Pagine

domenica 6 gennaio 2019

Kiran Klaus Patel, “Il New Deal. Una storia globale”



Il libro di Kiran Patel tenta un’ampia ricostruzione del periodo storico che ha fatto seguito alla lunga “Grande Depressione” la quale, in modo, differenziato ha interessato buona parte del mondo negli anni trenta del novecento, e che ha determinato risposte con una certa ‘aria di famiglia’. Come recita il sottotitolo il “New Deal” non è stato solo un insieme di politiche americane, anche se lo slogan è stato coniato da Roosevelt, ma parte di un assetto politico diversamente declinato in paesi diversi e che variamente si prolunga nel tempo. Secondo alcuni fino a Reagan (per altri fino a Johnson).

Strettamente parlando il “New Deal” rooseveltiano fu una specifica variante della configurazione che prese la reazione alla crisi nella storia globale. Alcuni caratteri generali della configurazione sono stati: la tendenza alla introversione; il nazionalismo economico e la costruzione dello Stato Sociale; l’emergere di forme carismatiche di leadership. Questi caratteri, comuni ad ogni pacchetto di soluzioni, dall’Italia fascista alla Germania nazista, alla Unione Sovietica di Stalin, alla Francia o la Gran Bretagna, si manifestarono nel contesto di un deciso rallentamento della globalizzazione, e della rottura degli accordi monetari pregressi.
Contrariamente alla percezione comune, l’insieme di politiche che porta questo nome furono peraltro ben lontane dall’essere progettate e coerenti: privilegiarono sempre valutazioni e reazioni a breve termine, orientate a dare risposta a pressanti bisogni interni, oscillarono, secondo i momenti e le coalizioni politiche di sostegno, tra il vecchio laissez-faire[1] e forme, per quanto confuse, di ‘interventismo’[2].
Ma questa reazione alle esigenze del momento, consolidatosi in assetti di potere e circuiti amministrativi e produttivi durante la II Guerra Mondiale[3], diventò di fatto la base sulla quale gli Stati Uniti affermarono la loro leadership mondiale.



Un altro aspetto: il “New Deal” è strettamente connesso con alcune condizioni abilitanti. Tra queste spicca la ‘politica migratoria’ che Roosevelt trova pronta insediandosi e che lascia intatta, anche in relazione ad un clima generale ad essa favorevole che non sfida: una decisa chiusura ai flussi migratori esterni.

Le radici della fase di attivismo introverso che caratterizza il “New Deal” sono dunque da rintracciare negli imponenti squilibri del boom precedente, e nelle profonde trasformazioni che il sistema economico e sociale avevano attraversato durante i ‘ruggenti’ anni venti. Restando sugli Stati Uniti, gli anni venti li avevano visti ascendere al rango di nazione moderna per eccellenza, e avevano prodotto una crescita imponente; ad esempio in due irripetibili anni, tra il 1921 ed il 1923 la produzione industriale era esplosa di un +63%, in otto anni, fino al 1929 il Pil cresciuto del 50%, la motorizzazione procedeva spedita, grazie al successo di auto come il modello T della Ford, o alla diffusione di trattori ed autocarri, ma anche autobus. Poi radio, frigoriferi, aspirapolvere e ferri da stiro elettrici, presenti nel 60% delle case americane alla vigilia della crisi.
Inoltre si diffonde anche, in quegli anni, il prestito a rate, in un contesto di aumento dei salari e di diminuzione dell’orario di lavoro che determina l’esplosione del turismo, e l’affermazione sia di Hollywood, sia del grande sport professionistico.




Ma negli stessi anni anche il commercio internazionale continua a crescere, gli Stati Uniti sviluppano quindi un’enorme eccedenza commerciale, soprattutto verso l’Europa, che rispetto al periodo prebellico si moltiplica per sette e si affermano marchi globali come la Gilette, Ford, Hoover. Questo squilibrio commerciale determina, come inevitabile e come avviene anche oggi, una pronunciata finanziarizzazione e l’accumulo di riserve e debiti. Le eccedenze commerciali alimentavano infatti la crescita sia di riserve monetarie, sia di investimenti e prestiti esteri su larga scala. In particolare, i flussi di prestiti Usa supereranno sempre di oltre cinque volte quelli della Gran Bretagna, ad indicare una transizione egemonica tra i due, e per lo più saranno diretti verso l’Europa. Peraltro gli imprenditori americani, come Ford, non disdegnarono di fare affari con Stalin, o la GM con il Giappone con il governo che lascia fare.

