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mercoledì 19 dicembre 2018

Circa Marco Bertorello, “A chi è utile la sinistra pro border?”



Marco Bertorello che collabora con Il Manifesto, ed è autore di alcuni saggi[1] con Alegre[2], su Jacobin Italia, ha scritto un articolo che si inserisce nel fortunato filone letterario[3] della critica alla critica alle strutture istituzionali e politiche della mondializzazione sulla base di una rivendicazione di sovranità ed autogoverno politico e quindi fondata sulle democrazie costituzionali esistenti. La critica alla critica è concentrata, però, sulla più limitata questione dell’immigrazione e quindi alla ‘questione dei confini’.

Secondo Bertorello, che con analoghi movimenti di pensiero critica la rilevanza dell’uscita dall’Euro, di cui riconosce meccanica e ruolo nella oppressione di classe attuale, e le politiche neokeynesiane, ovvero l’espansione della spesa pubblica con fini di riequilibrio redistributivo, “sigillare i confini dello Stato nazione non è garanzia di solidarietà: sposta la competizione tra gli italiani e tutti gli altri. Al contrario per fermare la guerra tra poveri bisogna riconoscere la composizione dei subalterni”.

Vediamo cosa significa questa frase.

Bertorello attacca direttamente un intervento di Carlo Formenti su “Rinascita!”, che, a sua volta, commentava un articolo su “American Affairs”, nel quale Angela Nagle, collaboratrice di Jacobin America, criticava l’amnesia della sinistra americana circa la posizione storica delle sinistre sull’immigrazione[4].


In questa ‘Matrioska’ di articoli, insomma, che ha alla base il più interessante, Jacobin Italia prende posizione netta, lamentando intanto i toni tranchant dell’articolo di Formenti. Dopo l’apertura ‘democratica’ e conciliante, avvia a sua volta una lettura sommaria dell’articolo della Nagle che ricostruisce correttamente. Quindi ammette un punto che non è poco, “indubbiamente un esercito industriale di riserva svolge un’efficace funzione di contenimento dei salari nei paesi occidentali e non solo, indubbiamente una certa sinistra si è soffermata unicamente sulla dimensione dei diritti civili e individuali, come è indubbio che agiscano fenomeni di sfruttamento imperialistico”.
Potrebbe terminare qui ma il nostro ha una obiezione cruciale: “assimilare le presunte politiche no border al neoliberismo costituisce una semplificazione che favorisce molteplici incomprensioni”. In una sola frase contesta quindi che esistano politiche no-border (poveri fratelli Koch, hanno speso centinaia di milioni per nulla), e dall’altra invita a distinguere.
Ancora una postura ‘democratica’ e ragionevole.

Bene, è sempre opportuno distinguere.


Cosa?

Da un lato per Bertorello è vero che “la destrutturazione del mercato del lavoro si afferma anche attraverso l’immigrazione di manodopera straniera pagata meno”, dall’altro, però, “le politiche neoliberiste si sono guardate bene dall’adottare politiche effettive di apertura alle ondate di immigrazione”.

Qui il punto è la specifica “apertura effettiva”.

La distinzione è rilevante: le politiche neoliberiste consistono nell’importare lavoratori deboli, per sostituire (ed indebolire) lavoratori forti. Così funziona la meccanica voluta dal Cato Institute ed altri. La frase successiva mischia cose molto diverse e fa confusione, ma il punto è questo. Il tic libertario del nostro lo porta a concludere che “neoliberismo e controllo autoritario in questi anni sono andati a braccetto”. Una frase che evidentemente lavora con estensioni dei termini confuse, e/o visioni delle dinamiche politiche concrete troppo semplici[5].
Invece la questione potrebbe essere la traccia per capire che è l’integrazione il punto cruciale, ma integrare attraverso il mercato, il ‘libero mercato’ neoliberale, significa sempre integrare in modo subalterno e partendo dal grado più basso di sfruttamento, lo scopo dell’immigrazione di nuova forza lavoro è sempre per sostituire forza lavoro esistente più costosa, ovvero per non essere costretto a pagarla di più. Integrare attraverso l’impiego di capitale pubblico, invece, presume l’impiego di risorse non illimitate (per costruire case, per ampliare servizi, per potenziare l’istruzione, per sostenere il reddito) che non possono essere sganciate dalla gestione dei flussi. Integrare attraverso il pubblico significa commisurare i flussi alle risorse e soprattutto salvaguardare i rapporti di forza che rendono il lavoro, complessivo, più forte nei riguardi del capitale[6].
Non è affatto un caso che il Cato Institute, finanziato dai Fratelli Koch, e tutti gli altri think thank neoliberali spingano per il no-border, flussi potenzialmente illimitati inevitabilmente soverchieranno sempre i tentativi di integrare con capitale pubblico, quanto più questi avessero successo, tanto più crescerebbero i flussi. Gli spiriti animali del mercato determinerebbero i flussi secondo una meccanica regolata dalla debolezza del lavoro rispetto al capitale, ed il cui effetto sarebbe di garantirla.




