Marco Bertorello che collabora con Il Manifesto, ed è autore di alcuni
saggi[1]
con Alegre[2], su
Jacobin Italia, ha scritto un articolo
che si inserisce nel fortunato filone letterario[3] della
critica alla critica alle strutture istituzionali e politiche della
mondializzazione sulla base di una rivendicazione di sovranità ed autogoverno
politico e quindi fondata sulle democrazie costituzionali esistenti. La critica
alla critica è concentrata, però, sulla più limitata questione dell’immigrazione
e quindi alla ‘questione dei confini’.
Secondo Bertorello, che con analoghi movimenti di
pensiero critica la rilevanza dell’uscita dall’Euro, di cui riconosce meccanica
e ruolo nella oppressione di classe attuale, e le politiche neokeynesiane,
ovvero l’espansione della spesa pubblica con fini di riequilibrio redistributivo,
“sigillare i confini dello Stato nazione
non è garanzia di solidarietà: sposta la competizione tra gli italiani e tutti
gli altri. Al contrario per fermare la guerra tra poveri bisogna riconoscere la
composizione dei subalterni”.
Vediamo cosa significa questa frase.
Bertorello attacca direttamente un intervento
di Carlo Formenti su “Rinascita!”,
che, a sua volta, commentava un articolo
su “American Affairs”, nel quale Angela
Nagle, collaboratrice di Jacobin America, criticava l’amnesia della sinistra
americana circa la posizione storica delle sinistre sull’immigrazione[4].
In questa ‘Matrioska’ di articoli, insomma, che ha
alla base il più interessante, Jacobin
Italia prende posizione netta, lamentando intanto i toni tranchant dell’articolo di Formenti. Dopo l’apertura
‘democratica’ e conciliante, avvia a sua volta una lettura sommaria dell’articolo
della Nagle che ricostruisce correttamente. Quindi ammette un punto che non è
poco, “indubbiamente un esercito
industriale di riserva svolge un’efficace funzione di contenimento dei salari
nei paesi occidentali e non solo, indubbiamente una certa sinistra si è
soffermata unicamente sulla dimensione dei diritti civili e individuali, come è
indubbio che agiscano fenomeni di sfruttamento imperialistico”.
Potrebbe terminare qui ma il nostro ha una
obiezione cruciale: “assimilare le presunte politiche no border al neoliberismo
costituisce una semplificazione che favorisce molteplici incomprensioni”. In
una sola frase contesta quindi che
esistano politiche no-border (poveri fratelli Koch, hanno speso centinaia
di milioni per nulla), e dall’altra invita a distinguere.
Ancora una postura ‘democratica’ e ragionevole.
Bene, è sempre opportuno distinguere.
Cosa?
Da un lato per Bertorello è vero che “la destrutturazione del
mercato del lavoro si afferma anche attraverso l’immigrazione di manodopera
straniera pagata meno”, dall’altro, però,
“le politiche neoliberiste si sono guardate bene dall’adottare politiche
effettive di apertura alle ondate di immigrazione”.
Qui il punto è la specifica “apertura effettiva”.
La distinzione è rilevante: le politiche neoliberiste
consistono nell’importare lavoratori deboli,
per sostituire (ed indebolire) lavoratori forti.
Così funziona la meccanica voluta dal Cato Institute ed altri. La frase
successiva mischia cose molto diverse e fa confusione, ma il punto è questo. Il
tic libertario del nostro lo porta a concludere che “neoliberismo e controllo
autoritario in questi anni sono andati a braccetto”. Una frase che evidentemente
lavora con estensioni dei termini confuse, e/o visioni delle dinamiche
politiche concrete troppo semplici[5].
