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venerdì 25 settembre 2015

Robert M. Solow, “Lavoro e welfare”


Robert Solow in questo libro riproduce le Tanner Lectures tenute a Princeton nel 1998, due anni dopo l’approvazione da parte del Congresso americano della fondamentale nuova legge sul welfare voluta da Clinton. Solow è un economista importante, premio nobel nel 1987, allievo di Leontief, ha insegnato alla Columbia ed al MIT. Si tratta di un economista espressione della cosiddetta “sintesi neoclassica” (della quale abbiamo parlato qui, attraverso l’opinione di Minsky, che certo non l’amava) come ricorderà nelle sue repliche. È l’autore di uno dei modelli più usati (in cui la crescita è spiegata con l’incremento degli input di capitale e lavoro e con il “residuo” del progresso tecnologico), e successivamente con la revisione che include il “capitale umano” entro il capitale modellato e approfondisce il ruolo del progresso tecnologico. Inoltre è l’autore della “teoria dei salari di efficienza” (che cerca di comprendere perché spesso le imprese paghino salari più alti per massimizzare efficienza e fedeltà dei lavoratori). È anche protagonista di alcune polemiche con Lucas, al quale peraltro risponde con apprezzabile ironia.
Dunque Solow è uno specialista del tema del lavoro e della crescita economica.


Ma cosa è successo nel 1996? Clinton era in cerca della sua rielezione e puntò su una svolta verso quello che percepiva come il “centro politico” (secondo la teoria che lì si vincono le elezioni), dunque promosse una profonda (“epocale”) riforma del welfare state, secondo il principio che questo disincentivava le persone dalla ricerca del lavoro e che quindi queste dovessero essere costrette a darsi da fare. Un’idea simile sovraintende in quegli anni alle riforme tentate in Inghilterra (Blair, 1998) e poi Germania (Schoreder, dal 2002), o secondo la proposta di Tito Boeri del 2000. Sono le famose “politiche attive del lavoro”.

Solow è d’accordo sul principio, ma del tutto contrario alla sua applicazione, come vedremo.

Quel che le riforme del ’96 fanno è, infatti, molto radicale: aboliscono del tutto la definizione federale (che era stata introdotta negli anni trenta) dei requisiti per avere diritto all’accesso all’assistenza. Da allora ogni stato dovrà gestirsi il proprio budget e secondo il principio del work requirement e del time limits (i sussidi sono subordinati alla disponibilità, dell’assistito, di accettare le offerte di lavoro alle condizioni offerte dal mercato –ad esempio un ingegnere che si vedesse offrire un posto da cameriere a basso salario dovrebbe accettare o perdere i sussidi- e alla condizione ulteriore che nella vita non se ne possono usufruire per più di cinque anni complessivi). Inoltre sono radicalmente ridotti i programmi per l’immigrazione, per i buoni pasto (food stamps, che erano un salvataggio di ultima istanza, garantendo almeno che non si morisse di inedia), e per i figli a carico (sia un’integrazione al reddito, sia l’accesso al Medicaid al quale avevano accesso 9,5 milioni di bambini in 5 milioni di famiglie nel 1995).

Solow accusa queste riforme di esporre gli ex assistiti al rischio di condizioni degradanti e di essere ispirate da una logica punitiva, fondata anche su un’assoluta insufficienza di dibattito ed approfondimento. Obietta anche che il costo, per evitare il degrado e i danni sociali soprattutto ai minori esposti, sarebbe molto più grande del risparmio sperato e necessiterebbe di politiche del lavoro molto più attive (incluso la diretta creazione dello stesso). Il rischio, così stando le cose, è di aumentare invece la disoccupazione, a causa di alcuni feedback macroeconomici ben illustrati dalla tradizione keynesiana.

