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lunedì 17 dicembre 2018

Circa Marco Bascetta, “Il discorso sulla sovranità nazionale è congeniale alla destra”




Dopo aver letto e commentato l’articolo di Ernesto Longobardi che attacca le politiche di spesa ed espansione del welfare, ed averne inseguito le fonti commentando l’articolo di Luciana Castellina da lui portato a sostegno, “Lo tsunami di un sovranismo che ci divide”, vale la pena leggere anche l’articolo (egualmente portato da Longobardi a dimostrazione della cattiveria del ‘sovranismo’), di Marco Bascetta “Il discorso sulla sovranità è congeniale alla destra”.
Un mio vecchio professore di pianificazione, Pierluigi Crosta, disse una volta che se offerto di un buon pranzo avrebbe potuto argomentare a lungo in favore di una tesi verso la quale in ultima analisi era contrario[1] (ad esempio ‘che il discorso sulla sovranità sia congeniale alla destra’).

Siamo in questo caso: anche io potrei sostenere che il discorso sulla sovranità è congeniale alla destra, ma non con gli argomenti di Bascetta, e non per le sue ragioni[2]. Peraltro la vera domanda da farsi sarebbe se questo discorso è appropriato alla fase, non se sia congeniale a questo o quello; chi non ha timori o complessi circa la propria identità non si preoccupa se una cosa giusta sia congeniale anche ad altri.

Abbiamo già visto in “Una formula per edulcorare il nazionalismo” che Marco Bascetta è davvero impegnato in una crociata che, però, nei suoi termini è profondamente anti-storica e non può che produrre l’espulsione della sinistra che gli è cara da ogni possibilità di tornare rilevante politicamente. Ciò perché la fase storica pone al centro la rimodulazione della globalizzazione, la quale ha ormai mostrato interamente la sua vera faccia di dominio imperialista. Per essere più precisi, e seguendo in questo l’analisi di Samir Amin[3], il dominio imperialista di un ‘centro’ composto da USA, Europa e Giappone e sfidato da due centri competitivi (Russia e Cina), cui si dispongono corone di ‘periferie’ più o meno subalterne. Entro quella che Amin chiama “la Triade”, però, ci sono ‘centri’ e ‘periferie’ interne, e un dominus (gli USA). A sua volta nella dinamica europea, frattale della dinamica mondiale, la diarchia del centro tra Francia e Germania (con l’Inghilterra terzo incomodo), si sta polarizzando irresistibilmente dal momento della ristrutturazione capitalistica del 2008 e seg, intorno alla sola Germania. Entro i diversi paesi tra un ‘centro’ composto dalla grande industria con proiezione internazionale, e la grande finanza, e ‘periferie’ composte da centri subalterni e/o aree di margine. Noi viviamo in un centro subalterno (il nord) ed un margine (il sud)[4].
Se questa è la ‘realtà oggettiva’ che le dinamiche polarizzanti e gerarchizzanti del capitalismo, allo stato della sua tecnica, inducono in essere, allora ciò che è appropriato alla fase è relazionarsi ad essa. Attardarsi nella declamazione di ‘frasi rivoluzionarie’[5], perché si ha paura di analizzare la realtà oggettiva, non si vuole adattarsi, non si è disposti anche a “strisciare sul ventre, nel fango”[6], significa farsi eliminare dalla storia. Come, in effetti, sta accadendo.

Questa è la ragione per la quale, in ultima analisi, sono contrario a ritenere che il discorso sulla sovranità sia congeniale solo alla destra. La missione che abbiamo davanti è di dimostrare che anche una prospettiva socialista, ovvero non di sinistra[7], la sovranità è rilevante. Precisamente che bisogna riaffermare e difendere, in tutte le sedi, la capacità di autodeterminarsi secondo l’estensione della democrazia e dell’autogoverno, sottraendo alla destra populista la bandiera della difesa popolare davanti all’offensiva del neoliberismo imperiale. Sottraendogliela, precisamente, perché questa bandiera è nostra, la destra populista ne fa solo un uso strumentale.