Invece la questione potrebbe essere la traccia per
capire che è l’integrazione il punto
cruciale, ma integrare attraverso il mercato, il ‘libero mercato’ neoliberale,
significa sempre integrare in modo subalterno e partendo dal grado più basso di
sfruttamento, lo scopo dell’immigrazione di nuova forza lavoro è sempre per
sostituire forza lavoro esistente più costosa, ovvero per non essere costretto
a pagarla di più. Integrare attraverso l’impiego di capitale pubblico, invece,
presume l’impiego di risorse non illimitate (per costruire case, per ampliare
servizi, per potenziare l’istruzione, per sostenere il reddito) che non possono
essere sganciate dalla gestione dei flussi. Integrare attraverso il pubblico
significa commisurare i flussi alle risorse e soprattutto salvaguardare i
rapporti di forza che rendono il lavoro, complessivo, più forte nei riguardi
del capitale[6].
Non è affatto un caso che il Cato Institute, finanziato dai Fratelli Koch, e tutti gli altri
think thank neoliberali spingano per il no-border, flussi potenzialmente illimitati inevitabilmente
soverchieranno sempre i tentativi di integrare con capitale pubblico, quanto
più questi avessero successo, tanto più crescerebbero i flussi. Gli spiriti animali del mercato determinerebbero i flussi secondo una meccanica regolata dalla debolezza del lavoro rispetto al capitale, ed il cui effetto sarebbe di garantirla.
La posta della questione dell’immigrazione è molto
alta. Si tratta del tema della concorrenza
come ordinatore fondamentale della nostra società, su questo io e l’autore
siamo in accordo. Ma il nostro rifiuta ogni prospettiva che mobiliti il
capitale pubblico e si rifugia nel “comune” e quindi nella spinta volontaria e
moralmente orientata.
Si tratta di un effetto della deriva della cultura
della sinistra, che una volta, anche se a volte ingenuamente, era materialista
e cercava sempre di partire ‘dall’analisi precisa della situazione obiettiva’[7].
Rigettando, nel suo libro “Capitalismo
tossico”, ogni soluzione di potenziamento del welfare, in quanto
neokenesiana, il nostro non può vedere che l’integrazione ed i ponti di cui
parla nella chiusura camminano sulle gambe della spesa pubblica, e quindi sono
soggette ad una dinamica certamente potenzialmente ascendente, ma non priva di
vincoli e di attriti materiali.
Come per la questione della casa e per il “Diritto
alla città”, la vera questione è di emancipazione della parte
produttiva della società, riscattando dal mercato e dai suoi meccanismi[8] grazie al potenziamento, radicale e
drastico, dell’offerta di servizi sociali e del welfare.
Del resto l’indiscriminata accoglienza, se resta
sostanzialmente affidata alle capacità di socializzazione del solo mercato, in
particolare nelle condizioni odierne, è finta. Si tramuta immediatamente ad un
fattore di aggravamento, in particolare per le nostre periferie e aree di
abbandono.
Ma tutto questo è
indisponibile alla logica del nostro, dire che “neoliberismo e controllo
autoritario in questi anni sono andati a braccetto” (una frase, che cade incongrua
ed immotivata, essendo espressione ‘dal sen tratta’), diventa la cerniera del
pezzo.
La migrazione, forzando l’argomentazione storica di
Detti e Gozzini[9], viene allora riletta
quasi come prodotto naturale di tecnologia e crescita (“fenomeni di ascesa
sociale relativa che, combinati persino con la diffusione di nuove tecnologie,
hanno reso il mondo più piccolo e consentito ad alcuni segmenti sociali di
muoversi come mai prima d’ora”).
Alla fine, di fronte al vicolo cieco nel quale si è
cacciato, spinto dalla argomentazione della giornalista americana, che non può
negare, salta al cui prodest? Dove
vuole andare a parare Formenti?
Che esito ha questa critica che non posso
controbattere? Che coglie un punto inaggirabile?
Con le sue parole:
“Ma
dove vuole andare a parare allora la critica, mossa da crescenti segmenti della
stessa sinistra radicale, alla sinistra no border o buonista?
Formenti contrappone la necessità di estinguere i debiti che strangolano quelle
popolazioni con la vocazione ad «accoglierne indiscriminatamente le masse in
fuga dalla miseria, aggravando ulteriormente le condizioni delle classi
popolari occidentali» già sufficientemente colpite dalla crisi, finendo per
alimentare la classica guerra tra poveri.
