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sabato 10 dicembre 2016

John Maynard Keynes, “Moneta internazionale”, il progetto per Bretton Woods.


Con una interessante prefazione di Luca Fantacci, che cura la traduzione, è uscita da poco una raccolta completa degli scritti che Keynes, nel suo ruolo di consulente della Gran Bretagna ai colloqui di Bretton Woods, in attuazione di un incarico che riceve sin dai primi anni quaranta, affida a diverse occasioni ed interlocutori.

Quella che propone il grande economista inglese, affidandogli gli ultimi cinque anni della propria vita, è “una misura di disarmo finanziario”. Non credo esista un tema più rilevante oggi.


Nell’ultimo post era stato posto, sulla scorta di alcuni dibattiti altrove avviati, il problema della Nazione sullo sfondo di quello dell’internazionalismo imperiale che emerge proprio dal fallimento e revoca del compromesso di Bretton Woods, ma più profondamente dall’atteso fallimento che è inscritto in esso. Forse vale la pena, dunque, di ascoltare Keynes e comprendere quali erano i problemi ed i meccanismi ai quali il nazionalismo temperato uscito dalla Conferenza voleva dare soluzione. Quale era il “vino nuovo”, insomma, e quale cattiva “vecchia botte” lo ha rovinato.

All’inizio Keynes è coinvolto dal governo inglese, precisamente dal Ministero dell’Informazione, per rispondere alla propaganda nazista che il Ministro dell’Economia e Presidente della Reichsbank, Walther Funk, aveva sviluppato nel proporre un meccanismo di regolazione dei pagamenti internazionali alternativo all’oro. Ovviamente Keynes, che si era più volte espresso contro il Gold Standard (si può vedere, ad esempio, qui) non era “l’uomo adatto per predicare le bellezze ed i meriti del gold standard d’anteguerra”. Ma, senza tornare alla “reliquia barbarica” ed a quello che nella Teoria Generale aveva chiamato (come l’Euro, che è in effetti una forma di gold standard particolarmente rigida) “un metodo per porre i vantaggi di ciascun paese in contrasto con i suoi vicini”, per Keynes il piano tedesco ha difetti e pregi. Il difetto è il meccanismo bilaterale che impone, quindi la dipendenza dai rapporti di forza uno-a-uno, ma il pregio è l’idea che per scambiare servano beni e non moneta. La moneta non deve, infatti, essere confusa con una merce, come un bene in sé, ma ricondotta alla sua funzione primaria di unità di conto. Se si distingue l’unità di conto dalla riserva di valore, si evitano i rischi di tesaurizzazione e gli accumuli di potere che ne conseguono.
La questione, mi pare, è dunque di potere.

Vediamo meglio: se si accetta l’idea che in effetti per scambiare merci servono merci, e non è necessario accantonare la particolare “merce” che chiamiamo denaro (ovvero nella fattispecie oro), ne consegue che un sistema complessivo di scambi in compensazione potrebbe risolvere i nostri problemi. Prima che qualcuno salti su con obiezioni prima facie, ricordo qui che a dirlo è il massimo economista del novecento, in risposta ad un incarico pubblico serissimo (il più serio della storia della Gran Bretagna, in effetti) e al termine della sua lunga carriera.
Riflettendo sul concetto della moneta come “meccanismo”, qualificato dai beni che consente di acquistare (e non, ad esempio, i beni da questa), Keynes perviene, su incarico a questo punto del Ministro degli Esteri, ad un documento emesso il 25 novembre 1940 che si concentra sulla “ricostruzione economica”. Ecco il punto centrale: “ci impegniamo ad istituire un sistema di scambi internazionali che apra tutti i nostri mercati a ogni paese, grande e piccolo che sia, e che dia a ciascuno uguale accesso a tutte le fonti di materie prime che possiamo controllare o influenzare, sulla base di uno scambio beni contro beni”.

