell’internazionalismo colonialista da una parte, ed a accordi (come la Commissione Centrale per la navigazione del
Reno, istituita durante il Congresso di Vienna del 1815) definitori di
spazi internazionali di regolazione.
La tesi di Kjaer
è che questo “spazio transnazionale”, oltre ad avere una sua logica
(indipendente da quella dello stato, come dalle forme di coesione sociale ed
integrazione culturale e politica sottostatali), ha anche la caratteristica di
essere una sorta di “conglomerato di
autostrutture [eigensrukturen]” che riproduce nel suo esistere e riprodursi
forme autonome di modelli sociali. Determina, cioè, anche integrazione sociale
(e politica). In conseguenza, “il mondo è caratterizzato da un livello plurale
di strutture in formazione con diverse e distinte, ma intrecciate, logiche che
operano allo stesso tempo”. Una cosa che è già successa nel passaggio dallo
stato feudale a quello moderno (e dal feudalesimo al capitalismo,
aggiungo).
Kjaer vede,
rischiosamente (a causa della possibilità di scivolare in categorie compromesse
con la filosofia della storia), in questo modo la dimensione dello spazio
interstatale come un “terzo livello”
sovrapposto e compresente di organizzazione sociale ed integrazione culturale
(politica ed antropologica): le vecchie
strutture feudali, in alcuni casi ancora presenti, lo stato nazionale e, infine, il “terzo strato” determinato dal
modello sociale di riproduzione del “regno
transnazionale”. Il segmento centrale, lo stato nazionale, in questo
contesto non scomparirà, ma viene ricollocato e, soprattutto, si trova in un
conflitto strutturale tra principi organizzativi. Mentre esso è infatti fondato
sul “principio territoriale di organizzazione” (e quello sottostatale su forme
di gerarchia intrecciate ad omogeneità ascrittiva, ovvero “comunitaria”),
l’ordinamento transnazionale si fonda su un principio di differenziazione
funzionale.
Se questo è
plausibile, la sfida diventa comprendere, liberandosi di occhiali obsoleti,
come i “diversi strati” della società mondiale fattualmente presente
interagiscono con la “moltitudine” degli ordini sociali che operano entro di
essi e negli interstizi.
Questi sistemi
funzionali, che sfuggono al nostro sguardo in quanto principi ordinatori sia
sociali sia politici, sono il sistema della scienza, quello dei mass media,
dello sport, e anche dell’educazione. Oltre, naturalmente, l’economia.
Tutti “sistemi”
(termine che sembra transitare in questo discorso da Luhmann) che tendono a
sollevarsi dal principio di stabilizzazione e legittimazione a base
territoriale, articolando e differenziando una stratificazione di natura funzionale, che però va oltre nel
suo farsi. Si tratta comunque di “una
rottura qualitativa rispetto alla modernità classica” e di sistemi non solo
pubblici (spesso privati, talvolta misti) “emersi” a partire da conflitti
bisognosi di regolazione e per i quali i confini statuali erano drasticamente
inadeguati (gli esempi sono ICANN per internet, OMS per la salute, ISO per gli
standard di prodotto). Da questi esempi di Kjaer si vede bene come l’invito è
ad attraversare le nostre categorie, ed i “cassetti” nei quali mettiamo in
nostri attrezzi, per aprire lo sguardo a panorami diversi.
Questo processo,
accelerato durante la seconda metà del XX secolo, potrebbe essere ancora ai
suoi inizi, e non comporterà il semplice transito ad uno Stato-nazione a scala
mondiale (cioè ad un impero costituito); ma potrebbe portare ad un
potenziamento di una poliarchia strutturalmente diversa da quella all’opera
entro lo stato nazione. Questa considerazione, che condivido, mostra anche il
grande rischio davanti al quale la società contemporanea è nel superamento
della grande conquista del novecento (la poliarchia nazionale) in favore di
dinamiche plurali e potenzialmente oscure. Questo
rischio, sul quale spesso ci siamo esercitati, rende però ancora più necessario
disporre di categorie in grado di vedere cosa succede e, come vedremo, di
rafforzare gli elementi di razionalità e politica integrativa pure presenti ed
all’opera in queste dinamiche. Categorie in grado di identificare le arene
attive e gli strumenti utilizzabili per agire in esse.
Questa è la
dimensione nella quale articoli come questo sono preziosi (pur nella
rischiosità e provvisorietà di alcune
sue letture).