Che
fare allora? Qual è la proposta? Non è del tutto esplicitata, ma l’idea sembra
fondamentalmente quella di inseguire le destre sul loro terreno. Certo si parte
con la critica al sistema diseguale, allo sfruttamento internazionale, ma si
finisce per rispolverare da sinistra l’«aiutiamoli a casa loro». Progetto
antimperialista lodevole che si infrange di fronte alle centinaia di migliaia
che arrivano in Europa”.
Un modulo classico della logica “politicamente
corretta”, è di sostituire una forma di categorizzazione e quindi di
comunicazione caratterizzata dalla ‘logica associativa’ (se dici una cosa,
allora devi essere in quella data identità preclassificata), e che fa
prevalere la ‘valenza indessicale’ (cioè il contesto della comunicazione) sul
contenuto semantico (il significato)[10].
Dunque il primo argomento è: si tratta di una posizione di destra.
Il secondo, immediatamente, è: non ci sono le risorse per aiutare a casa loro (ma Formenti non
parla di “aiutare”, casomai di “non distruggere”, bisogna decisamente rileggere
Samir Amin[11]).
Abbiamo quindi una fatwa, un potente interdetto, che
respinge fuori della casa assediata.
Ma non basta (perché troppo forte è l’argomento
sollevato), allora Bertorello cambia, con una mossa di prestigio, le carte sul
tavolo. E da confini/non confini,
passa a integrazione/non integrazione
di chi è già qui.
Se infatti, come prosegue, “il vero nodo è cosa si fa
con i migranti”, quelli che “sono qui”, ed è cosa fare con “l’odio montante”
(delle classi lavoratrici), che certamente “contribuisce a disarticolare le
classi subalterne”, allora il sovranismo rischia di alimentare il male.
“Il
sovranismo, volenti o nolenti, liscia il pelo ai peggiori istinti razzisti,
anzi rischia di alimentarli, non certo contribuisce a circoscriverli.
L’ambizione illusoria (in quanto trascura completamente come i principi
ipercompetitivi si possano innervare anche su una scala nazional-statuale) del
recupero della sovranità nazionale slitta inevitabilmente nel segmentare
ulteriormente i soggetti più deboli, in funzione del loro passaporto”
Il nostro attribuisce, di fronte ai limiti della sua
logica binaria ‘politicamente corretta’, alla sinistra che combatte l’idea di “inseguire
la destra”, ponendo questioni esistenti
nel reale ma coperte dall’interdetto costituente la soggettività della ‘sinistra’
ben intesa, allora è ovvio che “il sovranismo” liscia il pelo a istinti, e
li alimenta.
Il recupero della sovranità democratica e
costituzionale di fronte all’azione delle strutture imperialiste del capitale ed
alle istituzioni che questo ha creato, in particolare durante il trentennio ‘neoliberale’,
è identificato come ‘illusorio’. Non si può far niente e non ci sono
alternative (abbiamo visto, nei suoi libri che non ci sono né con un recupero
di sovranità monetaria, né, tanto meno, con politiche di spesa pubblica e
ricostruzione del welfare). Il fatto che i principi ipercompetitivi si possano
innervare a qualsiasi scala fa premio su quello che alla scala sovranazionale
hanno meno freni.
Come spesso capita ai generosi intellettuali di scuola
trotskista[12], la rivoluzione o è mondiale
o è meglio che fallisca, ogni avanzamento parziale rischia di essere a danno di
quello generale.
Con un esercizio assolutamente tipico, se “il ritorno
alla centralità dello Stato nazione non
esclude il piano inclinato dell’iper-competizione” (e chi lo può negare),
allora “semplicemente lo declina in
sedicesimi”. Notare che la frase parte con un “non esclude” (che è per
definizione non negabile), e chiude con un “declina”. Ciò che si può
considerare fermo è che se non esclude il piano inclinato non si può escludere che lo declini. Appunto, ma non è neppure
scritto che sia inutile, che il piano di lotta sia più favorevole a soluzioni
più avanzate (come si diceva una volta).