Carta Atlantica, con le annotazioni di Churchill

La prima versione concreta del progetto segue alla dichiarazione di intenti (sulla linea evidentemente della Carta Atlantica, concordata tra Roosevelt e Churchill nell’agosto 1941) e viene resa nota il 8 settembre 1941. Lo scopo è di costruire le migliori condizioni in cui possa dispiegarsi il libero commercio (al quale Keynes fu sempre favorevole) attraverso adeguate e simmetriche restrizioni su moneta e credito.
Secondo lui fino a che si parla di beni contro beni il libero commercio stimola infatti la divisione del lavoro e va a vantaggio di tutti (un’idea che Keynes tiene dai “classici”), ma quando il laissez-faire si applica alla moneta tutto cambia. Alcuni si specializzano nella produzione di debiti, e nell’accumulo di crediti resi mobili. La diversa natura dei “beni” scambiati (nella confusione della moneta come merce) fa sì che a questo punto alcuni si specializzino nella gestione di flussi di merci ed altri di capitali. Nell’insieme si finisce per avere un particolare squilibrio: a movimenti resi unidirezionali dalla specializzazione di merci si contrappongono flussi unidirezionali di capitali. Alla Germania ed alla Cina la City e New York.



A lungo termine ciò implica che alcuni si trovano ad essere creditori netti ed altri debitori, allora i flussi si dovranno invertire, perché i debiti siano ripagati ed i crediti siano spesi. Se non succede la cosa comincia ad assomigliare al quarto cerchio dell’inferno di Dante.



Avari e prodighi si contrappongono.
Alla fine il mercato finanziario è strutturalmente un antagonista, e mortale, del commercio. Braudel lo vede molto chiaramente, il mercato finanziario, che lui designa con termine “il capitale”, è un “anti-mercato”. Contrasta ed inibisce la circolazione dei beni e la loro stessa produzione.

Questa è anche l’opinione di Keynes.
Questo sistema produce solo “accumuli di denaro non speso e di debiti non ripagati”. Ovvero, io direi, accumuli di potere e di dipendenza, entrambi in cerca di vendetta. E di qui le tensioni che cercano, e più volte trovano, espressione nelle armi. E qualunque sistema di cattura dei debitori da parte dei creditori (come l’attuale Eurozona dell’Unione Europea) prepara quella civile, di guerra. In ogni caso, prima di arrivarci, dato che i debitori hanno l’arma del voto, prepara una soluzione politica traumatica. Il crollo prima del consenso e poi del sistema. Non a caso tutto (anche i passaggi più recenti) è rivolto a disinnescare questa arma (irresponsabilmente).

E comunque questo sistema produce l’effetto, a chi lo guardasse da Venere completamente assurdo, per cui un paese che ne ha mezzi e possibilità non riesce a vendere i propri prodotti (e dunque a produrli) non perché altri non ne abbiano bisogno, ma solo perché questi non dispongono delle riserve di valore atte a comprarli. E simmetricamente questo verso quello. L’impulso deflazionario si propaga nel mondo, come si vede benissimo da anni.
Si tratta di uno dei più antichi principi di giustizia e di eguaglianza, dare a ciascuno il suo, che vorrebbe conservare lo stesso rapporto che vi è reciprocamente tra i singoli contributi.

Il meccanismo pratico che Keynes propone è una Banca di Compensazione Internazionale, per consentire l’unità di conto e le compensazioni multilaterali che consentano a chiunque produca qualcosa di utile di farlo, fino a che ci sia qualcun altro che desidera quel bene e può a sua volta produrre qualcosa che serve a qualcun altro. Ci vuole una “Banca” e ci vuole una “moneta”. La seconda proporrà di chiamarla “Bancor”. L’idea è dunque molto semplice: generalizzare il meccanismo bancario attraverso una “moneta” puramente scritturale, che sia solo unità di conto, e che non possa essere spesa fuori del circuito, né accumulata senza danno.
La “Banca” sarà sempre in pareggio per definizione, non dovrà detenere riserve. Ogni paese (esattamente ogni Banca centrale) avrà un suo conto sul quale scriverà i crediti da esportazione e detrarrà i debiti da importazione. Se il conto si azzera (deficit di partire correnti) avrà la possibilità di “andare in rosso” per un certo tempo, in proporzione al suo commercio estero. La “moneta” sarà sempre proporzionale agli scambi, perché generata da questi.