Del resto, venendo ad un commento più attento, anche Bascetta parla di “guardare la realtà che ci sta di fronte”, ma di questa vede solo lo strato delle retoriche. Anche lui fa uso delle analogie storiche, partendo da una altamente imprecisa e tendenziosa (che, tuttavia, riconosce onestamente per tale).

“I socialisti che votarono i crediti di guerra a favore della macelleria che devastò l’Europa tra il 1914 e il 1918 erano di «sinistra» e buoni patrioti. Il successo della rivoluzione d’ottobre fu invece la conseguenza di una scelta decisamente antipatriottica. Rievocare tutto questo nella polemica contemporanea tra «sovranismo» ed europeismo è senz’altro una mossa tendenziosa, anche se non così spudoratamente impropria come il richiamarsi al «patriottismo» di Machiavelli o di Rousseau”.

Al netto di dichiarare la rivoluzione d’ottobre “antipatriottica”, contro la parola di quasi tutti i suoi esponenti (magari non di Trotsky, dovrei compulsare i testi), indubbiamente rievocare testi e discorsi fuori contesto è una cattiva pratica, come dice egli stesso “ogni cosa deve essere ragionevolmente riferita al suo contesto”, ed oggi sicuramente “è un altro mondo”. Precisamente è il mondo sommariamente descritto all’avvio del post.

Ma il mondo che costituisce la nostra realtà non è letterariamente, o politicamente, quello di semplici discorsi, eventualmente egemonizzati da questo o quello, ma quello dei rapporti sociali determinati dalla meccanica dei poteri dai quali scaturiscono priorità, bisogni ed urgenze obiettivi. Si, dunque, “il discorso della sovranità nazionale è [oggi] totalmente egemonizzato dalla destra”, è vero.
Ma resta un semplice fatto: il terreno della sovranità nazionale, democratica e costituzionale, ovvero della autodeterminazione popolare, è il terreno sul quale si gioca oggi la partita cruciale. La partita tra le élite tecnocratiche e le capacità di movimento e sfruttamento del capitale, e il bisogno e desiderio di autoespressione e di protezione che viene dalle periferie rese subalterne.

Questo è un semplice fatto. È semplicemente la realtà.

Se anche dunque fosse vero, ed io non lo credo, che si tratta “del discorso che le è più proprio” (alla destra), stare fuori di questo terreno significa inevitabilmente ritrarsi nei quartieri borghesi, al sicuro, e ripetere sistematicamente gli stanchi riti di una sinistra che da decenni ha pensato solo alla propria identità, dimenticando tutto e tutti.
Ove fosse “impresa vana” stare su questo terreno vorrebbe semplicemente dire che per la sinistra non c’è più spazio nel mondo. Ma ancora, che oggettivamente è bene non ci sia, perché il residuo che materialmente è presente al massimo si colloca da qualche parte tra una “società di carità” e un “club letterario”.


Bascetta è uno dotato di una certa capacità e di indubbia cultura, quindi riecheggia, astutamente, una notevole serie di cliché abilmente tratti dalla tradizione marxista e collocati tra il medio XIX secolo e l’avvio del XX (come direbbe, “un’altra storia, un altro mondo”) questa volta evitando di ascoltare la sua stessa giusta prescrizione metodologica e quindi evitando di definirne il contesto.

Troviamo quindi che:

“Il potere statuale nazionale non è mai stato un argine al processo di accumulazione del capitale, se non nelle fasi di rottura rivoluzionaria, ma una sua articolazione. Gli stati, in competizione tra loro, non hanno che cercato di adattare la propria struttura sociale, fiscale ed economica alle esigenze delle multinazionali (vedi, per fare un solo esempio assai chiaro, l’Irlanda)”.

È vero, prima dell’affermazione della democrazia popolare, nella seconda metà del XX secolo, il potere statuale (tutto e qualsiasi) era diretta espressione dei ceti possidenti, e quindi esprimeva abbastanza automaticamente le loro esigenze. Comprensibilmente quindi Marx e Engels, che erano stati giovani sotto il controllo dei principati autocratici, ed avevano visto sorgere lo stato Prussiano (ma anche la Francia di Napoleone III), dove il voto, anche quando c’era, era ristretto al 5-10% della popolazione, o l’aristocratica Inghilterra, avevano una idea dello Stato ben precisa, e ben corretta per il loro tempo. Anche la generazione successiva si confronta con Stati autocratici, ma gradualmente li piega alle esigenze di rappresentazione del contropotere socialista.
Non si può in pochi righi richiamare la storia del socialismo, o, tanto meno, i dibattiti entro la rivoluzione d’ottobre, che portano alla costruzione dello Stato Proletario (con il buono ed il cattivo che la vicenda storica complessa sovietica ha portato con sé), ma è evidente che, di fronte a queste differenze di spazio e tempo, dire “il potere statuale nazionale” è evidentemente un’astrazione astorica. Quel che un marxista non dovrebbe mai fare.

