Dal
blog di Gondrano un articolo
del 1943 di Michal
Kalecki, l’economista polacco è una figura di connessione intellettuale tra
il marxismo, cui era legato, e Keynes ed il suo circolo, a cui aderì arrivando
in Inghilterra, con l’amicizia di Joan Robinson.
Michal Kaleki |
Per
inquadrarlo meglio, prima di arrivar al suo articolo, rileggerò in primo luogo
una breve presentazione
di Joseph Halevi che individua come tema del suo lavoro il tentativo (fallito,
nel senso che non ha portato a definire una teoria compiuta e formalizzata) di
formulare una teoria del ciclo economico che fosse imperniata sul meccanismo
all’opera tra la dinamica della domanda, che riconduce alle decisioni di spesa
dei capitalisti in investimenti ed in consumi, da una parte, e il grado in cui
la stessa economia è lontana dal modello del libero mercato competitivo (cioè al grado di monopolio). Malgrado l’impossibilità di definire compiutamente
questa relazione, Kalecki individua comunque una forte relazione tra la domanda
effettiva e la spesa (investimenti più consumi) dei capitalisti. Questa
relazione è presente anche in Keynes, ma è molto meno esplicita. Si tratta di un
problema di orientamento politico, probabilmente.
Trattano
questo tema, per Halevi, due saggi del 1932, in polacco e pubblicati sulla “Rivista Socialista”, ed ora presenti
nelle Opere Complete, pubblicate a Oxford. Il primo saggio polemizza con Varga
e nega che dalla crisi possa esserci una via di uscita endogena. È interessante,
perché il Comintern, invece, sosteneva che la via per uscire dalla deflazione e
dalla crisi di domanda, fosse da individuare nella caduta stessa di prezzi e
salari. In altre parole, la malattia cura se stessa con una maggiore dose.
Ci suona familiare?
Nel secondo saggio del 1932 polemizza addirittura con il principale economista socialista di quella fase, Rudolf Hilferding, e ne attacca l’idea centrale: che il capitalismo dei monopoli (all’epoca si chiamavano “Trust”) sia più stabile di quello concorrenziale. Come noto l’economista austriaco vedeva in essi una possibile via gradualista e riformista al socialismo (dall’estensione progressiva dei monopoli, alla proprietà diffusa, al socialismo).
Anche
questa idea viene rilanciata nel nostro secolo dalla Scuola di Chicago.
Nella raccolta Michal Kalecki, “Sul capitalismo contemporaneo”, del 1975 si trova quindi un saggio sulla Germania nazista ed uno sul fronte Blum in Francia.
Quindi
vengono gli elementi di differenza tra Kalecki e Keynes, in sostanza, e si vede
anche nell'articolo che ora leggeremo, l’economista polacco non crede che quella
dell’inglese sia una soluzione generale, ma che dipenda da alcune condizioni di
applicazione. Oltre a questo saggio bisogna fare riferimento ad un testo
pubblicato nella rivista del PCI “Politica
ed economia” nel 1971, “Osservazioni sulla riforma cruciale”, e in un
articolo del 1944 che li anticipa “Full
employment by stimulating private investment?”. In sostanza Kalecki non
crede nella possibilità di mantenere la piena occupazione continuando ad
incentivare gli investimenti privati.
Un concetto in qualche modo simile lo
propone, con la sua teoria della crisi, Misky nel 1975, proprio rileggendo
Keynes.
L’economista
polacco, centralmente, nega che la flessibilità verso il basso dei salari
permetta di aumentare l’occupazione (che, per fare un esempio, è l’elemento
logico centrale della politica del lavoro da Treu al Job Act, e si introduce
nella cultura della sinistra negli anni settanta, ad esempio si guardi l’articolo
di Modigliani e Padoa-Schioppa del 1977) e, simmetricamente, che gli aumenti
salariali comprimano i profitti.
La
questione è che quando l’economia non si trova in condizioni di piena
occupazione (della forza lavoro) ed utilizzo (dei mezzi produttivi), cioè in
genere sempre, come scrive Halevi “non c’è conflitto macroeconomico tra salari
e profitti”. Si trova in “Studi sulla teoria dei cicli economici”,
del 1972, in cui è pubblicato un saggio sul tema del 1932, e in “Sulla dinamica dell'economia capitalistica”,
pubblicato nel 1975.