Molte di queste
strutture (e qui, ci si riferisce alle istituzioni politiche, comunque
scaturite originariamente da trattati internazionali) hanno progressivamente,
anche se a ben vedere già da prima del loro inizio formale, rafforzato un
livello di autonomia che le rende impossibili da comprendere davvero come
semplici riflessi di una delega. Cioè esito semplicemente di una contrattazione
inter-statale. Queste strutture sono l’Unione Europea, il WTO, e la Banca
Mondiale. Tutte strutture produttrici di norme dotate di una propria dinamica
non riducibile senza resti alla intersezione delle volontà statuali
costituenti. Ognuna nasce come effetto complesso (basato su compromessi,
equivoci, veri e propri tradimenti, esercizio di potere e attivazione di
razionalità e sistemi di norme) dell’autonomizzarsi di un campo di problemi che
si qualifica e candida come intrattabile nei termini dei singoli stati-nazione.
E che si qualifica anche come indisponibile alla semplice forma del Trattato
interstatale, cioè del mero scambio di potenza.
Poi ci sono
quelle private, come molte multinazionali, molte strutture professionali (studi
legali internazionali, grandi società di consulenza, di progettazione e
normazione), ONG internazionali, network ambientalisti, think-thanks
autorevoli. Tutte queste organizzazioni sono capaci di autonormarsi e di
diventare, di fatto, fonti di ordinamenti sociali e di definizione cognitiva. Sono
dimensioni di autorganizzazione, fonte di integrazione sia sociale sia politica
(e cognitiva), che operano “al di là
della sfera pubblica” nazionale. “Una
vasta gamma di configurazioni funzionalmente delineate all’interno dello spazio
trasnazionale in termini di conglomerati normativi [attivi] in settori come
l’economia, la scienza, i mass media, lo sport, l’ambiente e così via”;
tutte caratterizzate da un’elevata e complessa interazione tra dimensioni
pubbliche e private.
La società
globale, nel suo funzionamento effettivo, dipende insomma ormai da forme
strutturali di creazione di ordine (e regolazione di attese di comportamento)
che non dipendono solo, o neppure principalmente, dal principio della totalità
delle attribuzioni ad un centro statuale sovrano (cioè autonomo e potente), ma
da intrecci funzionali differenziati per specializzazione. Sul traffico
marittimo “conta” l’IMO, sulla sicurezza del volo l’ICAO, sul sistema bancario,
le norme alimentari, il commercio internazionale, le norme tecniche, …
E dall’altra
parte di una sorta di spazio continuo troviamo le imprese private
multinazionali che, partendo da un successo locale, sono progressivamente
emerse (insieme al dominio americano nel suo “secolo”, su questo Arrighi)
come strutture autonome dotate di un proprio
diritto sui generis. Tutte queste imprese hanno un nucleo gerarchico “weberiano”,
mentre sono tenute insieme da sanzioni negative e produzione di norme (anche
sociali). Sono sistemi complessi che generano spontaneamente superiori livelli
di differenziazione e principi generali e guida di processi sociali e
integrazione. Attraversando il confine organizzativo (divenuto poroso in
relazione ai diversi livelli e tipi di stakeholders) si nota che ognuna di
queste organizzazioni verticali è parte di un “conglomerato più ampio” che
comprende diversi attori e sistemi d’azione più o meno stabili di produttori,
consumatori, autorità di regolamentazione (a livelli diversi di reciproca
cattura e/o compromissione funzionale reciproca), che sono da concepire come un
insieme di processi configurativi, funzionalmente definiti, capaci di produrre
una convergenza di attese di comportamento a loro volta fondate su sistemi
plurali e parzialmente sconnessi/sovrapposti di principi, norme e regole di
opportuno livello. Si tratta del consolidamento di “fonti indipendenti di
autorità” di nuovo genere rispetto all’autorità monopolista dello
Stato-nazione. Un interessante esempio è nella definizione ed applicazione
della “conoscenza scientifica” valida nell’ambito dell’analisi di rischio
(articolazione del principio europeo di “precauzione”, o entro il comitato SPS
dell’OMC).
Oppure “la spina
dorsale dei regimi funzionali” (cioè, direi, lo snodo funzionale) è fatta
presente dal lavoro di istituzioni specializzate nel giudizio e
nell’ordinamento (apparentemente fattuale, in realtà sottilmente normativo) in
classifiche globali. La creazione di benchmark, infatti, proietta uno spazio
cognitivo globale, costringendo i suoi oggetti ad uniformità per avere successo
(e, spesso, accesso a fondi e/o reputazione che ne sono la precondizione). I
ranking e gli altri strumenti di benchmarks, dice l’autore, sono niente di meno
che “la base costitutiva per universi funzionalmente delineati con portata
globale”. L’integrazione di questi con strumenti di certificazione li potenzia
ulteriormente.