Sentiamo la versione del 1941: “i paesi con una bilancia dei pagamenti favorevole rispetto al resto del mondo si ritroverebbero titolari di un credito nei confronti della Banca di Compensazione, e quelli con una bilancia sfavorevole registrerebbero un debito”. Naturalmente, per evitare comportamenti irresponsabili, “saranno necessarie delle misure per impedire l’accumulo illimitato di crediti e debiti, e nel lungo periodo il sistema dovrà considerarsi fallito, se non avrà sviluppato la capacità di auto equilibrarsi per impedire questi accumuli” (p.74). Il sistema è chiuso (come il pianeta) ma insieme non è una prigione, chiunque con preavviso (di un anno) può uscirvi. Fino a che un paese è nell’accordo i suoi surplus possono solo essere prestati ai paesi in deficit, ma attraverso il sistema, compensandoli sugli appositi conti. Il punto qui è che “le aperture di credito sono rese possibili dalla natura del sistema stesso, e non implicano l’indebitamento bilaterale fra un paese membro e l’altro: ognuno di essi è in credito o in debito con l’Unione monetaria nel suo complesso”.
È chiaro che il problema, come dice qui, è comunque quello di stabilire le regole di questi prestiti, sia che siano bilaterali, sia che siano forniti (con il “rosso”) dal sistema complessivo. E per questo occorre trovare equilibrio tra discrezionalità e regole. Efficacia contro solidità. Per questo occorre affidarsi a “saggezza e discussione collettiva”.

Collaterale a questo progetto è il controllo sui movimenti di capitali “normali” (p.90). Almeno di quelli speculativi, cioè destabilizzanti. Infatti “il piano mira a sostituire una pressione espansiva all’attuale pressione restrittiva che grava sul commercio mondiale” (p.76, 131 e 141).

Alla fine, nel 1942, il piano viene pubblicato come documento ufficiale del Tesoro e si avviano i negoziati tra Americani e Britannici per definire l’assetto del dopoguerra. Gli USA avanzano il piano alternativo per un Fondo di Stabilizzazione Internazionale (che diventerà il FMI). Le differenze tra i due schemi sono molte, tra le principali il fatto che quello di Keynes non necessiti di versamenti in denaro per il capitale iniziale (cosa che pone i paesi creditori e solventi, come gli USA, in oggettiva posizione di forza) e quello che creditori e debitori sono trattati simmetricamente. Il progetto di Keynes, cioè, è più adatto agli interessi dei relativamente deboli paesi europei, che escono dalla guerra indebitati e semidistrutti. Il concetto è che se anche i paesi che si indebitano vivono “al di sopra dei loro mezzi”, è simmetricamente vero che quelli che accumulano surplus “vivono al sotto di essi”. Gli squilibri, chiunque li provochi, sono una responsabilità comune. Come la pace.
Ovviamente questo è un motivo più che sufficiente per rigettarlo, dal punto americano.

Nel 1943 il Piano di White e quello di Keynes sono pubblicati dai rispettivi governi e si contrappongono. In quello del secondo ora trovano spazio anche istituzioni mirate a promuovere il libero scambio, a finanziare gli investimenti internazionali produttivi, a stabilizzare il mercato delle materie prime. Si tratta nel complesso di un insieme di strumenti volti al contrasto del ciclo economico ed alla prevenzione delle crisi. Lo schema di Keynes lavora per la pace perché impedisce l’accumulo di quello che l’economista chiama “arsenali finanziari”, in termini di riserve valutarie e debiti esteri che inevitabilmente sviluppano una vera e propria capacità di ricatto, come credo sia ogni giorno più evidente oggi in Europa. Togliere da parte del creditore, di fatto, la possibilità al debitore di pagare (costringendolo a politiche recessive) allontana infatti la pace (“pagare” viene dal latino “pax”).