In realtà qui sono all’opera vecchi, anzi antichi, conflitti.
Quelli nei quali Gramsci, o Lenin, o lo stesso Marx, a volte si trovarono, in
alcuni contesti specifici, e di fronte a scelte situate nelle quali occorreva
decidere cosa fosse meglio in senso relativo e non assoluto, ma concretamente e
non in astratto. I conflitti variamente con gli anarco-sindacalisti italiani,
con i rivoluzionari di sinistra, con i protoanarchici e via dicendo.
Nella chiusa l’autore ricorda la tesi del suo libro
sull’euro e riassume, con enorme violenza all’argomento, diversi anni di dibattito
sull’euro nella formula critica di parte neoliberale secondo la quale tutto
consista nel semplice “svalutare la moneta” (che riecheggia la critica anni
novanta di parte Banca d’Italia e sodali alla politica monetaria degli anni
settanta) e che si tratti semplicemente di competere. A parte che se anche
fosse, sarebbe comunque un avanzamento (dato che oggi si compete sul costo del
solo lavoro, dunque al prezzo di impoverire italiani ed immigrati), appoggia su
questa falsa premessa, che lo avvicina ai fondisti del Corriere della Sera e lo associa alla critica borghese[13], la
conclusione che allora non ne deriverebbe alcuna torsione verso solidarietà e
legami sociali dal basso.
Leggiamo:
“Il
recupero di sovranità, infatti, sembra giocarsi come carta principale la possibilità
di svalutare la propria moneta, rincorrendo, appunto, il principio di
ipercompetitività. Se questa è la prospettiva non è credibile considerare il
recupero della sovranità nazionale un prerequisito per il cambiamento, in
quanto non appare consequenziale alcuna torsione verso solidarietà e legami
sociali dal basso”.
Anche qui si tratta di una frase che fa salti enormi,
e su questi fonda un’apparente dimostrazione. La “torsione verso solidarietà e legami sociali dal basso”, è un
chiarissimo obiettivo anarchico-liberario, ma non è un principio sul quale si
possa costruire l’intera società, e tutte le sue istituzioni. Dunque se
anche, ed io non lo credo, il recupero della democrazia reale (che di questo si
parla, e non altro) fosse sconnesso con la torsione del sociale verso legami
dal bassi, non sarebbe per questo indesiderabile.
A completamento della ‘dimostrazione’ torna ancora la
logica del ‘politicamente corretto’, e si evoca la destra, che chiederebbe lo
stesso con individuazione di uno spazio di reclusione:
“I
sovranisti di destra non a caso adottano la medesima strategia facendo leva su
un’ostilità alle diversità dal portato antropologico che favorisce
inevitabilmente una compartimentazione aclassista e basata sul marchio etnico.
La concorrenza si affermerà tra italiani e gli altri,
l’effetto disciplinamento diventerà il dispositivo di governo principale. Il
clima sociale che si va diffondendo è pessimo, ma propedeutico al contesto
“rinazionalizzato”: chi non lo vede o non lo percepisce vive su un altro
pianeta”.
Indubbiamente chi non lo vedesse sarebbe su un altro
pianeta.
Ma che dire di chi
non ne vede le cause?
Di chi, di fronte alla dinamica ed alla genealogia
indicata dall’articolo americano, e che non si è avuto il coraggio di negare,
termina saltando in alternative mal poste:
“Lavoriamo
per la costruzione di ponti, di alleanze sociali tra diversi, oppure dobbiamo
condurre una lotta antimperialista che non vuole vedere chi viene a vivere nel
nostro paese?”
La parola chiave qui è “diversi”. Il mito della
diversità che la sinistra post-strutturalista, traducendo lo spirito di
riaffermazione del liberalismo contro lo Stato burocratico e welfarista
novecentesco, lo stato protettore, ha posto come punto archimedeo della
decostruzione.
Lavorare per fare
ponti tra diversi è, infatti, per
definizione bene.