Nella prima lezione avvia la sua discussione ricordando Keynes e il fatto che i valori umani e l’economia debbano restare in profondo rapporto. Per essere precisi dice che “l’interesse per i valori umani non può fare a meno dell’economia”, infatti “la funzione dell’economia è quella di progettare delle istituzioni sociali che rendano possibile economizzare l’altruismo e vivere, nonostante tutto, in maniera tollerabile. I mercati concorrenziali, quando funzionano bene, sono istituzioni dotate del ragguardevole pregio di trasformare le azioni individuali, motivate da semplice avidità, in risultati ‘efficienti’, e quindi in certo qual modo, socialmente desiderabili. La limitata scorta di altruismo può quindi essere risparmiata per quelle occasioni in cui i mercati non funzionano bene, o per altre in cui i mercati, pur facendo il loro dovere, ci lasciano con degli esiti che il 51 per cento di noi – o il 61 per cento del senato americano – vorrebbe migliorare, anche se ciò significasse un certo costo personale” (p.3).
Qui c’è quasi tutto quel che Solow dirà: nella sua particolare mentalità l’attitudine umana che chiama “altruismo” (e che collega a “norme sociali” fattualmente presenti) è uno stock, come “l’autosufficienza” (che qualifica confusamente come “norma sociale, o virtù o ‘valore umano”). I due stock sono quindi dotati di un punto di “intersezione” (l’autore pensa, evidentemente, in modo matematico, o meglio geometrico) che si tratta di ottimizzare. Dunque da qui nasce la strana idea di “economizzare l’altruismo”, cioè spenderne meno possibile conseguendo comunque risultati “tollerabili”.
Ma c’è di più: i mercati, che mettono in relazione immaginarie “azioni umane motivate da semplice avidità” (una cosa non presente in natura ma solo in qualche modello matematico) in modo da dare risultati “efficienti” (tra virgolette nel testo) e socialmente desiderabili (dunque), consentono di “risparmiare” la “scorta” di altruismo per i casi che poi evidenzierà. La sua idea è che lasciando fare tutto al mercato (come vorrebbe la legge approvata) si ottengono risultati non tollerabili, per persone con i nostri orientamenti morali (che si disturbano, ad esempio, a vedere milioni di bambini denutriti), e quindi bisognerà alla fine impiegare una parte dello stock lasciato libero di “altruismo” con qualche soluzione ad hoc. In altre parole il mercato lascerà le persone “autosufficienti” (dato che non sono più assistite), ma in alcuni casi in condizioni inaccettabili; dove fallirà ci dovrà pensare l’altruismo impiegato direttamente per essi.
Il caso opposto (piena assistenza senza limiti temporali per tutti coloro i quali ne hanno bisogno) lede, infatti, la “salute morale” delle persone, lasciandole in una “irresistibile tentazione di dipendenza”. Questo era in effetti il movente sbandierato apertamente dalla riforma, e che Solow condivide.
Però l’economista sa anche che “il mercato lasciato libero di agire abbandona una certa porzione di cittadini, che spesso include numerosi bambini, in uno stato di profonda indigenza”. In questi casi è importante sapere se la causa è il mercato stesso, o l’inadeguatezza delle persone.

Come sia, la cosa non può essere guardata solo dal lato dell’offerta, come se bastasse “che i cani randagi si comportino come cani da riporto perché la selvaggina cominci ad abbondare”. In verità la cosa è molto più complicata e intanto molti “cani” non hanno effettivamente le attitudini richieste per prendere la selvaggina, poi è questa ad essere il problema, ma su questo tornerà nella seconda lezione. Per assumere qualcuno ci vuole in sostanza la necessità, cioè la domanda.
Il punto per ora è che le persone hanno una dotazione variabile (quanto non è valutabile, dunque è ignorato nella concettualizzazione) di due caratteristiche distintive: la capacità di produrre reddito e la volontà di essere autosufficienti (p.19). Alcuni hanno la prima ad un livello del tutto insufficiente a condurre una vita dignitosa e sicura.
Allora che succederebbe se i sussidi salissero? Che più persone si gioverebbero del welfare (man mano che la loro capacità di reddito fosse raggiunta dal livello di sussidio), perdendo in autonomia. Ma questa dinamica eroderebbe la scorta di altruismo nelle classi medie che sostengono le spese di welfare. Qui c’è un punto di equilibrio.
Quale altro punto si raggiunge se si va nella direzione opposta? Cioè se il sussidio è sostituito da un obbligo di lavoro? In questo caso tutti quelli che hanno poca dotazione di capacità di produrre reddito sarebbero spinti ad una condizione di povertà più profonda, e dovrebbero lavorare solo per restare a galla (diciamo almeno per l’equivalente del vecchio sussidio), accettando qualsiasi offerta. In questo equilibrio, alla fine (cioè se il lavoro è fattualmente disponibile ed utile) ci sarebbe un equilibrio migliore del precedente per Solow, perché la seconda caratteristica è più forte senza perdite nella prima (cioè le persone sopravvivono e sono più autonome).