La posta della questione dell’immigrazione è molto alta. Si tratta del tema della concorrenza come ordinatore fondamentale della nostra società, su questo io e l’autore siamo in accordo. Ma il nostro rifiuta ogni prospettiva che mobiliti il capitale pubblico e si rifugia nel “comune” e quindi nella spinta volontaria e moralmente orientata.

Si tratta di un effetto della deriva della cultura della sinistra, che una volta, anche se a volte ingenuamente, era materialista e cercava sempre di partire ‘dall’analisi precisa della situazione obiettiva’[7].

Rigettando, nel suo libro “Capitalismo tossico”, ogni soluzione di potenziamento del welfare, in quanto neokenesiana, il nostro non può vedere che l’integrazione ed i ponti di cui parla nella chiusura camminano sulle gambe della spesa pubblica, e quindi sono soggette ad una dinamica certamente potenzialmente ascendente, ma non priva di vincoli e di attriti materiali. 
Come per la questione della casa e per il “Diritto alla città”, la vera questione è di emancipazione della parte produttiva della società, riscattando dal mercato e dai suoi meccanismi[8] grazie al potenziamento, radicale e drastico, dell’offerta di servizi sociali e del welfare.

Del resto l’indiscriminata accoglienza, se resta sostanzialmente affidata alle capacità di socializzazione del solo mercato, in particolare nelle condizioni odierne, è finta. Si tramuta immediatamente ad un fattore di aggravamento, in particolare per le nostre periferie e aree di abbandono.



Ma tutto questo è indisponibile alla logica del nostro, dire che “neoliberismo e controllo autoritario in questi anni sono andati a braccetto” (una frase, che cade incongrua ed immotivata, essendo espressione ‘dal sen tratta’), diventa la cerniera del pezzo.

La migrazione, forzando l’argomentazione storica di Detti e Gozzini[9], viene allora riletta quasi come prodotto naturale di tecnologia e crescita (“fenomeni di ascesa sociale relativa che, combinati persino con la diffusione di nuove tecnologie, hanno reso il mondo più piccolo e consentito ad alcuni segmenti sociali di muoversi come mai prima d’ora”).

Alla fine, di fronte al vicolo cieco nel quale si è cacciato, spinto dalla argomentazione della giornalista americana, che non può negare, salta al cui prodest? Dove vuole andare a parare Formenti?
Che esito ha questa critica che non posso controbattere? Che coglie un punto inaggirabile?

Con le sue parole:

“Ma dove vuole andare a parare allora la critica, mossa da crescenti segmenti della stessa sinistra radicale, alla sinistra no border o buonista? Formenti contrappone la necessità di estinguere i debiti che strangolano quelle popolazioni con la vocazione ad «accoglierne indiscriminatamente le masse in fuga dalla miseria, aggravando ulteriormente le condizioni delle classi popolari occidentali» già sufficientemente colpite dalla crisi, finendo per alimentare la classica guerra tra poveri.
Che fare allora? Qual è la proposta? Non è del tutto esplicitata, ma l’idea sembra fondamentalmente quella di inseguire le destre sul loro terreno. Certo si parte con la critica al sistema diseguale, allo sfruttamento internazionale, ma si finisce per rispolverare da sinistra l’«aiutiamoli a casa loro». Progetto antimperialista lodevole che si infrange di fronte alle centinaia di migliaia che arrivano in Europa”.

Un modulo classico della logica “politicamente corretta”, è di sostituire una forma di categorizzazione e quindi di comunicazione caratterizzata dalla ‘logica associativa’ (se dici una cosa, allora devi essere in quella data identità preclassificata), e che fa prevalere la ‘valenza indessicale’ (cioè il contesto della comunicazione) sul contenuto semantico (il significato)[10].  
Dunque il primo argomento è: si tratta di una posizione di destra.
Il secondo, immediatamente, è: non ci sono le risorse per aiutare a casa loro (ma Formenti non parla di “aiutare”, casomai di “non distruggere”, bisogna decisamente rileggere Samir Amin[11]).