Si arriva alla formula iniziale, purtroppo senza
articolarla ulteriormente, ma ponendola ancora come un dogma:
“La
guerra tra poveri è già in corso, per cambiargli di segno bisogna riconoscere
la nuova composizione sociale delle classi subalterne. Aggregare anziché
separare. Ricomporre invece che sedersi sulle differenze esistenti. Niente di
facile s’intende, ma non esistono banali scorciatoie. Altrimenti il modello
originale (Lega e fascisti) risulterà sempre più affascinante e credibile della
copia (sovranisti-antimperialisti di varia natura)”.
Dunque, concludiamo: bisogna a ‘fare ponti tra diversi’,
ed ‘aggregare anziché separare’, ‘ricomporre anziché sedersi sulle differenze
esistenti’, senza scorciatoie. Altrimenti?
Altrimenti la destra vincerà.
A parte la valutazione, sulla quale sono di diverso
avviso: e i lavoratori?
Decisamente la sinistra li ha dimenticati[14].
[1]
- Come “Capitalismo
tossico”, nel quale vengono criticate tra l’altro le proposte neokeynesiane,
e proponendo una profonda modifica antropologica
(i “modelli alternativi”) fondata sulla de-competitività in grado di “reinventare
luoghi non privati e de-mercificati”. Oppure, “Non c’è
Euro che tenga”, nel quale critica l’ipotesi di uscire dall’Euro come “prerequisito
per risolvere la crisi”, ma sostenendo che il problema sia ben-altro e più
profondo ritorna al punto di “superare il sistema iper-competitivo esistente,
basato sulla centralità dell’economia a debito e sulla riduzione dei costi del
lavoro”. Si tratta di una classica opposizione tra una posizione riformista,
che prevede di migliorare la condizione esistente per accumulare la forza di
porre più avanzate posizioni future (posizione che non era aliena allo stesso Marx,
e tanto meno al suo amico Engels), ed una posizione massimalista ed estremista,
del ‘tanto peggio, tanto meglio’, per la quale nessun passo intermedio va
compiuto ma solo quello finale. Riporto un pezzo della sua argomentazione: “Si
può sempre sostenere che intanto rompere la moneta europea vuol dire sottrarsi
alle dinamiche negative che certamente l’euro comporta e allo stesso tempo
almeno aprire alla possibilità di un cambiamento. Difficile però che per
rompere i meccanismi dominanti fondati sull’ipercompetitività si passi per una
loro riproposizione su scala minore, attraverso riequilibri sui valori
monetari. Perché la conferma dei principi competitivi dovrebbe condurre fuori
da un sistema ipercompetitivo? Ecco il corto circuito di tale prospettiva. In
sostanza non si rimette in discussione la logica del mercato, le sue leggi, ma
si ha la pretesa a posteriori, cioè dopo che gli è stato consentito di rimanere
la cornice istituzional-economica, di correggerne gli effetti più perversi e
contraddittori”.
[2]
- Casa editrice cooperativa, fondata da Salvatore Cannavò, Antonino Cecchini e
Giulio Calella nel 2003, nel contesto dei movimenti no-global e per la pace di
quegli anni, e con riferimento specifico al Forum Sociale Mondiale di Porto
Alegre. La linea editoriale è di marxismo critico e libertario, di orientamento
vicino al movimento IV internazionalista di Lev Trotsky (nel 2017 ha avviato la
ripubblicazione dei volumi della Storia
della Rivoluzione Russa del rivoluzionario russo, nella traduzione di Livio
Maitan). E’ l’editore di Jacobin.
[3]
- Nella stessa linea abbiamo già letto: “Circa
la ‘tentazione’ del populismo democratico”, riguardo alcune critiche di
Michele Prospero; “Circa
Tomaso Montanari, l’identità inventata degli italiani”; “Circa
Carlo Rovelli: l’identità nazionale è fake”; “Loris
Caruso, la sovranità non è uno scandalo ma neppure un feticcio identitario”;
“Se
questa è la sinistra”, circa un articolo su Left di Ernesto Longobardi; “Circa
Luciana Castellina, lo tsunami di un sovranismo che divide”; “Circa
Marco Bascetta, una formula di moda per edulcorare il nazionalismo”; “Circa
Marco Bascetta, il discorso della sovranità è congeniale alla destra”.