Una contraddizione è che, malgrado questa pronunciata interconnessione, gli Stati Uniti non parteciperanno, durante gli anni venti, alle organizzazioni internazionali e non aderiranno alla Società delle Nazioni[4], nessun tentativo serio sarà fatto per gestire gli squilibri, coerentemente con lo spirito del tempo.

L’influenza americana si estese anche ai modelli culturali, estetici, ed a stili di governo dell’economia, come il taylorismo ed il fordismo.

È in questo contesto che, sulla base di un montante sentimento di rischio e come probabile effetto delle enormi diseguaglianze che stavano crescendo nel paese, il “Quota Act” del 1921, ed il successivo “Immigration Act” del 1924, frenano drasticamente l’immigrazione e determinano il crollo dei flussi migratori in ingresso dall’Europa ed altrove, dai 360.000 all’anno del 1923-24 ai 165.000 del 1924-25. Sulla base di un vasto consenso politico, che dura a lungo, si determinò in tal modo l’introduzione di un rigido sistema di quote che rimase in vigore in pratica fino a che durò il “New Deal” (pur essendo, appunto, precedente), ovvero fino agli anni sessanta inoltrati. Le motivazioni di questi dispositivi erano, secondo l’autore, duplici: pesava l’anticomunismo[5] e anche un indubbio retroterra razzista, in particolare diretto all’est ed al sud Europa. Bisogna notare che, cito: “anche i lavoratori erano favorevoli ad un controllo dell’immigrazione: dal loro punto di vista ciò avrebbe contribuito a difendere gli interessi della forza lavoro già presente nel paese” (p.27). Peraltro, come spesso accade, anche gli ex immigrati erano favorevoli a chiudere i cancelli attraverso i quali erano passati, ad esempio era favorevole il fondatore e presidente del sindacato americano (AFL), Samuel Gompers, ebreo immigrato. È evidente che alle due ragioni addotte da Patel va aggiunta un’altra: l’erosione insopportabile, in particolare in un’epoca di esibita opulenza delle élite, delle condizioni di vita e lavoro delle frazioni popolari esposte alla concorrenza costante dei nuovi flussi migratori[6].
Il filtro non fu comunque totale, la frontiera messicana restò a lungo permeabile, ma solo per i locali, e ciò portò ad un doppio movimento migratorio: gli afroamericani dal sud si spostarono al nord, a prendere i posti che altrimenti erano occupati sistematicamente dai flussi dall’Europa, e il vuoto fu riempito da nuovi immigrati messicani. In questo modo l’agricoltura e l’economia del sud potè conservare i margini di profittabilità, in una fase nella quale faticava ad essere pienamente coinvolta dall’espansione generale[7], ed al contempo l’industria del nord in grande espansione usò i bacini interni di forza lavoro sottoutilizzata, ma politicamente più malleabile e più controllabile[8], per evitare di dover pagare troppo il lavoro e perdere il controllo. Un equilibrio instabile e temporaneo, che infatti negli anni trenta, man mano che venivano implementate le politiche interventiste (e l’economia si riprendeva) di Roosevelt si rivoltò, contro il suo desiderio, in una maggiore conflittualità.

Allargando lo sguardo questa tendenza restrittiva, pur nell’ambivalenza funzionale, si trovò anche altrove: leggi simili si riscontrano in Islanda, Norvegia, Russia, Australia, sudamerica (dove il razzismo era normalmente inferiore). In effetti, gradualmente tutti cominciarono a considerare l’omogeneità culturale come un requisito necessario; insomma, l’internazionalismo degli anni venti non aveva una colorazione cosmopolita.