Secondo
questa seconda tesi, al contrario, fino al raggiungimento del limite l’aumento
dei salari non comprime i profitti ma aumenta l’occupazione.
Ciò
detto, il saggio del 1943 di Michal Kalecki, parte dal punto del consenso di
allora (l’opposto di quello di adesso) che descrive in questo modo: “una solida
maggioranza degli economisti è oggi dell’opinione che, anche in un sistema
capitalista, il pieno impiego possa essere assicurato da un programma di spesa
del Governo, purché siano disponibili impianti adeguati ad impiegare tutta la
forza lavoro esistente, e purché sia possibile ottenere in cambio delle
esportazioni forniture adeguate delle necessarie materie prime che devono
essere importate dall’estero”.
In sostanza il
governo garantisce investimenti pubblici (infrastrutturali, come scuole,
strade, ospedali) e sussidi (assegni familiari, riduzioni imposte, regolazione
dei prezzi) e li finanzia senza sottrarli in altri punti alla stessa domanda
(quindi senza nuove tasse) fino a che la “domanda effettiva” è incrementata al
“pieno impiego”. Ciò sia grazie all’effetto diretto di spesa sia a quello
indiretto (“moltiplicatore”).
Qui,
normalmente, sorge una obiezione che già all’epoca era in campo da secoli: “dove il pubblico prenderà il denaro da
prestare al Governo se non riduce i suoi investimenti e i suoi consumi?” La
risposta per Kalecki è nel circolo dei titoli di Stato, emessi e venduti, per approvvigionarsi
delle risorse economiche con le quali pagare i fornitori (siano essi le imprese
che costruiscono la scuola o gli insegnanti della stessa): lo Stato li emette,
qualcuno li compra, eroga capitale a fronte di interesse, e con queste risorse
sono prodotti i beni e servizi. L’emissione di nuovi titoli mobilita risorse
che generano nuovi beni o servizi. Questo fino a che il mercato li assorbe;
quando questo non avviene devono intervenire le banche. Se la domanda resta
sotto l’offerta il valore dei titoli diminuirà e quindi gli interessi saliranno.
La seconda obiezione è che questo meccanismo causerà inflazione. Ma questo avviene solo se non c’è disponibilità di forza lavoro e impianti. Altrimenti l’incremento della domanda si traduce solo in un incremento della produzione e non nella modifica dei prezzi, “ma se il punto di pieno impiego delle risorse è raggiunto e la domanda effettiva continua a crescere, allora i prezzi si alzeranno per equilibrare la domanda e l’offerta di beni e servizi”.
Questa è la
“dottrina economica del pieno impiego”
di Kalecki, in sintesi.
Ora inizia
in effetti il suo argomento, Kalecki si chiede perché alcuni si oppongano a
questa semplicissima dottrina, e si risponde che dipende dagli interessi, ovvero dai legami con quelli che chiama “i settori
bancario e industriale”. Questa
opposizione fu viva in tutta la grande depressione degli anni trenta (come
oggi).
Ma c’è una
circostanza sulla quale attira l’attenzione: i settori del big business in quella
occasione si opposero ad ogni tentativo di aumentare la spesa del governo
ovunque, tranne che nella Germania nazista.
In linea generale
ed astratta questa opposizione non sembra a Kelecki razionale, perché produzione
ed occupazione più elevate, e quindi uscita dalla depressione, generano
benefici per gli imprenditori come per i lavoratori. Aumentano i profitti degli
uni come degli altri. Ma, soprattutto, la politica di pieno impiego non “usurpa
i profitti” di nessuno, perché è finanziata con un debito che si ripaga con la
nuova produzione (dato che c’erano nella società risorse inutilizzate) e non
con tassazioni aggiuntive.
Sulla base
di questo, che è forse il concetto centrale della teoria che Kalecki condivide
con Keynes (essendoci entrambi pervenuti per vie diverse e quasi
contemporaneamente), la domanda è: perché
gli imprenditori, durante una crisi economica, non accettano con gioia quella
ripresa economica, pur “artificiale”, che il Governo gli offre?
Ci sono tre
risposte:
-
Avversione all’interferenza stessa del Governo nel
problema dell’occupazione;
-
Avversione alle destinazioni della spesa del Governo;
-
Avversione al mantenimento del pieno impiego, a causa
dei mutamenti sociali e politici che l’assenza di disoccupazione comportano.