Abbiamo quindi una fatwa, un potente interdetto, che respinge fuori della casa assediata.

Ma non basta (perché troppo forte è l’argomento sollevato), allora Bertorello cambia, con una mossa di prestigio, le carte sul tavolo. E da confini/non confini, passa a integrazione/non integrazione di chi è già qui.
Se infatti, come prosegue, “il vero nodo è cosa si fa con i migranti”, quelli che “sono qui”, ed è cosa fare con “l’odio montante” (delle classi lavoratrici), che certamente “contribuisce a disarticolare le classi subalterne”, allora il sovranismo rischia di alimentare il male.

“Il sovranismo, volenti o nolenti, liscia il pelo ai peggiori istinti razzisti, anzi rischia di alimentarli, non certo contribuisce a circoscriverli. L’ambizione illusoria (in quanto trascura completamente come i principi ipercompetitivi si possano innervare anche su una scala nazional-statuale) del recupero della sovranità nazionale slitta inevitabilmente nel segmentare ulteriormente i soggetti più deboli, in funzione del loro passaporto”

Il nostro attribuisce, di fronte ai limiti della sua logica binaria ‘politicamente corretta’, alla sinistra che combatte l’idea di “inseguire la destra”, ponendo questioni esistenti nel reale ma coperte dall’interdetto costituente la soggettività della ‘sinistra’ ben intesa, allora è ovvio che “il sovranismo” liscia il pelo a istinti, e li alimenta.
Il recupero della sovranità democratica e costituzionale di fronte all’azione delle strutture imperialiste del capitale ed alle istituzioni che questo ha creato, in particolare durante il trentennio ‘neoliberale’, è identificato come ‘illusorio’. Non si può far niente e non ci sono alternative (abbiamo visto, nei suoi libri che non ci sono né con un recupero di sovranità monetaria, né, tanto meno, con politiche di spesa pubblica e ricostruzione del welfare). Il fatto che i principi ipercompetitivi si possano innervare a qualsiasi scala fa premio su quello che alla scala sovranazionale hanno meno freni.
Come spesso capita ai generosi intellettuali di scuola trotskista[12], la rivoluzione o è mondiale o è meglio che fallisca, ogni avanzamento parziale rischia di essere a danno di quello generale.

Con un esercizio assolutamente tipico, se “il ritorno alla centralità dello Stato nazione non esclude il piano inclinato dell’iper-competizione” (e chi lo può negare), allora “semplicemente lo declina in sedicesimi”. Notare che la frase parte con un “non esclude” (che è per definizione non negabile), e chiude con un “declina”. Ciò che si può considerare fermo è che se non esclude il piano inclinato non si può escludere che lo declini. Appunto, ma non è neppure scritto che sia inutile, che il piano di lotta sia più favorevole a soluzioni più avanzate (come si diceva una volta).

In realtà qui sono all’opera vecchi, anzi antichi, conflitti. Quelli nei quali Gramsci, o Lenin, o lo stesso Marx, a volte si trovarono, in alcuni contesti specifici, e di fronte a scelte situate nelle quali occorreva decidere cosa fosse meglio in senso relativo e non assoluto, ma concretamente e non in astratto. I conflitti variamente con gli anarco-sindacalisti italiani, con i rivoluzionari di sinistra, con i protoanarchici e via dicendo.

Nella chiusa l’autore ricorda la tesi del suo libro sull’euro e riassume, con enorme violenza all’argomento, diversi anni di dibattito sull’euro nella formula critica di parte neoliberale secondo la quale tutto consista nel semplice “svalutare la moneta” (che riecheggia la critica anni novanta di parte Banca d’Italia e sodali alla politica monetaria degli anni settanta) e che si tratti semplicemente di competere. A parte che se anche fosse, sarebbe comunque un avanzamento (dato che oggi si compete sul costo del solo lavoro, dunque al prezzo di impoverire italiani ed immigrati), appoggia su questa falsa premessa, che lo avvicina ai fondisti del Corriere della Sera e lo associa alla critica borghese[13], la conclusione che allora non ne deriverebbe alcuna torsione verso solidarietà e legami sociali dal basso.