In questa
accezione, e numerose ulteriori possibili enumerazioni, “un gran numero di
diverse forme di ordini normativi può essere osservato nello spazio
transnazionale”. Essi “si scontrano come palle da biliardo” nello spazio da
essi definito. Precisamente in uno spazio flessibile, influenzato dalla massa
delle palle e dalla loro cinetica, e di natura intrinsecamente
multidimensionale. Quel che all’inizio abbiamo chiamato “spazio quantico”.
In questo spazio
complesso (dotato di molteplici temporalità, anche esse influenzate da massa e
cinetica degli attori in movimento), gli stati vedono la loro autonomia
decisionale “strutturalmente limitata”. E sono costretti di fatto a “cercare la
convergenza” con le norme prodotte da sé entro le dinamiche citate. La
normatività interna dei mercati finanziari è solo un esempio. Un altro è quello
della tecnologia, in particolare informatica.
Allora la sfida
centrale per le organizzazioni statali, nel contesto contemporaneo, diventa per
Kjaer di ridefinire sistemi di coerenza interna che mettano insieme, con il
minore resto possibile, le aspettative autonomamente create nello spazio
multidimensionale transnazionale. Tutte le dimensioni che etichettiamo come
“nazionali” o “transnazionali” sono in realtà reciprocamente “profondamente
impigliate ed intrecciate” (cit. Saskia Sassen).
Questa diagnosi
fondata su materiali e strumenti sociologici, enfatizza il contributo delle
entità transnazionali, sia pubbliche sia private, alla creazione di
amministrazione o, comunque, di sostituti funzionali al governo. Cosa che Kjaer
definisce una “specificità giuridica e politica” e addirittura ne fa il
substrato per una “forma di ordine costituzionale” diversa da quella limitata
ai soli stati-nazione. La connessione interna tra diritto e potere politico, di
cui parla Habermas (ad esempio in Fatti
e norme) è qui chiamata in causa e confrontata con la posizione di Luhmann
che vede più una sintesi funzionale. L’autore sviluppa una critica abbastanza
decisa alle “distinzioni manichee” di Luhmann, che velano la continuità, in
toni di grigio, tra potere ed influenza che si dà nella società reale, in
particolare nel contesto contemporaneo. Ciò rende il sistema politico nel suo
insieme come “fenomeno gradualistico o concentrico” nel quale razionalità
politica e “densità” ha andamento decrescente man mano ci si allontana verso la
periferia meno regolata. Il problema è che questi termini topologici, come “centro/periferia”,
assumono un’insopprimibile vaghezza (o un contestualismo sempre revocabile),
“impalpabile”, alimentando una “incertezza sistematica”.
Riprendendo la
concettualizzazione hegeliana dello stato come struttura tridimensionale
(strutture istituzionali; entità che costituisce una collettività e confine
verso gli altri stati) Kjaer ribadisce allora che nella sua visione il costante
scontro per la definizione del confine tra sfere in cui è appropriato
l’esercizio di razionalità politica e sfere esenti, esprime uno scontro di supremazia nel quale le
configurazioni nazionali date non possono più presumere e pretendere di
sussumere la società intera entro la propria razionalità definita ex ante, ma
non sono neppure (come vorrebbe Luhmann) entità meramente metaforiche. Al
contrario in tutta la società, attraversata come è da fratture orizzontali di
sfere di senso ed organizzative sull’asse locale (comunitario), statuale,
transnazionale, sono presenti quelle che chiama “forme politiche di comunicazione”, sia pure in modo altamente
differenziato. Permane in questo senso mutato la connessione interna di cui
parla Habermas nel suo libro del 1992.
Da una parte,
quindi, vediamo molto bene la tendenza ad emarginare le forme democratiche
tradizionali, accusate di non essere più adeguate alla rappresentazione
dell’ipercomplesso mondo contemporaneo, soprattutto in relazione alla
necessaria velocità e flessibilità, ed inoltre di essere legate per loro
costruzione genetica e retroterra culturale-organizzativo a limitazioni
territoriali ex ante. Cioè accusate di essere stabilite troppo saldamente nella
definizione delle procedure e nelle articolazioni delle reti di attivazione
consolidate e non più così centrali (o, almeno, con troppi “resti” bisognosi di
regolazione).
Dall’altra
assistiamo alla soluzione funzionale, ma
insoddisfacente, di stabilire ad hoc partenariati diretti ed accordi
specializzati (spesso con crescita delle relative istituzioni dedicate).
Oppure di lasciare proliferare, in forma
autoorganizzata ma implicitamente autorizzata, organizzazioni costituzionali
globali specializzate in ambiti di evidente interesse pubblico (nonché di
potere), ma non direttamente statuali (o non riconducibili ad un solo stato)
che svolgono l’importante funzione di stabilizzare i sistemi attraverso una
produzione secondaria di norme.
