Dopo aver letto e commentato l’articolo
di Ernesto Longobardi che attacca le politiche di spesa ed espansione del
welfare, ed averne inseguito le fonti commentando l’articolo di Luciana Castellina
da lui portato a sostegno, “Lo
tsunami di un sovranismo che ci divide”, vale la pena leggere anche l’articolo
(egualmente portato da Longobardi a dimostrazione della cattiveria del
‘sovranismo’), di Marco Bascetta “Il
discorso sulla sovranità è congeniale alla destra”.
Un mio vecchio professore di pianificazione, Pierluigi
Crosta, disse una volta che se offerto di un buon pranzo avrebbe potuto
argomentare a lungo in favore di una tesi verso la quale in ultima
analisi era contrario[1] (ad esempio ‘che il discorso sulla sovranità sia
congeniale alla destra’).
Siamo
in questo caso: anche io potrei sostenere che il discorso sulla sovranità è
congeniale alla destra, ma non con gli argomenti di Bascetta, e non per le sue
ragioni[2]. Peraltro la vera domanda da farsi sarebbe se questo discorso è appropriato alla fase,
non se sia congeniale a questo o quello; chi non ha timori o complessi circa la
propria identità non si preoccupa se una cosa giusta sia congeniale anche ad altri.
Abbiamo già visto in “Una
formula per edulcorare il nazionalismo” che Marco Bascetta è davvero
impegnato in una crociata che, però, nei suoi termini è profondamente
anti-storica e non può che produrre l’espulsione della sinistra che gli è cara
da ogni possibilità di tornare rilevante politicamente. Ciò perché la fase
storica pone al centro la rimodulazione della globalizzazione, la quale ha
ormai mostrato interamente la sua vera faccia di dominio imperialista. Per essere
più precisi, e seguendo in questo l’analisi di Samir Amin[3], il
dominio imperialista di un ‘centro’ composto da USA, Europa e Giappone e
sfidato da due centri competitivi (Russia e Cina), cui si dispongono corone di ‘periferie’
più o meno subalterne. Entro quella che Amin chiama “la Triade”, però, ci sono ‘centri’
e ‘periferie’ interne, e un dominus (gli USA). A sua volta nella dinamica europea,
frattale della dinamica mondiale, la diarchia del centro tra Francia e Germania
(con l’Inghilterra terzo incomodo), si sta polarizzando irresistibilmente dal
momento della ristrutturazione capitalistica del 2008 e seg, intorno alla sola
Germania. Entro i diversi paesi tra un ‘centro’ composto dalla grande industria
con proiezione internazionale, e la grande finanza, e ‘periferie’ composte da
centri subalterni e/o aree di margine. Noi viviamo in un centro subalterno (il
nord) ed un margine (il sud)[4].
Se questa è la ‘realtà oggettiva’ che le dinamiche polarizzanti
e gerarchizzanti del capitalismo, allo stato della sua tecnica, inducono in
essere, allora ciò che è appropriato alla fase è relazionarsi ad essa. Attardarsi
nella declamazione di ‘frasi rivoluzionarie’[5], perché
si ha paura di analizzare la realtà oggettiva, non si vuole adattarsi, non si è
disposti anche a “strisciare sul ventre, nel fango”[6],
significa farsi eliminare dalla storia. Come, in effetti, sta accadendo.
Questa è la ragione per la quale, in ultima analisi,
sono contrario a ritenere che il discorso sulla sovranità sia congeniale solo alla destra. La missione che
abbiamo davanti è di dimostrare che anche una prospettiva socialista, ovvero non di sinistra[7],
la sovranità è rilevante. Precisamente che bisogna riaffermare e difendere, in
tutte le sedi, la capacità di autodeterminarsi secondo l’estensione della
democrazia e dell’autogoverno, sottraendo alla destra populista la bandiera
della difesa popolare davanti all’offensiva del neoliberismo imperiale. Sottraendogliela,
precisamente, perché questa bandiera è
nostra, la destra populista ne fa solo un uso strumentale.
Del resto, venendo ad un commento più attento, anche
Bascetta parla di “guardare la realtà che
ci sta di fronte”, ma di questa vede solo lo strato delle retoriche. Anche lui
fa uso delle analogie storiche, partendo da una altamente imprecisa e
tendenziosa (che, tuttavia, riconosce onestamente per tale).