Leggiamo:
“Il recupero di sovranità, infatti, sembra giocarsi come carta principale la possibilità di svalutare la propria moneta, rincorrendo, appunto, il principio di ipercompetitività. Se questa è la prospettiva non è credibile considerare il recupero della sovranità nazionale un prerequisito per il cambiamento, in quanto non appare consequenziale alcuna torsione verso solidarietà e legami sociali dal basso”.



Anche qui si tratta di una frase che fa salti enormi, e su questi fonda un’apparente dimostrazione. La “torsione verso solidarietà e legami sociali dal basso”, è un chiarissimo obiettivo anarchico-liberario, ma non è un principio sul quale si possa costruire l’intera società, e tutte le sue istituzioni. Dunque se anche, ed io non lo credo, il recupero della democrazia reale (che di questo si parla, e non altro) fosse sconnesso con la torsione del sociale verso legami dal bassi, non sarebbe per questo indesiderabile.

A completamento della ‘dimostrazione’ torna ancora la logica del ‘politicamente corretto’, e si evoca la destra, che chiederebbe lo stesso con individuazione di uno spazio di reclusione:


“I sovranisti di destra non a caso adottano la medesima strategia facendo leva su un’ostilità alle diversità dal portato antropologico che favorisce inevitabilmente una compartimentazione aclassista e basata sul marchio etnico. La concorrenza si affermerà tra italiani e gli altri, l’effetto disciplinamento diventerà il dispositivo di governo principale. Il clima sociale che si va diffondendo è pessimo, ma propedeutico al contesto “rinazionalizzato”: chi non lo vede o non lo percepisce vive su un altro pianeta”.

Indubbiamente chi non lo vedesse sarebbe su un altro pianeta.

Ma che dire di chi non ne vede le cause?

Di chi, di fronte alla dinamica ed alla genealogia indicata dall’articolo americano, e che non si è avuto il coraggio di negare, termina saltando in alternative mal poste:

“Lavoriamo per la costruzione di ponti, di alleanze sociali tra diversi, oppure dobbiamo condurre una lotta antimperialista che non vuole vedere chi viene a vivere nel nostro paese?”

La parola chiave qui è “diversi”. Il mito della diversità che la sinistra post-strutturalista, traducendo lo spirito di riaffermazione del liberalismo contro lo Stato burocratico e welfarista novecentesco, lo stato protettore, ha posto come punto archimedeo della decostruzione.

Lavorare per fare ponti tra diversi è, infatti, per definizione bene.

Si arriva alla formula iniziale, purtroppo senza articolarla ulteriormente, ma ponendola ancora come un dogma:

“La guerra tra poveri è già in corso, per cambiargli di segno bisogna riconoscere la nuova composizione sociale delle classi subalterne. Aggregare anziché separare. Ricomporre invece che sedersi sulle differenze esistenti. Niente di facile s’intende, ma non esistono banali scorciatoie. Altrimenti il modello originale (Lega e fascisti) risulterà sempre più affascinante e credibile della copia (sovranisti-antimperialisti di varia natura)”.

Dunque, concludiamo: bisogna a ‘fare ponti tra diversi’, ed ‘aggregare anziché separare’, ‘ricomporre anziché sedersi sulle differenze esistenti’, senza scorciatoie. Altrimenti?
Altrimenti la destra vincerà.


A parte la valutazione, sulla quale sono di diverso avviso: e i lavoratori?





Decisamente la sinistra li ha dimenticati[14].




