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lunedì 21 settembre 2015

Conflitti distributivi e lavoro: passato e futuro.


Gli ultimi quaranta anni hanno visto un punto di discontinuità che i dati mostrano intorno al 1973, quando prende l’avvio il neomodello post-Bretton Woods aperto da Nixon. Gli eventi vanno sempre a grappolo, e intersecano una dialettica delle durate (come diceva Braudel) nella quale è estremamente arduo definire cause e soprattutto loro direzioni. Tuttavia mi pare che nell’economia-mondo (ancora termine braudeliano, poi di Wallerstein e di Arrighi) occidentale, ed in particolare nella sua area centrale, gli Stati Uniti, si legga molto bene un punto di flesso nelle dinamiche distributive essenziali che risale a quella data determinando tendenze che non accennano a terminare.

Il grafico, molto famoso, è di Lawrence Mishel e di Jos Bivens, che firmano insieme un ulteriore rapporto molto interessante sulla divergenza tra la produttività e il salario del tipico lavoratore. Esso rappresenta l’incremento cumulativo della produttività associato con quello del salario medio del lavoratore “tipico” (cioè del lavoratore “non supervisory”).
Come si vede benissimo l’incremento era associato in modo perfetto fino al 1973 (ogni incremento di produttività veniva trasferito proporzionalmente al lavoro e, in particolare, alla stragrande maggioranza dei lavoratori) ma poi si dissocia bruscamente. Durante i primi anni di crisi (dovuta allo shock petrolifero e dei costi delle materie prime ed all’inflazione importata che ne deriva insieme alla crisi) degli anni settanta sono calati entrambi gli indicatori, ma poi la produttività ha ricominciato a salire (anche se con un andamento leggermente inferiore fino al termine degli anni novanta) mentre i salari orari del lavoratore “tipico” sono calati fino al 2000 aprendo una voragine. Un breve periodo (circa tra 1998 e 2003) ha visto, negli USA, un leggero incremento del compenso (effetto di modesto gocciolamento) mentre la produttività volava con andamento più che triplo. Dal 2005-7 in poi sostanzialmente si fermano entrambe (con un saltino solo per la produttività).
Quindi abbiamo un incremento di produttività cumulato del 73% nel periodo dal 1973 al 2014, a fronte di un risibile incremento di salari orari del 9,2%, per lo più concentrato in un quinquennio a cavallo tra gli anni novanta e duemila (periodo di crescita vigorosa ed entusiasmo in USA). Come scrivono gli autori “la produttività netta è cresciuta del 1,33 % ogni anno tra il 1973 e il 2014, più velocemente del magro 0,20 % di aumento annuale della retribuzione oraria media. In sostanza, circa il 15 % della crescita della produttività tra il 1973 e il 2014 si è tradotta in incremento degli stipendi orari e altri benefici per il lavoratore tipico americano”. L’85% del vantaggio è andato ad altri.

Il grafico successivo mostra qualcosa di molto interessante. Questa crescita di produttività del 72% nel periodo 1973-2014 si trasferisce in una crescita della quota di valore trasferita ai produttori (l’indicatore calcola la crescita media della retribuzione totale deflazionata facendo uso del deflattore del prodotto interno netto) del 63%. È dunque del 9% la quota di valore derivante dall’incremento di produttività che nel periodo si trasferisce alla remunerazione del capitale impiegato, riducendo la quota attribuita agli input di lavoro qualsiasi siano. Il dato, come evidenzia lo stesso Mishel, è peraltro sottostimato in quanto parte delle remunerazioni di manager, star e famiglie, è derivante da redditi da capitale, e questa quota è in dimostrata crescita.
Poi si ha una linea che rappresenta la crescita della retribuzione oraria media calcolata in modo tradizionale (cioè la retribuzione oraria media totale deflazionata con i consumi interni totali) includendo tutti i lavoratori (cioè anche i lavoratori della conoscenza e il management). Questa linea cresce nel periodo del 42%. Il divario tra le due linee superiori ed inferiori è dagli autori chiamato “divario delle ragioni di scambio”.
Sotto la linea dell’incremento del reddito dei lavoratori non “top”, che cresce di un modesto 8,7 % e allarga una forbice con il totale dei redditi (+42%). Questo è il divario tra il reddito mediano e quello “top” che si è allargato costantemente negli ultimi quaranta anni.




Mishel, correttamente, pone l’accento sulle scelte politiche che hanno determinato questa grande divergenza, che non si è verificata nello stesso modo in tutti paesi (ad esempio, alcuni paesi del nord Europa sono riusciti ad ottenere a lungo risultati del tutto diversi), e su alcuni problemi metodologici (ad esempio sul rendimento del capitale che entra nella remunerazione dei top manager, ma anche delle famiglie che passano da un reddito aggiuntivo dell’ 11% negli anni settanta al 18% nel duemiladieci, o in generale pone difficoltà di misurazione con le quali a lungo si confronta Piketty).