“I socialisti che
votarono i crediti di guerra a favore della macelleria che devastò l’Europa tra
il 1914 e il 1918 erano di «sinistra» e buoni patrioti. Il successo della
rivoluzione d’ottobre fu invece la conseguenza di una scelta decisamente
antipatriottica. Rievocare tutto questo nella polemica contemporanea tra
«sovranismo» ed europeismo è senz’altro una mossa tendenziosa, anche se non
così spudoratamente impropria come il richiamarsi al «patriottismo» di
Machiavelli o di Rousseau”.
Al netto di dichiarare la rivoluzione d’ottobre “antipatriottica”,
contro la parola di quasi tutti i suoi esponenti (magari non di Trotsky, dovrei
compulsare i testi), indubbiamente rievocare testi e discorsi fuori contesto è
una cattiva pratica, come dice egli stesso “ogni cosa deve essere ragionevolmente
riferita al suo contesto”, ed oggi sicuramente “è un altro mondo”. Precisamente è il mondo sommariamente descritto
all’avvio del post.
Ma il mondo che costituisce la nostra realtà non è
letterariamente, o politicamente, quello di semplici discorsi, eventualmente egemonizzati da questo o quello, ma quello
dei rapporti sociali determinati dalla
meccanica dei poteri dai quali scaturiscono priorità, bisogni ed urgenze
obiettivi. Si, dunque, “il discorso della sovranità nazionale è [oggi] totalmente
egemonizzato dalla destra”, è vero.
Ma resta un semplice fatto: il terreno della sovranità
nazionale, democratica e costituzionale, ovvero della autodeterminazione popolare,
è il terreno sul quale si gioca oggi la partita cruciale. La partita tra le
élite tecnocratiche e le capacità di movimento e sfruttamento del capitale, e il
bisogno e desiderio di autoespressione e di protezione che viene dalle
periferie rese subalterne.
Questo è un semplice fatto. È semplicemente la realtà.
Se anche dunque fosse vero, ed io non lo credo, che si
tratta “del discorso che le è più proprio” (alla destra), stare fuori di questo
terreno significa inevitabilmente ritrarsi nei quartieri borghesi, al sicuro, e
ripetere sistematicamente gli stanchi riti di una sinistra che da decenni ha
pensato solo alla propria identità, dimenticando tutto e tutti.
Ove fosse “impresa vana” stare su questo terreno
vorrebbe semplicemente dire che per la
sinistra non c’è più spazio nel mondo. Ma ancora, che oggettivamente è bene non ci sia, perché il residuo che
materialmente è presente al massimo si colloca da qualche parte tra una “società
di carità” e un “club letterario”.
Bascetta è uno dotato di una certa capacità e di
indubbia cultura, quindi riecheggia, astutamente, una notevole serie di cliché
abilmente tratti dalla tradizione marxista e collocati tra il medio XIX secolo
e l’avvio del XX (come direbbe, “un’altra storia, un altro mondo”) questa volta
evitando di ascoltare la sua stessa giusta prescrizione metodologica e quindi
evitando di definirne il contesto.
Troviamo quindi che:
“Il potere statuale
nazionale non è mai stato un argine al processo di accumulazione del capitale,
se non nelle fasi di rottura rivoluzionaria, ma una sua articolazione. Gli
stati, in competizione tra loro, non hanno che cercato di adattare la propria
struttura sociale, fiscale ed economica alle esigenze delle multinazionali
(vedi, per fare un solo esempio assai chiaro, l’Irlanda)”.
È vero, prima dell’affermazione della democrazia popolare,
nella seconda metà del XX secolo, il potere statuale (tutto e qualsiasi) era
diretta espressione dei ceti possidenti, e quindi esprimeva abbastanza
automaticamente le loro esigenze. Comprensibilmente quindi Marx e Engels, che
erano stati giovani sotto il controllo dei principati autocratici, ed avevano
visto sorgere lo stato Prussiano (ma anche la Francia di Napoleone III), dove
il voto, anche quando c’era, era ristretto al 5-10% della popolazione, o l’aristocratica
Inghilterra, avevano una idea dello Stato ben precisa, e ben corretta per il
loro tempo. Anche la generazione successiva si confronta con Stati autocratici,
ma gradualmente li piega alle esigenze di rappresentazione del contropotere
socialista.