In primo
luogo i cosiddetti “capitani di industria”, e gli intellettuali ad essi legati
(ovvero la maggioranza), avversano, dice Kalecki, la creazione di posti di
lavoro con la spesa pubblica perché indebolisce
il loro controllo sulla politica del Governo. Se questo non ha armi per
modificare l’occupazione, e dunque la principale leva del consenso a se
medesimo (come forse l’attuale governo inizia a vedere), gli resta solo di
affidarsi alla “fiducia” degli imprenditori. In un vero sistema di
Laissez-faire il livello dell’occupazione dipende solo da questa “fiducia”, e
dagli investimenti privati che questa provoca o inibisce. Bisogna dunque fare
tutto quello che chiedono i “capitani di industria” e le loro associazioni. Per
fare qualche esempio, fare le leggi sul lavoro che queste richiedono (ad
esempio l’ultima), ridurre le tasse dal loro lato, e non agli altri, allargare
il mercato (ad esempio, privatizzando settori di erogazione di servizi
pubblici), anche se l’effetto immediato è una riduzione ulteriore
dell’occupazione.
Se non si fa
quel che chiedono la “fiducia” è scossa e la crisi economica ne è la punizione.
Ma se il
Governo scopre “un trucco”, con il quale può incrementare l’occupazione con
suoi mezzi, ottenendone solo vantaggi, il potere citato scompare.
Per questo,
sostiene Kalecki, e non per altro, “i deficit di bilancio necessari per portare
a termine l’intervento del Governo devono essere considerati pericolosi”. Tutta
la funzione della dottrina della “finanza solida” è questa: rendere il livello
dell’occupazione dipendente solo dallo “stato della fiducia” degli imprenditori
e quindi il consenso al Governo dipendente solo da questi.
Ma se su
questa potente base si inserisce anche la considerazione degli obiettivi
effettivi che la spesa pubblica ha, per ridurre la disoccupazione,
l’opposizione aumenta. Infatti la dottrina (che era anche di Keynes, più volte
ricordata nella sua opera) che gli investimenti siano rigorosamente confinati
solo ai settori che non competono con i
mezzi di produzione, che devono restare alla sfera privata, per non ridurre
la profittabilità degli investimenti e sterilizzare in parte il vantaggio (a
effetto positivo diretto dell’investimento si contrappone, bilanciandolo, un
effetto negativo sull’investimento dei privati che viene inibito), ha un
limite. Si tratta di un ambito ristretto (opere pubbliche e sussidi) e
rapidamente si arriva al punto in cui gli investimenti più utili, o quelli più
fattibili, sono esauriti. Si passa, allora, ad opere via via meno utili, inutilmente
grandi, con livelli di spesa eccessivi.
Allora il
Governo può essere tentato, e gli anni sessanta in buona parte d’Europa sono un
buon esempio, di ovviare nazionalizzando trasporti o servizi idrici, o
elettrici (Enel viene creata, con la nazionalizzazione delle imprese di
produzione elettrica nel 1962), o si può aggiungere, di telecomunicazione (i
servizi telefonici vengono nazionalizzati nel 1957), in modo da acquisire una
nuova sfera di intervento ed una maggiore capacità di regolare il ciclo economico
sia in modo diretto sia indiretto. In effetti si tratta di avere una platea di
potenziali aree di investimento più larga, rispetto al perimetro delle attività
economiche del paese.
È chiaro che questo sottrae le stesse e riduce il
potere del big business, che si oppone.
In
alternativa ci sarebbe il settore del sostegno diretto ai consumi di massa
(mentre l’occupazione è indiretto), dunque assegni familiari, altri sussidi,
etc. ma questa pratica è osteggiata ancora più violentemente. Kalecki ipotizza
che qui sia all’opera la violazione di quello che chiama “un principio morale”:
“tu ti guadagnerai il tuo pane con il
sudore” (naturalmente se non sei ricco). La lettura di Polanyi (il cui
saggio “La
grande trasformazione”, esce nel 1944, in particolare p.119 e seg.)
avrebbe consentito di esplicitare meglio il funzionamento di questo principio
morale. Nella descrizione che fa delle Speemhamland Law del 1795, e dei suoi
effetti nei quaranta anni di applicazione del “diritto di vivere” nel mezzo
della più grande trasformazione e sradicamento del secolo, rievoca il racconto,
insieme morale e “scientifico” di Townsend nel 1780 che fornisce la logica alla
successiva, improvvisa e brutale, abolizione dei sussidi nel 1834 (le “Poor Law” vittoriane, che sono
espressione di una nuova alleanza dei ceti emergenti capitalisti, contro la
gentry agraria che sosteneva l’assetto precedente, perché gli garantiva
manodopera a basso prezzo e pace sociale).