Le cause di questa divergenza tendenziale, che si è registrata con maggiori o minori enfasi, sono diverse, come le obiezioni.
La scuola marginalista postula, ad esempio, che i salari siano determinati sempre dalla dinamica di domanda ed offerta applicata al contributo incrementale (marginale) del singolo lavoratore n.esimo al prodotto. I salari rappresentano, cioè, sempre le forze di mercato e sono essenzialmente in relazione con la produttività specifica. Dunque se c’è un allargamento del differenziale tra il compenso orario di alcuni e quello di altri (diciamo del Amministratore Delegato e dell’operaio) è perché il primo deve essere molto più produttivo. Precisamente che il primo ha incrementato la sua produttività mentre i secondi sono rimasti stagnanti.
Mishel obietta che l’istruzione e l’età dei lavoratori non direttivi (indicatori di “qualità del lavoro”, Fernald 2014) è cresciuta anche più della produttività negli ultimi anni. E che i maggiori input di capitale, espresso dalla disponibilità di tecnologie avanzate, sono a disposizione di tutti, non solo dei CEO.  “Tra i lavoratori a basso salario, per esempio, l'età media è aumentata da 32,4 a 35,1 anni tra il 1979 e il 2014, e la quota con almeno una partecipazione del college è passata dal 24,6 % al 45,0 % (Bucknor 2015). Analogamente, la mediana per lavoratore è passata da non avere esperienza del college nel 1979 ad avere almeno una certa esperienza universitaria entro il 2000 (Mishel et al. 2012). Inoltre, la percentuale di lavoratori americani che hanno visto il loro aumento di stipendio in tandem con la produttività è molto piccolo, esso non è più il 20 %, o addirittura il 10 %”.

Passiamo a guardare uno degli ambienti più significativi nei quali le politiche volte a distruggere la capacità contrattuale dei lavoratori di base, su cui attira l’attenzione Mishel, hanno avuto luogo: la trasformazione degli input di capitale sotto forma di macchinizzazione e informatizzazione crescente.
Iyanatul Islam, dell’ILO, descrive un meccanismo che, da una parte, vede un “effetto di sostituzione” (del lavoro con la tecnologia), che nel tempo ha eliminato molti quadri intermedi di controllo, ma anche molti lavoratori di base in tanti settori, accorciando la catena decisionale ed incrementando controllo –e potere- del top management sulle organizzazioni (vasta letteratura anni novanta da consultare utilmente). Dall’altra parte un “effetto reddito” che potrebbe agire in senso compensativo (la sostituzione, aumentando la produttività, tende a ridurre i costi di produzione ed i prezzi, cosa che aumenta il reddito reale disponibile, e dunque quello totale, e provoca la domanda di altri beni, che a sua volta stimola nuova occupazione).
Il primo effetto tende a ridurre i lavoratori impiegati, quindi ad incrementare gli esclusi dal mondo del lavoro ed i disoccupati, cosa che riduce il potere contrattuale dei restanti e tende ad abbassare i salari. Il secondo effetto potrebbe stimolare nuova produzione, lavorando in direzione opposta.

Quel che si è visto per ora è che i conflitti distributivi che costellano questa dinamica hanno visto vincenti i detentori e, in vario senso, i controllori del capitale. Quindi la quota rendita e quella attribuita al top management, o comunque ai primi cinque percentili, in grado di disporre di risorse scarse da valorizzare.
In altre parole il secondo effetto è, in realtà, un insieme di arene di scontro e distributive:
1-      di quanto si riducono i costi e di quanto i prezzi; in altre parole a chi va il dividendo? ad azionisti e manager o ai consumatori?
2-      Quindi, di chi aumenta il reddito reale?
3-      e quali beni vedono l'aumento della domanda?

Abbiamo avuto negli ultimi anni una moderata deflazione dei prezzi al consumo di base insieme ad una significativa inflazione dei beni distintivi -di lusso-; cioè abbiamo avuto divaricazione. Cosa che potrebbe spiegare la distanza tra la seconda curva (“produttori”, 63,3%) e la terza (“consumatori”, 42%).
Se sono state create nuove industrie è soprattutto in questo settore, dei beni “distintivi”, del lusso, e dei beni intermedi contemporaneamente di consumo e produttivi (quasi tutta l’elettronica). È il “settore dell’innovazione” di Moretti.



Guardando al futuro, Islam sostiene che  “basarsi passivamente sul settore privato per risolvere i rischi di disoccupazione nel futuro non sarà sufficiente. L'attivismo di Stato sarà essenziale per rendere il mondo del lavoro per domani migliore di quanto lo sia oggi. Ciò comporterà un rinnovato impegno per la piena e produttiva occupazione, adeguata qualificazione della forza lavoro, ed una ampia base misure di protezione sociale, politiche attive del mercato del lavoro, promuovere e proteggere i diritti dei lavoratori nei luoghi di lavoro, e inculcare una visione condivisa per il futuro attraverso deliberazioni democratiche tra le principali parti interessate”.

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