Si arriva così al ‘giovedì nero’ della borsa di New York. Tredici milioni di azioni sono vendute (il quadruplo di una normale giornata). Ma tra ottobre 1929 e aprile 1930 una parte delle perdite viene recuperata e nell’estate si parla già di ripresa. Dall’altra parte dell’Atlantico ci furono poche reazioni, la cosa sembrava limitata agli Usa e neppure così grave. Insomma, il crollo di borsa non fu il fattore scatenante, e neppure la principale causa, fu molto più un sintomo. Il sintomo di profonde contraddizioni economiche che si erano nel tempo accumulate dentro la fase di globalizzazione non gestita (come quella odierna).

Molte di queste contraddizioni risalgono al modo in cui si chiuse la prima Guerra Mondiale, in particolare agli enormi debiti e riparazioni di guerra. Gran Bretagna e Francia erano enormemente indebitate nei confronti degli Stati Uniti, ma anche i debiti interni, Francia verso Gran Bretagna e Russia, Italia, Serbia e domini britannici erano enormemente indebitati. Era in piedi una rete di debiti e crediti che pesava come un macigno sull’economia del mondo, con gli Stati Uniti nel non necessariamente piacevole ruolo di creditore globale. Poi c’è da considerare l’impatto devastante del Trattato di Versailles, con riparazioni indeterminate che spianarono la strada al nazismo. Negli anni venti la Repubblica di Weimar, che era inoltre in deficit commerciale, accumulò in questo modo il ruolo di maggior debitore mondiale. La trappola era senza uscita perché i crediti verso Gran Bretagna e Francia non si mettevano in connessione con i debiti di guerra tedeschi (perché gli USA non avevano sottoscritto il protocollo e non lo riconoscevano), e il tutto, pur nominale, contribuiva a tenere in equilibrio i bilanci.

Quando però, nel 1928, alcuni segni della congiuntura imposero agli Stati Uniti una politica monetaria più restrittiva il castello iniziò ad andare a gambe all’aria. La riduzione dei flussi di prestito estero determinò effetti domino in Europa a causa dei vincoli dei debiti. Fu una esplosione globale: la Francia dovette dichiarare insolvenza nel 1932, di seguito Belgio, Grecia, Ungheria e Polonia. Nel 1934 diventò insolvente la Gran Bretagna, mentre in sudamerica il 30% delle esportazioni pagavano ormai solo gli interessi sul debito (non più rinnovati da altri prestiti americani).
Purtroppo giunti a quel punto non erano disponibili facili vie di uscita: se gli Stati Uniti avessero rinunciato ai crediti sarebbe stato un suicidio, politico ed economico, ma se li avessero tenuti in vita senza rinnovare i prestiti stringevano in cappio il mondo intero, rinnovare indefinitivamente i prestiti, amplificandoli, comportava un constante deflusso di capitale che alla fine non era sostenibile nella dimensione necessaria. Questa è la conseguenza, in ultima analisi, di una situazione di profondo squilibrio commerciale, esasperata dalle spese di guerra.

Insomma, si tratta del lascito della globalizzazione degli anni tra il 1870 ed il 1920.

Ma questa questione è connessa ad un’altra: il sistema aureo. Un sistema che dal 1870 aveva garantito la stabilità monetaria era crollato sotto i colpi della guerra (quando le spese si erano fatte impellenti e letteralmente questione di vita e morte e non potevano più essere limitate dalle riserve). Dopo il 1918 si moltiplicarono quindi i tentativi di ripristinarlo, ma la posizione rivestita dalla Banca d’Inghilterra prima della guerra non era più disponibile. Il tentativo di ripristinarlo, sul finire degli anni venti, fu in particolare ostacolato dal comportamento della Fed, che non lasciava defluire l’oro e lo tesaurizzava, ma similmente si comportava la Banca di Francia. Alla fine degli anni venti gli Stati Uniti avevano ormai tesaurizzato il 40% dell’oro mondiale e questo squilibrio si aggiungeva agli altri.
In queste condizioni il “misticismo dell’oro” fece sì che quando i flussi di credito si ridussero gli stati in difficoltà fecero ricorso alle scarse riserve auree e per richiamarle ridussero drasticamente la spesa interna[9].