Non si può in pochi righi richiamare la storia del socialismo,
o, tanto meno, i dibattiti entro la rivoluzione d’ottobre, che portano alla
costruzione dello Stato Proletario (con il buono ed il cattivo che la vicenda
storica complessa sovietica ha portato con sé), ma è evidente che, di fronte a
queste differenze di spazio e tempo, dire “il potere statuale nazionale” è
evidentemente un’astrazione astorica. Quel che un marxista non dovrebbe mai
fare.
L’esempio dell’Irlanda, poi, è proprio un caso nel
quale si può dire tutte le vacche sembrano
nere. Quel che accade[8]
nel 2008-9 in Irlanda, quando la Commissione Europea costringe con il ricatto più
brutale il paese a salvare le proprie banche al prezzo di rovinare lo Stato, è
esattamente il caso che dimostra al rovescio che il “potere statuale nazionale”
era su posizioni di difesa del comune e quindi anche popolare, mentre la struttura
sovranazionale, così cara a Bascetta, si è comportata secondo una logica
imperialista (esattamente con una logica coloniale).
Se la logica degli Stati europei è, infatti, di
attrarre capitali, sottraendosene l’uno con l’altro, è perché il dumping
finanziario è iscritto nel codice genetico della mondializzazione imperiale
capitalista, come in esso è iscritto la neutralizzazione della capacità di
autogoverno democratico e costituzionale. Nella mente di Bascetta i termini si
trovano gambe all’aria, paradossalmente secondo la sua logica solo indebolendo
ulteriormente i punti di presidio democratici, ed affidandosi ancora più all’irresponsabile
potere sovranazionale si può, circumnavigando il globo e sbucando dall’altra
parte, giungere alla terra promessa.
“Può darsi che un
potere sovranazionale democratico in grado di imbrigliare gli spiriti animali
del mercato, e semmai anche proteggere dalle derive autoritarie dei governi,
sia una pia illusione. Ma che una singola entità statuale, se non si vuole
ispirare all’Albania di Enver Hoxha, non sia in grado di farlo è una certezza”.
Del resto l’unica dimostrazione che porta è
chiarissima, nella sua logica: oggi non c’è, dunque non ci potrà essere.
“Il tempo presente non
offre esempio alcuno di poteri statali non compromessi con le leggi del mercato
globale o espressione inequivoca di una democrazia impegnata a difendersene
efficacemente”.
Se oggi non ci sono esempi (di poteri “non compromessi”,
e di “espressione inequivoca”), magari al di fuori del caso cinese (certo “compromesso”
ed “equivoco”), è proprio perché questa è
la battaglia. Con l’identica logica, a ben vedere, Pleckanov si oppose alla
rivoluzione di ottobre di Lenin e Trosky: era
presto, le forze non erano pronte, non c’erano esempi.
Di seguito, continuando in uno stile di argomentazione
dogmatico ed aforistico, Bascetta si impegna in una formula al massimo grado di
generalità: “il nazionalismo non è che il
dispositivo che delocalizza le contraddizioni sociali fuori dai confini dello
stato, esattamente come il capitale delocalizza le sue risorse produttive”.
Qui succedono due cose: la ‘sovranità’ (democratica e costituzionale, ovvero l’autodeterminazione)
diventa semplicemente “nazionalismo”, facendo un solo falò su almeno duecento
anni di serrati dibattiti[9]. E,
secondo, viene posto un’eguaglianza tra cose eterogenee, come la logica atopica
e sterritorializzante del capitale fluido del neoliberismo e la logica organica
del nazionalismo. La cosa è così enorme da far scegliere necessariamente tra un’assoluta
insipienza e una totale malafede.
Ma si sa, quando si combatte una crociata ogni mezzo è
buono.
Né diventa più chiara la spiegazione, nella quale,
vertiginosamente, si cambia improvvisamente argomento:
“Entrambi dei confini
hanno bisogno poiché garantiscono quell’asimmetria che è il campo di gioco della
rendita, dei profitti e della speculazione. Perché impediscono ogni via di
fuga, ogni strategia di esodo da quelle gerarchie sociali corrotte che si
presentano come difensori dell’interesse nazionale. Già piovono accuse di alto
tradimento nei confronti dei giovani che migrando cercano di sottrarsi alla
miseria culturale ed economica, oltre che politica, di questo paese”.