[4]
- L’autrice americana ricorda come una posizione ‘no border’ fosse il cavallo
di battaglia di Reagan, che vedeva gli ostacoli alla mobilità delle persone
come una minaccia per l’intera umanità, e ne conclude che l’assenza di un radicamento
della sinistra nel movimento operaio (disintegrato dalla competizione, di uomini
e merci, e dall’apertura della globalizzazione) crea le condizioni per
rifugiarsi nel radicalismo culturale, senza avvedersi di essere prigionieri
della logica neoliberale ed “utili idioti” al suo servizio. Riporto un passo
dell’articolo: “Mentre nessun serio partito politico della sinistra offre
proposte concrete per una società veramente senza confini, la sinistra radicale
si è ridotta all’angolo abbracciando gli argomenti morali dei confini aperti e
gli argomenti economici dei think thank del libero mercato. Se ‘nessun
essere umano è illegale!’, Come recita il canto di protesta, la Sinistra
accetta implicitamente l’opposizione morale ‘no-border’ o ‘nazioni sovrane’. Ma
quali implicazioni avrà una migrazione illimitata per progetti come
l'assistenza sanitaria pubblica e l'istruzione universali, o una garanzia di
lavoro federale? E in che modo i progressisti spiegheranno in modo
convincente questi obiettivi al pubblico?” Come ha opportunamente ricordato
Bernie Sanders, durante la campagna elettorale, le politiche di apertura delle
frontiere sono promosse dagli ultraconservatori miliardari Fratelli
Koch (e dal progressista miliardario Soros). In effetti la battaglia si
combatte solo sul piano morale, sostiene l’autrice, perché il terreno delle
rivendicazioni sul lavoro è stato del tutto abbandonato. Restano solo le etichette
identitarie, svuotate di radicamento. Come ricorda,
ancora: “Dalla prima legge che limita l'immigrazione nel 1882 a Cesar Chavez e
ai famosi lavoratori multietnici della United Farm che protestano contro l'uso
dei datori di lavoro e l'incoraggiamento dell'emigrazione illegale nel 1969, i
sindacati si sono spesso opposti alla migrazione di massa. Videro
l'importazione deliberata di lavoratori illegali a basso salario come
indebolimento del potere contrattuale del lavoro e come forma di sfruttamento. Non c'è modo di aggirare il fatto che il
potere dei sindacati si basa per definizione sulla loro capacità di limitare e
ritirare l'offerta di lavoro, che diventa impossibile se un'intera forza lavoro
può essere facilmente ed economicamente sostituita. Le frontiere
aperte e l'immigrazione di massa sono una vittoria per i padroni”.
[5]
- Il cosiddetto “neoliberismo” è tutt’altro che una teoria omogenea o una
prassi perfettamente liscia, ma nella forma pura è certamente libertario sul
piano individuale e autoritario nei confronti delle organizzazioni delle forze dei
lavoratori, che tenta di inibire, considerandole tentativi di costituire monopoli
e ostacolare il ‘libero mercato’. Il “controllo autoritario” dipende dall’oggetto
al quale si applica, ma in alcuni casi è espressione di forze sociali che
richiedono risposta e che non sono affatto neoliberali, anzi che esprimono una
resistenza alla capacità del libero mercato, ovvero della logica mercificante
del capitale, di dissolvere ogni socialità.
[6]
- Nel post che ho scritto, di critica
al Decreto immigrazione, l’obiettivo di una politica equilibrata dovrebbe
essere di determinare una generale capacitazione, degli immigrati come dei
lavoratori e ceti subalterni, per portarli a contribuire alla crescita sociale
e civile del paese. In altre parole bisogna che gli effetti di deprivazione,
desocializzazione, etnicizzazione dei conflitti, connessi con l’immigrazione
selvaggia ed incontrollata siano neutralizzati. Per farlo bisogna assicurarsi che
non sia solo il mercato, intrinsecamente divaricante e competitivo, a
socializzare gli individui, ma che questa funzione nei suoi elementi di base
(l’alloggio, la sussistenza, la protezione e la dignità) sia assunta e
garantita apertamente dal pubblico, come peraltro prevede la nostra inapplicata
Costituzione.
