L’intervento di Federico Caffè (ora in “La dignità del lavoro”), al seminario della
Flm dell’11 e 12 maggio 1979 a Roma reagisce alla rivendicazione della
Confindustria di una “libertà di impresa” e quindi al tentativo di delimitare la
libertà di sciopero per via giudiziaria. Al convegno parteciparono: Mariano d’Antonio,
Fernando Vianello, Filippo Cavazzuti, Paolo Leon, Luigi Frey, Enzo Mattina,
Gianni Ferrara, Pietro Rescigno, Luciano Ventura, Guido Neppi, Pierre Carniti.
Federico Caffè nacque nel 1914 e scomparve
improvvisamente nel 1987, dal 1959 titolare della cattedra di Politica
Economica alla Sapienza di Roma, e formò economisti come De Cecco, Acocella,
Giorgio Ruffolo, Luigi Spaventa, Bruno Amoroso. Fu relatore della tesi di
laurea di Mario Draghi (come di altri mille), ma anche Ignazio Visco.
Davanti a questo uditorio, di cui non pochi si
sposteranno su posizioni del tutto opposte nel tempo, Caffè attacca con grande
decisione quelle che chiama “posizioni neo-liberiste, neo-austriache,
neo-quantitativistiche e così via”, negando decisamente che possano essere
considerate posizioni rispettabili e “culturalmente avanzate o comunque valide”.
Secondo la sua cultura e conoscenza del dibattito storico della sua disciplina
le riconosce per quello che in effetti sono: rimasticature. O, come dice: “battaglie
di retroguardia”.
Di lì a pochissimi anni, è vero, la retroguardia diventerà avanguardia. E ci porterà i frutti dell’oggi.
Ma Caffè resta fermo nella sua trincea, e continua a
considerare, come farà sempre, che “il vero avanzamento culturale è altrove”,
anche se si vede già che le suggestioni avanzate fanno breccia. Ovvero, come
dice, “che troppo si conceda a chi parla di assistenzialismo, senza tenere
conto adeguato delle ragioni che lo determinano”, ovvero senza entrare nel
merito delle cose. Gettando, insomma, insieme alle vasche di lavaggio anche i
bambini contenuti.
O che ci sia chi parla “di assenteismo, quasi fosse
realmente un fenomeno folkloristico e come se i meritori lavori di medicina
democratica non trovassero lettori pazienti” (in altre parole, come se alle
volte non ci fossero delle ragioni nel modo in cui è organizzato il lavoro). O,
ancora, di mercato “come se da esso si potessero tratte indicazioni valide,
nelle condizioni in cui è ridotto, di vaso di coccio tra Big Governement, Big
Business e Big Labour” (in altre parole, come se il mercato competitivo e
libero esistesse nell’epoca dei monopoli di diversa origine).
Ciò che vede è, insomma, il tentativo di un “ritorno a Sante Alleanze”, ovvero ad
accordi reazionari, come quello scaturito dal Congresso di Vienna che chiude la
stagione napoleonica, per impedire le lotte di liberazione e
autodeterminazione. In sostanza un “inceppo della storia”, non una posizione
culturalmente avanzata.
Probabilmente a
qualcuno nella sala fischiavano le orecchie,
dato che, per fare un esempio, due anni prima, nel 1977, mentre alla Fiat
Mirafiori gli operai combattevano le loro battaglie, di cui parleremo, per l’emancipazione
dalle condizioni di lavoro fordiste, ed il 1980 era ancora da venire, Tommaso Padoa-Schioppa,
ancora comunista, scrive con Franco Modigliani questo articolo
in cui “la storiellina di Friedman” è ripresa ed accettata, ovvero è ripresa ed
accettata la tesi che l'unico modo di aumentare l'occupazione (difendendo la
piena occupazione presupposta matematicamente nei modelli marginalisti) sia quello
di abbassare i salari (altrimenti si scaricherebbero in inflazione). Nel testo,
a pag.23 (dove si confermano le preposizioni monetariste per espressa
ammissione), la tesi di fondo è che l'aumento della spesa pubblica sia sempre condotta
a detrimento di quella privata e degli investimenti. Una tesi che poggia sull’implicita
teoria della moneta come merce e come quantità in qualche modo prefissata, che
da ultimo la rottura di Bretton Woods aveva reso del tutto obsoleta. Rileggendola
nel quadro della natura endogena della moneta che ormai pare evidente a (quasi)
tutti, prende senso diverso anche un’affermazione cruciale per lo spostamento
delle politiche della sinistra verso l'austerità, contenuta nell’articolo del
1977, come: “l'aumento della spesa pubblica avverrà in ultima analisi
interamente a spese della domanda privata, in particolare degli investimenti; questi tenderanno a comprimersi per via
della carenza di fondi disponibili, dovuta all'aumentata emissione di debito
pubblico, e del conseguente aumento del costo del denaro. ... segue da
questi risultati che nell'economia con salari indicizzati una manovra fiscale espansiva risulta inutile se non dannosa, ed anzi
la sola manovra giustificabile potrebbe essere quella restrittiva, malgrado la
disoccupazione esistente”. In sostanza vi viene annunciato l’abbandono sia
delle lotte per la distribuzione equa delle risorse da lavoro, sia quella per
la stessa piena occupazione.
La deflazione e la disoccupazione sono, al contrario, assunte
come obiettivi.