Ma questa rappresentazione è completa e realistica? E’ ciò che l’autore si chiede nella seconda lezione. In realtà ciò che è desiderabile di rado si sposa con ciò che è attuabile. L’immediato ingresso “forzoso” nel mondo del lavoro degli ex assistiti del welfare provoca invece effetti a cascata. Infatti la posizione che qualifica “estrema”, secondo la quale il lavoro è infinitamente elastico e basta solo raggiungerlo per averlo (cioè quella che vede l’unico problema nelle pretese di remunerazione troppo alte dei “fannulloni”) non “descrive bene il nostro mondo”. D’altra parte il lavoro non è neppure totalmente rigido (e dipendente solo dalla domanda di servizi o di beni espressa dalla società), perché conserva una qualche “capacità di adattamento”.
Ciò che succederebbe in un mondo realistico (che è in qualche punto in mezzo, più vicino al secondo modello) è che la forza lavoro dequalificata, costretta a mettersi in gioco a qualsiasi prezzo, spingerebbe verso il basso i salari dei lavoratori appena più qualificati. Un datore di lavoro potrebbe scegliere di sostituire due lavoratori attivi con tre lavoratori ex –welfare più economici (ma da formare). Ma questi due, ex lavoratori a questo punto si rimetterebbero in cerca di lavoro sospingendo giù i salari dei lavoratori “di secondo livello” (cioè ancora più qualificati di un piccolo gradino), e li sostituirebbero. Così via fino a qualche livello intermedio nel quale l’onda si smorzerebbe.
Tutto questo “rimescolamento” avrebbe anche implicazioni macroeconomiche, agendo sulla domanda aggregata e sugli altri fattori strutturali dell’economia (inclusa la produttività e l’attitudine all’innovazione, entrambe danneggiate), ed avremmo alla fine “un’economia con un salario complessivamente più basso”. Cosa che è probabilmente lo scopo originario di alcuni nella manovra.

E questo cosa provocherebbe? Anche qui ci sono due scuole diverse, quella che fa leva sulla carenza di domanda e pronostica un incremento di disoccupazione “keynesiana”. E quella che invece pensa che la disoccupazione (detta “classica”) sia provocata dall’inibizione delle imprese a produrre di più a causa dei salari troppo alti, ed immagina che quindi questa sia la strada per la piena occupazione e pieno impiego dei fattori di produzione (macchinari, capannoni, etc). Il problema è che se ha ragione la prima il processo di deflazione salariale potrebbe portare più disoccupazione.

Come contrastare questi effetti? La ricetta dell’economista è semplice, “bisognerà deliberatamente creare un adeguato numero di posti di lavoro per gli ex assistiti, o attraverso una qualsiasi forma di impiego nel settore pubblico, o attraverso l’estensione di speciali e sostanziosi incentivi al settore privato (profit e no profit)” (p. 43). E farlo “in quantità, localizzazione e forma adatti alle persone che dovranno occuparli”.


Sapendo che, nelle condizioni delle nostre società orientate ai servizi e fortemente trasformate dall’impatto delle tecnologie labor-saving bisognerà “nuotare contro corrente” (p. 44). 

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