L’esempio dell’Irlanda, poi, è proprio un caso nel quale si può dire tutte le vacche sembrano nere. Quel che accade[8] nel 2008-9 in Irlanda, quando la Commissione Europea costringe con il ricatto più brutale il paese a salvare le proprie banche al prezzo di rovinare lo Stato, è esattamente il caso che dimostra al rovescio che il “potere statuale nazionale” era su posizioni di difesa del comune e quindi anche popolare, mentre la struttura sovranazionale, così cara a Bascetta, si è comportata secondo una logica imperialista (esattamente con una logica coloniale).

Se la logica degli Stati europei è, infatti, di attrarre capitali, sottraendosene l’uno con l’altro, è perché il dumping finanziario è iscritto nel codice genetico della mondializzazione imperiale capitalista, come in esso è iscritto la neutralizzazione della capacità di autogoverno democratico e costituzionale. Nella mente di Bascetta i termini si trovano gambe all’aria, paradossalmente secondo la sua logica solo indebolendo ulteriormente i punti di presidio democratici, ed affidandosi ancora più all’irresponsabile potere sovranazionale si può, circumnavigando il globo e sbucando dall’altra parte, giungere alla terra promessa.

“Può darsi che un potere sovranazionale democratico in grado di imbrigliare gli spiriti animali del mercato, e semmai anche proteggere dalle derive autoritarie dei governi, sia una pia illusione. Ma che una singola entità statuale, se non si vuole ispirare all’Albania di Enver Hoxha, non sia in grado di farlo è una certezza”.

Del resto l’unica dimostrazione che porta è chiarissima, nella sua logica: oggi non c’è, dunque non ci potrà essere.

“Il tempo presente non offre esempio alcuno di poteri statali non compromessi con le leggi del mercato globale o espressione inequivoca di una democrazia impegnata a difendersene efficacemente”.

Se oggi non ci sono esempi (di poteri “non compromessi”, e di “espressione inequivoca”), magari al di fuori del caso cinese (certo “compromesso” ed “equivoco”), è proprio perché questa è la battaglia. Con l’identica logica, a ben vedere, Pleckanov si oppose alla rivoluzione di ottobre di Lenin e Trosky: era presto, le forze non erano pronte, non c’erano esempi.

Di seguito, continuando in uno stile di argomentazione dogmatico ed aforistico, Bascetta si impegna in una formula al massimo grado di generalità: “il nazionalismo non è che il dispositivo che delocalizza le contraddizioni sociali fuori dai confini dello stato, esattamente come il capitale delocalizza le sue risorse produttive”. Qui succedono due cose: la ‘sovranità’ (democratica e costituzionale, ovvero l’autodeterminazione) diventa semplicemente “nazionalismo”, facendo un solo falò su almeno duecento anni di serrati dibattiti[9]. E, secondo, viene posto un’eguaglianza tra cose eterogenee, come la logica atopica e sterritorializzante del capitale fluido del neoliberismo e la logica organica del nazionalismo. La cosa è così enorme da far scegliere necessariamente tra un’assoluta insipienza e una totale malafede.
Ma si sa, quando si combatte una crociata ogni mezzo è buono.

Né diventa più chiara la spiegazione, nella quale, vertiginosamente, si cambia improvvisamente argomento:

“Entrambi dei confini hanno bisogno poiché garantiscono quell’asimmetria che è il campo di gioco della rendita, dei profitti e della speculazione. Perché impediscono ogni via di fuga, ogni strategia di esodo da quelle gerarchie sociali corrotte che si presentano come difensori dell’interesse nazionale. Già piovono accuse di alto tradimento nei confronti dei giovani che migrando cercano di sottrarsi alla miseria culturale ed economica, oltre che politica, di questo paese”.