Nel 1932 tutto questo si scarica in una drammatica crisi bancaria europea, che parte dall’Austria e si propaga in Ungheria, Cecoslovacchia, Romania, Polonia ed infine arriva in Germania[10]. A settembre la crisi porta fuori del sistema aureo la Gran Bretagna e poi arriva in America, dove i risparmiatori corrono a ritirare i risparmi. La FED reagisce nell’immediato alzando i tassi di interesse, probabilmente per ridurre il deflusso di oro e capitali, ma così facendo crea una drastica riduzione della massa monetaria e una crisi industriale.

La terza dimensione della grande crisi è la sofferenza del mondo agricolo, all’epoca molto importante. le distruzioni della guerra in Europa provocarono un calo della produttività agricola che indusse molto paesi ad organizzarsi come fornitori. In Canada raddoppiò la superficie dedicata a grano, e anche negli Stati Uniti aumentò di molto. Inoltre furono introdotte le innovazioni tecnologiche della ‘rivoluzione verde’[11]. Ma tutto questo fece crescere enormemente il debito agricolo (che triplicò negli Usa), e quando la produzione agricola in Europa si riprese lasciò un’enorme sovrapproduzione e quindi pressione al ribasso sui prezzi. Seguirono pignoramenti, fallimenti, che si diffusero in tutto il mondo in un effetto domino. L’incastro tra finanza, mercati agricoli e materie prime, in condizioni di mancanza di liquidità e di fiducia, nel crollo del sistema aureo e della piramide dei debiti, fece saltare completamente il sistema.

È di queste tensioni che è sintomo il crollo del ’29.

Ma gli Usa reagirono a questa catena di eventi e squilibri, in parte creati dalla crescita impetuosa e disordinata di cui erano stati protagonisti, attribuendone le cause all’esterno[12] e restringendo quindi ulteriormente i flussi di prestiti esteri. Lo Smoot-Hawley Act del 1930 portò a livelli record i dazi doganali e limitò il commercio, sulla base di una irresistibile pressione che venne dal Nord-Est industrializzato. Malgrado le resistenze, ed i tentativi successivi di introdurre negoziati internazionali[13], l’istanza di “proteggere la nostra gente” era ormai divenuta centrale. Gli impatti diretti sugli Stati Uniti furono marginali, ma quelli negativi in Canada, Cuba, Spagna, si sentirono ed indussero a dazi di rappresaglia.
Progressivamente il mondo si segmentò in blocchi commerciali e monetari, reciprocamente concorrenti. Tutto accadde molto velocemente, nell’arco di soli tre anni. Il commercio internazionale scese al 28% del valore che era nel 1929 in soli sei anni, al 1935.

Contemporaneamente, vale la pena di ricordarlo, l’Unione Sovietica stava andando a gonfie vele, ed esercitava un notevole fascino. Nel 1931 a molti poteva sembrare che il sistema delle società occidentali potesse effettivamente crollare.

Insomma, per quasi tutti gli osservatori del tempo la Grande Depressione non è solo una crisi del lasseiz-faire, ma degli ordini politici esistenti, nazionali ed internazionali, ed è una crisi dell’ideale democratico per come si era configurato nel secolo XIX.


A luglio del 1932 Franklin Delano Roosevelt promise dunque, durante un discorso, un “New Deal”, un “nuovo patto al popolo americano”. Lo slogan fu ripreso e coniato come parola d’ordine dell’amministrazione dalla stampa, e quindi accettato dai ‘new dealer’. Per parte sua il Presidente parlava piuttosto di “libertà dalla paura” e “libertà dall’indigenza”, il concetto base che sembrò emergere dalla sua azione, più che il “patto” (ovvero il “compromesso”), è stato quello di “sicurezza”. Essenzialmente questo obiettivo, di rendere le vite più stabili e più sicure, doveva per Roosevelt essere raggiunto uscendo dall’individualismo che aveva fallito insieme al laissez-faire.

La triangolazione che crea e costituisce, dunque, il ‘nuovo patto’ è quella tra isolamento, intervento pubblico nazionale e ricerca della sicurezza. Si tratta di uno schema che, in risposta a sfide comuni, viene declinato in buona parte del mondo, anche se in ogni luogo diversamente e rispondendo, naturalmente, a costellazioni di forze diverse ed a volte opposte.