Anche in queste
organizzazioni semiprivate (dove il “semi” riferisce alla natura del bene
organizzato, più che alla sua forma giuridica prime facie) si determina, per l’autore, una dinamica politica. Ad esempio, la
corte di arbitrato per lo sport sviluppa norme aventi carattere legale per gli
associati e gli stakeholders in riferimento alla complessa dinamica
propriamente politica che si determina nel Comitato
Olimpico Internazionale (dinamica sensibile a tratti anche alla “alta”
politica, come si intravede in occasione di scelte dirimenti come la sede delle
olimpiadi). Oppure, altro esempio ben noto, il FMI è a tutta evidenza una
istituzione “genuinamente politica” che prende, con insufficienti requisiti di
trasparenza e notevole dose di falsa coscienza, decisioni vincolanti (ed a
volte devastanti, come durante la crisi greca) muovendosi sotto la guida di una
“razionalità politica” che piega la più apparente “razionalità economica”.
L’esempio è il calcolo del “moltiplicatore” (negativo dell’austerità) che
contro ogni logica è stato definito
in 0,5 su pressioni politiche di più paesi europei e presumibilmente anche
degli USA, malgrado le opposizioni ragionevoli (ad esempio del membro
brasiliano) entro il board.
Queste strutture
si trovano, insomma, ad essere “in mezzo”.
Ed a configurarsi come “terre di nessuno”
nelle quali “diversi ordini normativi si scontrano in quanto diversi ambiti di
significato sono in collisione”. I termini chiave dello scontro diventano la
definizione degli stakeholders (è del
tutto evidente che includere tra i primi soprattutto le banche creditrici, o il
popolo greco faceva una grande differenza), la
trasparenza (se i verbali dello scontro nel board fossero stati pubblicati
tempestivamente la decisione non sarebbe stata presa in quella forma), l’autorappresentanza (quindi anche la
modalità di costituzione della governance) e la responsabilità. Questi quattro termini prendono il posto
funzionale di “nazione”, “sfera pubblica”, “rappresentazione” e “delegazione”
nella politica nazionale.
Ma c’è una
differenza: “i concetti transnazionali hanno una componente cognitiva di gran
lunga superiore rispetto ai loro omologhi dello stato-nazione”. Il maggior
grado di incertezza (basti pensare al concetto-chiave di stakeholders, rispetto
a quello territorialmente definito di nazione) lo rende insieme più flessibile e molto più esigente. Ma anche più esposto al rischio di essere
svuotato (ancora l’esempio del FMI nella decisione greca iniziale).
Lo stesso si può
dire del criterio della trasparenza, sostituto funzionale della sfera pubblica
nella dinamica dello stato-nazione. O l’autorappresentazione, che impone il
vincolo autoassunto della coerenza ed espone le quasi-istituzioni
transnazionali al rischio di essere prese in delitto di contraddizione
performativa (anche e soprattutto da parte dei loro numerosi avversari).
Dunque queste
strutture, prese nel loro insieme e nel quadro della dinamica che istituiscono,
per l’autore non sono propriamente antidemocratiche, ma più a-democratiche. Sono, cioè, “al di là della democrazia” (nazionale).
Si tratta di sistemi di ordinamento che sono emersi in modo incrementale e nel
corso di decenni. E facendo di volta in volta seguito ad emergenti esigenze di
funzionalità impellenti.
È solo
dall’attrito di regolazione, e dallo scontro reciproco, nonché con le strutture
statuali e gli interessi che restano locali (in primis quelli dei meno
mobili e dei più fragili), che nasce “ex
post” la dimensione politica. Partendo dall’esigenza di sfruttare esigenze
scoperte e problemi sociali concreti, queste strutture si trovano, man mano che
avanza il processo di istituzionalizzazione, a sviluppare una sorta di
“coscienza politica” ed insieme a produrre forme di ordine sociale. Spesso “ob
torto collo”.
Insomma, “nel
mondo transnazionale il perseguimento di obiettivi politici non è la ragion
d’essere primaria”, ma si presenta egualmente, come “una sorta di confine” che
viene (o meglio può essere) attraversato
nella dinamica concreta d’azione e sotto pressione delle circostanze. Quando
accade, sotto pressione dei conflitti, può emergere una “comunità politica”
dalle pieghe della “comunità di legge”.
Almeno questo è
l’auspicio dell’autore (e, in termini molto diversi anche in termini di attori
sociali, anche di autori come Michael Hardt e Antonio Negri in “Impero. Il nuovo ordine della
globalizzazione”, 2000, per dire del carattere aperto del nodo messo in
luce).
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