Caffè avvia il suo contrattacco citando la relazione
di Beveridge del 1948, “Il pieno impiego
in una società libera”. Il pieno impiego è un obiettivo che va molto al di
là della questione economica, esso riguarda “la concezione stessa di una
società che possa dirsi civile e rappresenti qualcosa che valga”. Precisamente
che abbia un valore tale da “impegnare i
nostri sforzi e richiedere i nostri sacrifici”. La differenza dei punti dai
quali si guarda la cosa è evidente: i due economisti prima citati costruiscono
un discorso tecnocratico, orientato alla mera efficienza dal punto della
valorizzazione del capitale, Caffè, che è all’epoca il più eminente economista
italiano, propone uno sguardo molto più largo e orientato al servizio della
società. Pone, a ben vedere, la questione politica della tenuta del corpo
sociale, e implicitamente segnala il rischio della sua disgregazione. La questione
monetaria recede in seconda fila.
La miseria, infatti “ingenera odio”, come scrive Beveridge
in epigrafe. Essere “miseri” può significare qui anche “non trovare lavoro
avendone le attitudini e la volontà”, questo, infatti, “mortifica e inasprisce”.
Dunque la disoccupazione, che Padoa-Schioppa accetta così a cuor leggero, è una
“piaga sociale” in grado di scavare sotto le fondamenta stessa della società (e
non può neppure aversi economia monetaria stabile e sicura senza una società
coesa ed attiva, come la parossistica “coltivazione” di bolle a fini compensativi
di questi ultimi anni mostra).
Questa piaga va quindi affrontata di petto per Caffè,
pur nella sua difficoltà.
Più specificamente, del documento Confindustriale che
si discute Caffè critica sia l’autocompiacimento e il “compiaciuto conservatorismo”,
sia la “soddisfazione manifesta per l’adesione governativa allo SME” (l’anno
precedente, infatti, con il voto contrario del PCI e le relazioni in tal senso
di Spaventa
e Napolitano
l’Italia aveva aderito allo SME). Su questo punto si limita ad una caustica
osservazione: “siamo entrati nello Sme
con la stessa incoscienza con la quale a suo tempo dichiarammo guerra agli
Stati Uniti d’America” (p.94).
Questo vincolo, infatti, comporta una “dura realtà”
non compresa adeguatamente.
Nel resto dell’articolo
fischiano parecchie altre orecchie.
Ricordando la rilettura della storia industriale del paese, dall’avvio del
secolo, di Giovanni Demaria, Caffè, segnala il tentativo della grande industria
di svincolarsi dal controllo democratico “lasciando i problemi economici più in
mani tecniche che politiche”, sin dal 1946 (parole di Valletta), e soprattutto
segnala l’indicazione di “alcuni amici” (ovvero del vertice del Pci) a limitare
le richieste di avanzamenti salariali per esercitare la forza del mondo del
lavoro “sul piano della politica economica generale”. È lo schema del “compromesso
storico” che sopravvive alla sua certificata morte (insieme ad Aldo Moro).
L’intervento, dal punto 15 in poi entra nel vivo:
Federico Caffè attacca l’idea, che risale ad un articolo di John Hicks del 1955
“Le basi economiche della politica
salariale”, di una connessione tra l’inflazione e le richieste di aumenti
salariali. Non senza un punto di autocritica l’economista italiano ora
riconosce che “le contropartite” a fronte delle rinunce (a seguire con il
salario gli aumenti di produttività, cosa che da allora non è più avvenuta
ottenendo al termine una
voragine), di fatto vengono sempre bloccate ed aggirate, o comunque “svuotate”.
In particolare ciò accade in una economia in cui “’fiduciarie estere’ con operatori incappucciati, privi di volto”
dominano, e sono libere nel gioco delle partecipazioni incrociate, di aggirare
ogni norma prudenziale di politica pubblica. Ovvero, nel quadro delle norme
vigenti all’epoca, quando l’attuale piena liberazione nei flussi di capitale
non era presente, sono libere di indebitarsi liberamente con l’estero, “senza
che nulla salvaguardi l’utilità sociale di queste forme di indebitamento che
ipotecano il futuro del paese” (una frase illuminante sul reale effetto del
debito privato verso l’estero, che apre un punto di vulnerabilità del paese, e
dunque anche dei suoi lavoratori e famiglie).
E quindi chiude difendendo l’idea che il mercato, nelle condizioni dell’economia
moderna, con i grandi monopoli privati e anche pubblici che la
contraddistingue, di fatto “perde sempre più e in modo radicale la sua autorità
come forza regolatrice” (Galbraith). Sostenendo quindi che chi, come Hayek,
ribadisce la sua fede nella capacità del mercato e della moneta stabile di
stabilire automaticamente “prezzi e salari di equilibrio” e dunque eliminare la disoccupazione, sta solo cercando di “spostare
indietro le lancette della storia”.
In effetti, con buona pace della disoccupazione (come
ovvio, e come da obiettivo nascosto, al contrario enormemente cresciuta), la
storia sembra essere tornata al 1800.
Ma Caffè non la tocca affatto piano: “affermazioni del genere mi danno soltanto il
fastidio che provo nel dovermi trovare oggi sotto gli occhi, sui muri, simboli
nazisti o antisemiti”.
È chiaro che oggi, che abbiamo i muri pieni, bisogna
prendere atto che nulla di irreversibile è mai dato nella storia, e che il
progetto implicito (che Galbraith vede ed enuncia, segnalandone sia la “banalità”,
sia la “discrezione” con la quale è portato avanti) di dissolvere l’associazionismo
sindacale ed eliminare l’intervento pubblico in economia, ha avuto successo.
Tuttavia ogni azione fa crescere le forze che ad essa
reagiscono.
Dunque ancora una volta, ma in direzione opposta,
bisogna ricordare che nulla di irreversibile è mai dato nella storia.
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