C’è un problema: non sono certo “i confini” a determinare l’asimmetria, ma sono le differenze. L’iper-liberalismo inconsapevole di Bascetta qui salta fuori come un coniglio dalla sua buca. Come sostengono gli economisti dello sviluppo neoliberali la soluzione è rendere tutto piatto, eliminare ogni differenza nella potenza uniformante della tecnica e della merce. Fare tutto merce, e fare tutto fluido: senza confini, appunto[10].
Ma nella seconda parte della frase il coniglio salta in un’altra buca e si rifugia nel discorso sui “migranti”, la casamatta identitaria per eccellenza.

Insomma, non si può fare nulla; se anche si potesse provare a limitare la circolazione dei capitali, non lo potranno mai fare coloro che ne avrebbero interesse (ovvero le sovranità democratiche e costituzionali, per difendersi). In questa frase che segue ancora il cuore liberale si manifesta: “Se mai fosse possibile e sufficiente è comunque difficile immaginare che questa impresa sia alla portata di sovranità nazionali in competizione tra loro. Assai più probabile è che il confine imprigioni e reprima ben altre libertà”. La frase è indicativa della reale ispirazione di questo discorso, perché come scriveva Milton Friedman, la definizione di liberalismo è semplice: “quella dottrina che mette al centro della sua speculazione l’uomo libero[11].


Dunque come si esce dalla trappola liberale[12]? Per Bascetta con la “moltitudine”, ovvero per la via anarchica[13]:

“Vi è stato invece un non breve periodo, tra il 1999 e il 2003, nel quale i movimenti di lotta tentarono di incalzare i dispositivi di sfruttamento attraverso i confini e sullo stesso terreno globale dell’accumulazione”.

Insomma, salverebbe il mondo l’effimero movimento dei “no-global”, che ebbe una breve stagione di mobilitazione, per lo più da salotto, con qualche episodico scoppio di vitalità urbana[14].

Invece di stare nel campo di gioco, nel fango e sul ventre, contendendo alla destra le bandiere che ha sottratto, per riprenderle nelle nostre mani, la proposta è, semplicemente, di inventarsi un altro campo, che non ebbe mai alcun impatto reale sul mondo, non fu mai davvero di massa, non interessò alcun popolo.

Un movimento che, spiace dirlo, fu proprio sconfitto dalla sua sostanziale ed originaria irrilevanza, dal suo carattere identitario che interessa ormai solo a piccolissimi e distribuiti nuclei di “politicizzati”. Dal suo “vizio utopistico di fondo”[15].


Insomma, passa il tempo ma siamo sempre allo stesso rimprovero verso “l’infantilismo di sinistra”.

Cioè siamo a polemiche e rimproveri che non interessano a nessuno.