Lo scontro tra i due schemi si risolve in quella che Keynes vive come una “resa incondizionata”, quando nel aprile 1944 ad Atlantic City viene firmato il Joint Statement, e poi il 1 luglio dello stesso anno a Bretton Woods gli Accordi. All’ultimo istante, senza neppure dare agli alleati il tempo di leggere fino in fondo, sarà anche inserita formalmente la chiave di volta: l’utilizzo del dollaro come moneta internazionale. Inizia la Pax Americana.

Fantacci vede la cosa in modo semplice: le premesse della crisi che si aprirà nel 1971, quando l’enorme quantità di cartamoneta in dollari, cui non corrispondono ormai né oro né tanto meno beni, determina un shock ed una fiammata inflazionistica in tutto il mondo (di cui la tempesta del petrolio è solo effetto secondario). Dunque si presenta l’inflazione accompagnata da stagnazione come effetto ultimo della “finanza da guerra” che prevale a Breton Woods, contro il “disarmo” proposto da Keynes (cfr. p.44). In sostanza in tale occasione, dice Fantacci: “gli interessi della finanza hanno prevalso sugli interessi del commercio. Il sistema di Bretton Woods rappresenta una sconfitta dell’economia di mercato a opera del capitalismo, inteso a la Braudel come ‘anti-mercato’ fondato sull’alleanza fra potere politico statuale e potere finanziario internazionale. Quello uscito da Bretton Woods è un sistema di finanza di guerra, funzionale alla mobilitazione indiscriminata delle risorse: burro e cannoni, welfare e warfare.” (p.46).

Nel caso non lo potessimo capire nel documento del 1941, a futura memoria, si trova anche un monito che dovrebbe risuonare nelle nostre orecchie sorde: “riunire un gruppo di paesi, alcuni dei quali saranno in posizione debitoria e altri in posizione creditoria, all’interno di un’unione monetaria allargata al mondo intero è senz’altro possibile [dal punto di vista economico]. Ma è impossibile, a meno che non abbiano anche un sistema bancario ed economico comune, raggrupparli in un’unione monetaria contro il mondo intero. […infatti] i membri in surplus dovrebbero fare dei loro saldi attivi un prestito forzoso e non liquido in favore di quelli in deficit” (p.87). Esattamente come dovrebbero fare in Europa i paesi in surplus del nord, permanentemente, se l’assetto economico semi-federale senza federazione politica, dunque anche senza legittimazione democratica, continua nella sua meccanica.

Il giorno di Pasqua, il 21 aprile del 1946 John Maynard Keynes muore; la fatina cattiva che aveva profetizzato il 9 marzo dello stesso anno, una quarantina di giorni prima della morte, alla Riunione inaugurale dei Governatori del FMI e della Banca Mondiale, si presenterà puntuale sulla scena.

Mentre la prima fata che si presenterà al battesimo, ricorda l’economista dovrebbe donare una “tunica di Giuseppe” che ricordi ai due gemellini che “appartengono al mondo intero, e devono fedeltà solo al bene comune”.
La seconda una scatola di vitamine, perché i bambini devono avere “energia e spirito impavido”.
La terza buona fata, invitare a “saggezza, pazienza e discrezione”.

Ma poi c’è la quarta, questa potrebbe lanciare una maledizione: “voi due, piccole pesti, da grandi farete i politici, ogni vostro pensiero ed atto sarà ispirato da un arriére-pensèe, ogni vostra decisione non sarà presa in base al merito, ma in vista di un secondo fine”.




Appunto.

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