C’è un problema: non sono certo “i confini” a determinare
l’asimmetria, ma sono le differenze.
L’iper-liberalismo inconsapevole di Bascetta qui salta fuori come un coniglio
dalla sua buca. Come sostengono gli economisti dello sviluppo neoliberali la
soluzione è rendere tutto piatto, eliminare ogni differenza nella potenza
uniformante della tecnica e della merce. Fare tutto merce, e fare tutto fluido:
senza confini, appunto[10].
Ma nella seconda parte della frase il coniglio salta
in un’altra buca e si rifugia nel discorso sui “migranti”, la casamatta
identitaria per eccellenza.
Insomma, non si può fare nulla; se anche si potesse
provare a limitare la circolazione dei capitali, non lo potranno mai fare coloro
che ne avrebbero interesse (ovvero le sovranità democratiche e costituzionali,
per difendersi). In questa frase che segue ancora il cuore liberale si
manifesta: “Se mai fosse possibile e sufficiente è comunque difficile
immaginare che questa impresa sia alla portata di sovranità nazionali in
competizione tra loro. Assai più probabile è che il confine imprigioni e
reprima ben altre libertà”. La frase
è indicativa della reale ispirazione di questo discorso, perché come scriveva
Milton Friedman, la definizione di liberalismo è semplice: “quella dottrina che mette al centro della
sua speculazione l’uomo libero”[11].
Dunque come si esce dalla trappola liberale[12]? Per
Bascetta con la “moltitudine”, ovvero
per la via anarchica[13]:
“Vi è stato invece un
non breve periodo, tra il 1999 e il 2003, nel quale i movimenti di lotta
tentarono di incalzare i dispositivi di sfruttamento attraverso i confini e
sullo stesso terreno globale dell’accumulazione”.
Insomma, salverebbe il mondo l’effimero movimento dei “no-global”,
che ebbe una breve stagione di mobilitazione, per lo più da salotto, con qualche
episodico scoppio di vitalità urbana[14].
Invece di stare nel campo di gioco, nel fango e sul
ventre, contendendo alla destra le bandiere che ha sottratto, per riprenderle
nelle nostre mani, la proposta è, semplicemente, di inventarsi un altro campo,
che non ebbe mai alcun impatto reale sul mondo, non fu mai davvero di massa,
non interessò alcun popolo.
Un movimento che, spiace dirlo, fu proprio sconfitto
dalla sua sostanziale ed originaria irrilevanza, dal suo carattere identitario
che interessa ormai solo a piccolissimi e distribuiti nuclei di “politicizzati”.
Dal suo “vizio utopistico di fondo”[15].
Insomma, passa il tempo ma siamo sempre allo stesso
rimprovero verso “l’infantilismo di sinistra”.
Cioè siamo a polemiche e rimproveri che non interessano
a nessuno.
[1]
- Ovviamente si trattava di tutt’altro tema.
[2]
- La differenza tra “argomento” e “ragione” può essere letta con gli strumenti
concettuali messi a punto da Jurgen Habermas in “Teoria dell’Agire Comunicativo”, 1982, per “argomentazione”: “il
tipo di discorrere nel quale i partecipanti tematizzano pretese di validità
controverse e tentano di soddisfarle o di criticarle con argomenti. Un
argomento contiene ragioni che sono legate in modo sistematico alla pretesa di
validità di una espressione problematica. La «forza» di un argomento, in
un dato contesto, si commisura alla plausibilità delle ragioni; questa si
manifesta, fra l'altro, se un argomento può convincere i partecipanti ad un discorso,
vale a dire se li può motivare ad accettare le relative pretese di validità”
(p.74). Bisogna notare in questa sede che, per Habermas, il concetto di
“argomento” è di natura pragmatica; in “Fatti e norme” dice, infatti:
“che una ragione sia ‘buona’ lo si vede solo a partire dal ruolo che essa gioca
nell’argomentazione, cioè a partire dal contributo che essa offre – secondo le
regole del gioco argomentativo – per dirimere la questione se una certa pretesa
di validità controversa debba essere accettata oppure respinta”.
[3]
- Abbiamo letto di Samir Amin “Lo
sviluppo ineguale”, 1973; “Oltre
la mondializzazione”, 1999; “Il
virus liberale”, 2004; “Per
un mondo multipolare”, 2006; “La
crisi”, 2009.