Nel trattato
di Townsend si racconta come un tal Juan Fernandez avrebbe importato nell’isola
di Crusoe, al largo del Cile, delle capre che si sarebbero moltiplicate senza
competitori. L’effetto sgradito sull’equilibrio militare e commerciale della
regione (era diventata una base di vettovagliamento di ogni pirata di
passaggio) avrebbe spinto gli spagnoli ad una semplice contromisura: importare
due cani. Automaticamente si sarebbe creato un equilibrio ecologico, dominato
semplicemente dalla fame. Questo bel racconto (storicamente falso, ma
plausibile) ispira sia Malthus sia Darwin, nella formulazione delle loro “leggi
sulla popolazione” e “teoria della selezione naturale”, rispettivamente. Ma
Polanyi evidenzia anche un’altra conseguenza: l’estensione di questo modello
“ecologico” semplificatissimo al lavoro umano che il secolo compie. Anche il
lavoro dell’uomo è una merce che, sottoposta alle leggi della ragione e della
natura, e quindi pressata dal pungolo
della fame, deve trovare il suo equilibrio.
I “cani”
(cioè gli imprenditori) troveranno il lavoro che gli serve (ovvero “la carne”)
al prezzo determinato solo dalla quantità di “capre” (disoccupati affamati). È
la fame a fare il miracolo di trovare l’equilibrio.
Chiaramente
ogni sussidio, introducendo il “diritto di vivere”, interferisce con questo
meccanismo “naturale”. E rafforza i lavoratori, o potrebbe farlo (in realtà
dipende dalle circostanze).
C’è poi una
terza direzione di minaccia: ed è il
mantenimento del pieno impiego. Qui Kalecki sottolinea i cambiamenti sociali
e politici che un sistema economico senza disoccupati provoca. È chiaro che in
un tale sistema il licenziamento non avrebbe più quel potere disciplinante che
ha se ci sono milioni di disoccupati. Dunque anche la gerarchia nel luogo di
lavoro sarebbe privata della principale minaccia che la istituisce. Anche se i
profitti sarebbero più elevati (perché
maggiore la domanda delle merci e dei servizi prodotti), questo effetto
danneggerebbe inoltre i rentier (chi
vive di rendite da capitale e non dalla produzione o dal lavoro), perché
produrrebbe comunque un tendenziale aumento dei prezzi. Chi produce e chi
lavora si potrebbe gradualmente adeguare, non perdendo, ma chi sfrutta solo i
capitali accumulati da altri rischia di vederli erosi (se non li fa
“lavorare”).
Alla fine,
stringendo il punto, come dice “disciplina delle fabbriche” e “stabilità
politica” sono beni più apprezzati dagli uomini di affari degli stessi
profitti, la disoccupazione è dunque da considerare “naturale”. Le “capre” ci vogliono.
Tutto questo
non avviene sotto il fascismo ed il nazismo, perché? Kalecki, che sui due
fenomeni ha studiato a lungo, rileva che il big business in quei casi non si è
opposto alle politiche di pieno impiego condotte dallo Stato con abbondanza di
lavori pubblici e sovvenzioni ai fini di consolidare il consenso al regime.
Anzi, tutto fu condotto nel segno di una stretta alleanza.
La
spiegazione è semplice: mentre in democrazia, anche se sono alleato di un
governo che fa i miei interessi, non so come sarà il prossimo, se si avvia una
dinamica sociale nuova potrei essere minacciato; durante un regime fascista non
ci sono nuovi governi. La “disciplina” è mantenuta dal regime con mezzi
militari, e parte della spesa è orientata in tal senso. Quello che faceva la
“fame”, ora lo fanno i fucili.
Ma i fucili
tendono a produrre una “economia con obiettivo” (il riarmo) e questo sposta
l’accento sulla pianificazione (anche perché il pieno impiego prolungato crea
ingorghi e colli di bottiglia che richiedono “razionamenti” e definizione di
priorità). Alla fine tutto precipita necessariamente nella guerra.