[1] - Come “Capitalismo tossico”, nel quale vengono criticate tra l’altro le proposte neokeynesiane,  e proponendo una profonda modifica antropologica (i “modelli alternativi”) fondata sulla de-competitività in grado di “reinventare luoghi non privati e de-mercificati”. Oppure, “Non c’è Euro che tenga”, nel quale critica l’ipotesi di uscire dall’Euro come “prerequisito per risolvere la crisi”, ma sostenendo che il problema sia ben-altro e più profondo ritorna al punto di “superare il sistema iper-competitivo esistente, basato sulla centralità dell’economia a debito e sulla riduzione dei costi del lavoro”. Si tratta di una classica opposizione tra una posizione riformista, che prevede di migliorare la condizione esistente per accumulare la forza di porre più avanzate posizioni future (posizione che non era aliena allo stesso Marx, e tanto meno al suo amico Engels), ed una posizione massimalista ed estremista, del ‘tanto peggio, tanto meglio’, per la quale nessun passo intermedio va compiuto ma solo quello finale. Riporto un pezzo della sua argomentazione: “Si può sempre sostenere che intanto rompere la moneta europea vuol dire sottrarsi alle dinamiche negative che certamente l’euro comporta e allo stesso tempo almeno aprire alla possibilità di un cambiamento. Difficile però che per rompere i meccanismi dominanti fondati sull’ipercompetitività si passi per una loro riproposizione su scala minore, attraverso riequilibri sui valori monetari. Perché la conferma dei principi competitivi dovrebbe condurre fuori da un sistema ipercompetitivo? Ecco il corto circuito di tale prospettiva. In sostanza non si rimette in discussione la logica del mercato, le sue leggi, ma si ha la pretesa a posteriori, cioè dopo che gli è stato consentito di rimanere la cornice istituzional-economica, di correggerne gli effetti più perversi e contraddittori”.
[2] - Casa editrice cooperativa, fondata da Salvatore Cannavò, Antonino Cecchini e Giulio Calella nel 2003, nel contesto dei movimenti no-global e per la pace di quegli anni, e con riferimento specifico al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre. La linea editoriale è di marxismo critico e libertario, di orientamento vicino al movimento IV internazionalista di Lev Trotsky (nel 2017 ha avviato la ripubblicazione dei volumi della Storia della Rivoluzione Russa del rivoluzionario russo, nella traduzione di Livio Maitan). E’ l’editore di Jacobin.
[4] - L’autrice americana ricorda come una posizione ‘no border’ fosse il cavallo di battaglia di Reagan, che vedeva gli ostacoli alla mobilità delle persone come una minaccia per l’intera umanità, e ne conclude che l’assenza di un radicamento della sinistra nel movimento operaio (disintegrato dalla competizione, di uomini e merci, e dall’apertura della globalizzazione) crea le condizioni per rifugiarsi nel radicalismo culturale, senza avvedersi di essere prigionieri della logica neoliberale ed “utili idioti” al suo servizio. Riporto un passo dell’articolo: “Mentre nessun serio partito politico della sinistra offre proposte concrete per una società veramente senza confini, la sinistra radicale si è ridotta all’angolo abbracciando gli argomenti morali dei confini aperti e gli argomenti economici dei think thank del libero mercato. Se ‘nessun essere umano è illegale!’, Come recita il canto di protesta, la Sinistra accetta implicitamente l’opposizione morale ‘no-border’ o ‘nazioni sovrane’. Ma quali implicazioni avrà una migrazione illimitata per progetti come l'assistenza sanitaria pubblica e l'istruzione universali, o una garanzia di lavoro federale? E in che modo i progressisti spiegheranno in modo convincente questi obiettivi al pubblico?” Come ha opportunamente ricordato Bernie Sanders, durante la campagna elettorale, le politiche di apertura delle frontiere sono promosse dagli ultraconservatori miliardari Fratelli Koch (e dal progressista miliardario Soros). In effetti la battaglia si combatte solo sul piano morale, sostiene l’autrice, perché il terreno delle rivendicazioni sul lavoro è stato del tutto abbandonato. Restano solo le etichette identitarie, svuotate di radicamento. Come ricorda, ancora: “Dalla prima legge che limita l'immigrazione nel 1882 a Cesar Chavez e ai famosi lavoratori multietnici della United Farm che protestano contro l'uso dei datori di lavoro e l'incoraggiamento dell'emigrazione illegale nel 1969, i sindacati si sono spesso opposti alla migrazione di massa. Videro l'importazione deliberata di lavoratori illegali a basso salario come indebolimento del potere contrattuale del lavoro e come forma di sfruttamento. Non c'è modo di aggirare il fatto che il potere dei sindacati si basa per definizione sulla loro capacità di limitare e ritirare l'offerta di lavoro, che diventa impossibile se un'intera forza lavoro può essere facilmente ed economicamente sostituita. Le frontiere aperte e l'immigrazione di massa sono una vittoria per i padroni”.