[4]
- In “Circa
Monti e l’arrivo dell’effetto Tsipras”, avevo sostenuto che, in sintesi, il
nord-Europa deve restare il cuore industriale e finanziario del
continente, alcune regioni a corona sia all’Est (Polonia, Repubblica Ceca) al
nord (Danimarca, Olanda) all’ovest (parte della Francia) e al sud (pianura
padana), fare da subfornitori e contoterzisti, subalterni nella catena logistica
e finanziaria tedesca, le altre regioni si devono specializzare secondo i loro
‘vantaggi comparati’ in luoghi di svago per i ceti medi superiori europei
(Grecia, sud della Spagna, sud Italia), piccole isole defiscalizzate per le
gradi imprese multinazionali (Irlanda, Lussemburgo), o fornitori alimentari
(sud Italia, sud Spagna) fruendo del lavoro schiavistico importato dal nord
Africa e dal resto del mondo. Ovviamente i paesi periferici si devono ancora
acconciare a fornire manodopera istruita e disponibile per comprimere il costo
del lavoro al centro, garantendo la permanenza del suo vantaggio competitivo
che crea la struttura gerarchica dei ‘vantaggi comparati’ di cui sopra.
[5]
- Come abbiamo visto in “Circa
Marco Bascetta, ‘una formula di moda’”, la ‘frase rivoluzionaria’ è, per Lenin,
la ripetizione di parole d’ordine senza tenere conto delle circostanze obiettive.
[6]
- Vladimir I. Lenin, “Rivoluzione in
occidente e infantilismo di sinistra”, ed. Riuniti, 1974, si è solo dei ‘chiacchieroni’,
o dei bambini che credono alle favole, e superare solo nel pensiero, nei
desideri, le difficoltà che la storia ha fatto sorgere.
[7]
- Mi riferisco alla distinzione avanzata in molti testi da Jean-Claude Michéa. Si
veda “I
misteri della sinistra”.
[8] - Si veda ad esempio: “Fintan
O’Toole, la ripresa dell’Irlanda”
[9] - Per fare un solo
esempio si può vedere il libro di Otto Bauer, “La questione nazionale”, del 1907, o Karl Kautsky, “La nazionalità moderna”, in Renato
Monteleone (a cura di), “Marxismo,
internazionalismo e questione nazionale”, Loescher, 1982.
[10]
- Si potrebbero citare infiniti autori, può bastare William Easterly (ad esempio
“La
tirannia degli esperti”) e Thomas L. Friedman (ad esempio, “Caldo, piatto e affollato”).
[11]
- Milton Friedman, “Capitalismo e libertà”,
introduzione, p.40.
[12]
- Si veda, ad esempio, Jean-Claude Michéa “L’impero
del male minore”.
[13]
- Che, lo ricordo, per Lenin, come per Gramsci, era una forma di liberalesimo
radicalizzato, cfr. ad esempio, Antonio Gramsci, “Lo
stato e il socialismo”, L’ordine Nuovo 1919.
[14] - Con belle e colorate,
talvolta violente ma a margine, manifestazioni alle quali ho anche partecipato.
[15] - Conclude Bascetta: “Quel movimento fu sconfitto, non tanto da un qualche
vizio utopistico di fondo o dalle sue molte debolezze, quanto da una
impressionante sequenza di violenza e di terrore, che permise ai governi nazionali
di servirsi delle politiche di emergenza per ridurre ulteriormente gli spazi di
democrazia e aumentare le proprie prerogative di comando e di controllo.
Non si
dovrebbe dimenticare che non appena si presentava un momento sovranazionale di conflitto,
a partire da Genova 2001, i governi europei si scalmanavano nel reclamare la
sospensione di Schengen, praticandola di fatto.
Quel
movimento, che non fu una «grande potenza», come incautamente fu sostenuto
all’epoca, ma una prospettiva politica che faceva i conti con la realtà della
globalizzazione, è almeno qualcosa che abbiamo visto, a differenza di quelle
«sovranità nazionali» riconquistate dal basso e dedite alla difesa dei più
deboli di cui non si è vista la minima traccia.
Nel deserto
che stiamo attraversando converrebbe ispirarsi a qualcosa che è stato piuttosto
che a un feticcio dottrinario.”
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