[7]
- Lenin, citato da me all’avvio dell’articolo “Circa
Marco Bascetta, una formula di moda”.
[8] -
Che, grazie alla concorrenza senza freni seducono, sradicano ed importano, come
fossero merci, persone da tutto il mondo e le socializzano solo e nella misura
in cui servono allo scopo di farne utensili in macchine produttive, respingendo
il resto dell’umano che portano come scarto. Cosa che fanno nello stesso
identico modo con le persone che già si trovano nel paese.
[9]
- In Tommaso Detti, Giovanni Gozzini, “L’età
del disordine. Storia del mondo attuale 1968-2017”
[10]
- Si veda, Jonathan Friedman “Politicamente
corretto”.
[11]
- Abbiamo letto di Samir Amin “Lo sviluppo ineguale”, 1973; “Oltre la mondializzazione”, 1999; “Il virus liberale”,
2004; “Per un mondo multipolare”, 2006; “La crisi”, 2009.
[12]
- Non a tutti, c’è l’eccezione di alcuni militanti di Progetto 101.
[13]
- La quale teme in primo luogo la svalutazione relativa della valuta per la
perdita di potere di acquisto dei beni capitali mobili in relazione a
investimenti e beni esteri, di cui è avida.
[14] -
Invece Ottenere la neutralizzazione dei meccanismi segreganti di mercato è
necessario prima di accogliere e per poterlo fare integralmente.
Dunque se si vuole puntare ad una società inclusiva, che è quel che vogliamo,
bisogna necessariamente ottenere e mantenere la piena occupazione ed
un società nella quale ognuno si sente protetto e riconosciuto per il
contributo che può dare. Si tratta, però, di un processo di riparazione della
nostra società malata e sbilanciata (nella quale troppi sono sprecati, resi
inutili), che non può essere che graduale, autorafforzante, ed il cui ritmo va
quindi controllato e reso sostenibile. Per condurlo in forme democratiche è
necessario che si crei e si conservi il consenso verso un diverso progetto
comune. Il progetto di assicurarsi gli uni degli altri, di vivere considerando
tutti gli altri come parte di sé e come propria responsabilità.
Ma
nessuno può immaginare, in qualsiasi senso, che d’un colpo, tutto insieme, si
possa garantire la piena integrazione di ognuno ed il potenziamento della
capacità di ciascuno. Anzi, nelle condizioni presenti, attive le forze del
mercato e dominanti, l’incremento dell’offerta pubblica di servizi, la
realizzazione di un vasto programma per il disagio abitativo, distribuito,
sostenibile ed associato a pratiche di messa in comune[17], di un programma di lavoro di ultima
istanza, di forme universaliste ed adeguate di sostegno alla famiglia ed ai
minori, diritto alla salute, formazione continua, e così via, attrarrebbe
inevitabilmente flussi migratori crescenti in grado di soverchiare qualsiasi
capacità di offerta. Le capacità di creare un’adeguata offerta pubblica di
servizi, in quanto sostenuta dal volume complessivo della produzione sociale,
in qualunque modo e proporzione sia canalizzato in consumi pubblici, non può
che crescere gradualmente, man mano che vengono messe al lavoro e potenziate le
risorse sociali. Come in quasi tutto è quindi essenzialmente questione di
ritmo.
È
dunque tecnicamente, moralmente e logicamente necessario che mentre cresce
questa capacità l’immigrazione sia regolata. Regolata, precisamente, sulla
capacità, crescente, di integrazione sociale guidata dai programmi pubblici
garantiti e sostenuta anche da un mercato disciplinato, addomesticato e
potenziato.
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