[5] - Il cosiddetto “neoliberismo” è tutt’altro che una teoria omogenea o una prassi perfettamente liscia, ma nella forma pura è certamente libertario sul piano individuale e autoritario nei confronti delle organizzazioni delle forze dei lavoratori, che tenta di inibire, considerandole tentativi di costituire monopoli e ostacolare il ‘libero mercato’. Il “controllo autoritario” dipende dall’oggetto al quale si applica, ma in alcuni casi è espressione di forze sociali che richiedono risposta e che non sono affatto neoliberali, anzi che esprimono una resistenza alla capacità del libero mercato, ovvero della logica mercificante del capitale, di dissolvere ogni socialità.
[6] - Nel post che ho scritto, di critica al Decreto immigrazione, l’obiettivo di una politica equilibrata dovrebbe essere di determinare una generale capacitazione, degli immigrati come dei lavoratori e ceti subalterni, per portarli a contribuire alla crescita sociale e civile del paese. In altre parole bisogna che gli effetti di deprivazione, desocializzazione, etnicizzazione dei conflitti, connessi con l’immigrazione selvaggia ed incontrollata siano neutralizzati. Per farlo bisogna assicurarsi che non sia solo il mercato, intrinsecamente divaricante e competitivo, a socializzare gli individui, ma che questa funzione nei suoi elementi di base (l’alloggio, la sussistenza, la protezione e la dignità) sia assunta e garantita apertamente dal pubblico, come peraltro prevede la nostra inapplicata Costituzione.
[7] - Lenin, citato da me all’avvio dell’articolo “Circa Marco Bascetta, una formula di moda”.
[8] - Che, grazie alla concorrenza senza freni seducono, sradicano ed importano, come fossero merci, persone da tutto il mondo e le socializzano solo e nella misura in cui servono allo scopo di farne utensili in macchine produttive, respingendo il resto dell’umano che portano come scarto. Cosa che fanno nello stesso identico modo con le persone che già si trovano nel paese.
[9] - In Tommaso Detti, Giovanni Gozzini, “L’età del disordine. Storia del mondo attuale 1968-2017
[10] - Si veda, Jonathan Friedman “Politicamente corretto”.
[11] - Abbiamo letto di Samir Amin  Lo sviluppo ineguale”, 1973; “Oltre la mondializzazione”, 1999; “Il virus liberale”, 2004; “Per un mondo multipolare”, 2006; “La crisi”, 2009.
[12] - Non a tutti, c’è l’eccezione di alcuni militanti di Progetto 101.
[13] - La quale teme in primo luogo la svalutazione relativa della valuta per la perdita di potere di acquisto dei beni capitali mobili in relazione a investimenti e beni esteri, di cui è avida.
[14] - Invece Ottenere la neutralizzazione dei meccanismi segreganti di mercato è necessario prima di accogliere e per poterlo fare integralmente. Dunque se si vuole puntare ad una società inclusiva, che è quel che vogliamo, bisogna necessariamente ottenere e mantenere la piena occupazione ed un società nella quale ognuno si sente protetto e riconosciuto per il contributo che può dare. Si tratta, però, di un processo di riparazione della nostra società malata e sbilanciata (nella quale troppi sono sprecati, resi inutili), che non può essere che graduale, autorafforzante, ed il cui ritmo va quindi controllato e reso sostenibile. Per condurlo in forme democratiche è necessario che si crei e si conservi il consenso verso un diverso progetto comune. Il progetto di assicurarsi gli uni degli altri, di vivere considerando tutti gli altri come parte di sé e come propria responsabilità.
Ma nessuno può immaginare, in qualsiasi senso, che d’un colpo, tutto insieme, si possa garantire la piena integrazione di ognuno ed il potenziamento della capacità di ciascuno. Anzi, nelle condizioni presenti, attive le forze del mercato e dominanti, l’incremento dell’offerta pubblica di servizi, la realizzazione di un vasto programma per il disagio abitativo, distribuito, sostenibile ed associato a pratiche di messa in comune[17], di un programma di lavoro di ultima istanza, di forme universaliste ed adeguate di sostegno alla famiglia ed ai minori, diritto alla salute, formazione continua, e così via, attrarrebbe inevitabilmente flussi migratori crescenti in grado di soverchiare qualsiasi capacità di offerta. Le capacità di creare un’adeguata offerta pubblica di servizi, in quanto sostenuta dal volume complessivo della produzione sociale, in qualunque modo e proporzione sia canalizzato in consumi pubblici, non può che crescere gradualmente, man mano che vengono messe al lavoro e potenziate le risorse sociali. Come in quasi tutto è quindi essenzialmente questione di ritmo.
È dunque tecnicamente, moralmente e logicamente necessario che mentre cresce questa capacità l’immigrazione sia regolata. Regolata, precisamente, sulla capacità, crescente, di integrazione sociale guidata dai programmi pubblici garantiti e sostenuta anche da un mercato disciplinato, addomesticato e potenziato.

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