Ma anche
fuori dell’esempio delle sconfitte economie fasciste (qui siamo nel 1943 e si
scrive dall’Inghilterra) l’opposizione del grande capitale alle politiche
interventiste, quando sconfitta sulle vecchie trincee, si sposta comunque su
un’altra linea: gli investimenti devono avvenire solo nelle crisi (essere congiunturali e non strutturali) e solo
stimolando gli investimenti privati. Cioè, se proprio bisogna fare qualcosa durante la crisi, questo è solo ridurre il tasso di interesse,
ridurre le tasse e sussidiare solo gli investimenti privati (ad esempio
defiscalizzando le assunzioni).
Anche questo, ricorda qualcosa?
Certo, così
l’imprenditore resta quello che ha il potere di regolare l’economia, e la cui
“fiducia” deve essere a tal fine blandita.
Ma Kalecki, con un notevole
argomento, ricorda che questa politica rischia di sbattere sui suoi limiti,
portando progressivamente, attraverso le crisi (se l’intervallo tra queste è
troppo breve, o loro sono troppo lunghe) a tassi negativi e tassazioni sulle
imprese molto basse e comunque alla persistenza di disoccupazione anche nei
boom. Operando solo in questo modo indiretto si rischia di dover inseguire, con
dosi sempre crescenti, un paziente che si abitua ai farmaci. Con le sue parole:
“Nella nuova fase recessiva sarà necessario ridurre di nuovo o il tasso di
interesse o le imposte sui redditi, e cosi via. Così, in un futuro non troppo
remoto, il tasso di interesse dovrebbe diventare negativo e l’imposta sui
redditi dovrebbe essere sostituita con sussidi ai redditi. Lo stesso risultato
si otterrebbe se si tentasse di mantenere il pieno impiego stimolando
gli investimenti privati: il tasso di interesse e le imposte sui redditi
dovrebbero essere ridotte continuamente”.
Infatti gli
imprenditori, se vedono questo spettacolo, ridurranno progressivamente la loro
“fiducia” e dunque in un quadro di aspettative negative, si dice oggi,
risponderanno sempre meno agli stimoli.
Dunque
servono anche investimenti pubblici. Per lo meno, dicono gli imprenditori ed i
loro consulenti, come estremo rimedio.
Ma non per mantenere bassa la
disoccupazione.
In effetti
le “capre” sono necessarie, e devono stare al loro posto. E i “rentier”
soffrirebbero la continua tendenza dei prezzi a riadeguarsi alla produzione in
crescita nel meccanismo autoalimentato dell’incremento salari-prezzi, che
sposta costantemente la ricchezza sociale dal capitale accumulato (“lavoro-morto”, secondo Marx) al nuovo
creato dal lavoro (“vivo”). Cioè sposta
il potere entro la società.
Il fatto che
i rentier si possono sentire “stanchi del boom economico” (mentre la deflazione
e la crisi è, per loro, in fondo confortevole) mentre la big industries (che
pure ha da perdere dalla deflazione) ne può avere timore, crea alla fine un
“potente blocco sociale” tra gli interessi delle grandi industrie ed i rentier.
Quello che a tutta evidenza domina oggi in Germania.
L’effetto è
il ritorno a politiche di contrazione di bilancio e deflazionarie.
Ma se la
crisi dura troppo e fa troppi danni, il rischio di instabilità politica,
sostiene Kalecki, può riavviare il ciclo economico-politico [political business
cycle] come si è visto in Usa nel 1937-38.
Tutto
questo, dice al fine Kalecki, è comunque molto inefficiente e non serve ad elevare
il tenore di vita. È un semplice inseguimento di contingenze sempre nuove e
sempre uguali. Ci vuole invece un nuovo “capitalismo
del pieno impiego” [full employment capitalism] che avrà bisogno di nuove
istituzioni politiche in cui il potere maggiore delle classi attive dovrà
essere rappresentato adeguatamente.
Nella chiusa
Michal Kalecki afferma che questa deve
essere la battaglia delle “forze progressiste”, proprio per prevenire la rinascita del fascismo.
Si dirà alla
fine: ma tutto questo vale solo se l’economia non è del tutto aperta e quindi
merci, servizi e capitali non possono fuggire altrove e, rispettivamente,
affluire da ogni luogo.
Vero.
Appunto.
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