[1] - Ovviamente si trattava di tutt’altro tema.
[2] - La differenza tra “argomento” e “ragione” può essere letta con gli strumenti concettuali messi a punto da Jurgen Habermas in “Teoria dell’Agire Comunicativo”, 1982, per “argomentazione”: “il tipo di discorrere nel quale i partecipanti tematizzano pretese di validità controverse e tentano di soddisfarle o di criticarle con argomenti.  Un argomento contiene ragioni che sono legate in modo sistematico alla pretesa di validità di una espressione problematica.  La «forza» di un argomento, in un dato contesto, si commisura alla plausibilità delle ragioni; questa si manifesta, fra l'altro, se un argomento può convincere i partecipanti ad un discorso, vale a dire se li può motivare ad accettare le relative pretese di validità” (p.74).  Bisogna notare in questa sede che, per Habermas, il concetto di “argomento” è di natura pragmatica; in “Fatti e norme” dice, infatti: “che una ragione sia ‘buona’ lo si vede solo a partire dal ruolo che essa gioca nell’argomentazione, cioè a partire dal contributo che essa offre – secondo le regole del gioco argomentativo – per dirimere la questione se una certa pretesa di validità controversa debba essere accettata oppure respinta”.
[3] - Abbiamo letto di Samir Amin  Lo sviluppo ineguale”, 1973; “Oltre la mondializzazione”, 1999; “Il virus liberale”, 2004; “Per un mondo multipolare”, 2006; “La crisi”, 2009.
[4] - In “Circa Monti e l’arrivo dell’effetto Tsipras”, avevo sostenuto che, in sintesi, il nord-Europa deve restare il cuore  industriale e finanziario del continente, alcune regioni a corona sia all’Est (Polonia, Repubblica Ceca) al nord (Danimarca, Olanda) all’ovest (parte della Francia) e al sud (pianura padana), fare da subfornitori e contoterzisti, subalterni nella catena logistica e finanziaria tedesca, le altre regioni si devono specializzare secondo i loro ‘vantaggi comparati’ in luoghi di svago per i ceti medi superiori europei (Grecia, sud della Spagna, sud Italia), piccole isole defiscalizzate per le gradi imprese multinazionali (Irlanda, Lussemburgo), o fornitori alimentari (sud Italia, sud Spagna) fruendo del lavoro schiavistico importato dal nord Africa e dal resto del mondo. Ovviamente i paesi periferici si devono ancora acconciare a fornire manodopera istruita e disponibile per comprimere il costo del lavoro al centro, garantendo la permanenza del suo vantaggio competitivo che crea la struttura gerarchica dei ‘vantaggi comparati’ di cui sopra.
[5] - Come abbiamo visto in “Circa Marco Bascetta, ‘una formula di moda’”, la ‘frase rivoluzionaria’ è, per Lenin, la ripetizione di parole d’ordine senza tenere conto delle circostanze obiettive.
[6] - Vladimir I. Lenin, “Rivoluzione in occidente e infantilismo di sinistra”, ed. Riuniti, 1974, si è solo dei ‘chiacchieroni’, o dei bambini che credono alle favole, e superare solo nel pensiero, nei desideri, le difficoltà che la storia ha fatto sorgere.
[7] - Mi riferisco alla distinzione avanzata in molti testi da Jean-Claude Michéa. Si veda “I misteri della sinistra”.
[9] - Per fare un solo esempio si può vedere il libro di Otto Bauer, “La questione nazionale”, del 1907, o Karl Kautsky, “La nazionalità moderna”, in Renato Monteleone (a cura di), “Marxismo, internazionalismo e questione nazionale”, Loescher, 1982.
[10] - Si potrebbero citare infiniti autori, può bastare William Easterly (ad esempio “La tirannia degli esperti”) e Thomas L. Friedman (ad esempio, “Caldo, piatto e affollato”).
[11] - Milton Friedman, “Capitalismo e libertà”, introduzione, p.40.
[12] - Si veda, ad esempio, Jean-Claude Michéa “L’impero del male minore”.
[13] - Che, lo ricordo, per Lenin, come per Gramsci, era una forma di liberalesimo radicalizzato, cfr. ad esempio, Antonio Gramsci, “Lo stato e il socialismo”, L’ordine Nuovo 1919.
[14] - Con belle e colorate, talvolta violente ma a margine, manifestazioni alle quali ho anche partecipato.
[15] - Conclude Bascetta: “Quel movimento fu sconfitto, non tanto da un qualche vizio utopistico di fondo o dalle sue molte debolezze, quanto da una impressionante sequenza di violenza e di terrore, che permise ai governi nazionali di servirsi delle politiche di emergenza per ridurre ulteriormente gli spazi di democrazia e aumentare le proprie prerogative di comando e di controllo.
Non si dovrebbe dimenticare che non appena si presentava un momento sovranazionale di conflitto, a partire da Genova 2001, i governi europei si scalmanavano nel reclamare la sospensione di Schengen, praticandola di fatto.
Quel movimento, che non fu una «grande potenza», come incautamente fu sostenuto all’epoca, ma una prospettiva politica che faceva i conti con la realtà della globalizzazione, è almeno qualcosa che abbiamo visto, a differenza di quelle «sovranità nazionali» riconquistate dal basso e dedite alla difesa dei più deboli di cui non si è vista la minima traccia.
Nel deserto che stiamo attraversando converrebbe ispirarsi a qualcosa che è stato piuttosto che a un feticcio dottrinario.”

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