Al gennaio 1932, dunque prima delle elezioni e con Hoover Presidente, di fronte alla crisi che aveva dimensioni enormi, con il 25% di disoccupazione e i prezzi agricoli crollati del 60%, metà della produzione industriale ferma e due milioni di senzatetto, venne costituita la Reconstruction Finance Corporation (RFC), società federale per la ricostruzione del sistema finanziario. L’opera di rifinanziamento delle banche procedette con qualche successo fino a che il Congresso, già nel 1932, la obbligò a rendere pubblici i suoi interventi. A questo punto l’effetto fu invertito: ogni banca che chiedeva aiuto veniva esposta alla berlina e subiva un assalto agli sportelli. Quale misura di emergenza molti governatori (il primo nel febbraio) chiusero le banche, provocando un effetto a catena che coinvolse l’intero sistema creditizio della nazione.

Con Roosevelt insediato ad aprile del 1933, e il suo “brain trust[14] insediato, a settembre Henry B. Steagall portò all’approvazione il “Emergency Banking Relief Act”, e dopo tre mesi il più famoso “Glass-Steagall Act”, che separava le banche d’affari dalle banche commerciali e attribuiva a queste ultime la garanzia governativa sui depositi in grado di fermare le ricorrenti ‘corse agli sportelli’. Completava il pacchetto di stabilizzazione finanziaria l’introduzione di rigidi controlli valutari.
Il primo polo del triangolo autorafforzante del “New Deal”, l’isolamento, si presenta dunque come separazione del sistema bancario dagli scambi internazionali. Anche in questo caso si tratta di una misura presa in molta parte del mondo.

La stessa cosa viene fatta per i prezzi agricoli, come la Gran Bretagna anche gli Stati Uniti introducono dazi (Smoot-Hawey) già nel 1932, durante l’amministrazione Hoover, ma i ‘new dealer’ vanno oltre: con i prezzi che continuavano a scendere a maggio 1933 fanno approvare l’Agricoltural Adjustment Act, a seguito del quale il Segretario all’Agricoltura fissa le quote di commercializzazione di sette prodotti di larghissima distribuzione[15] per ridurre le scorte e sostenere i prezzi. Il meccanismo fu la retribuzione alla riduzione della produzione su base volontaria, e lo strumento la Agricoltural Adjustment Administration (AAA), un’altra agenzia federale, che lavorava insieme alla Commodity Credit Corporation, la quale garantiva il prezzo minimo per i prodotti agricoli. La nascita di questo pilastro del New Deal, in continuità come molti altri con le azioni dell’amministrazione precedente, ma molto più coraggioso, fu deciso attraverso la consultazione dei rappresentanti degli agricoltori ed alcuni esperti. Con una procedura tipica dell’azione amministrativa di Roosevelt furono coinvolti insieme le intelligenze accademiche (e i tecnici dell’Amministrazione) e i corpi intermedi per filtrare le tante possibili azioni e scegliere quella da perseguire.
L’azione sull’agricoltura era comunque nella stessa direzione, ma molto più energica di quella di Hoover, secondo quanto scrive Patel “intravedeva negli agricoltori dei potenziali elettori che andavano convinti approvando leggi a loro favore, e contribuiva inoltre a imporre una nuova idea dell’azione di stato” (p.80). Questa azione, che coinvolgeva milioni di lavoratori agricoli fu di enorme visibilità ed importanza, i prezzi non venivano più fissati dal mercato, ma mediante un intervento politico, inoltre i finanziamenti federali intervenivano a monte orientando la scelta di cosa produrre e dove. Le potenti agenzie federali, la USDA e la AAA, crearono direttamente migliaia di nuovi agenti governativi ed oltre 4.000 Comitati Provinciali per il controllo della produzione, cosa che comportò la necessità di gestire in modo tecnicamente adeguato una mole enorme di dati ed informazioni, conservando una visione razionale e globale[16].

Parte dell’ispirazione per queste politiche venne dai frequenti viaggi di studio in Europa di “Zeke” Ezekiel (figura chiave della USDA), o di Tugwell (vice del Segretario all’Agricoltura), o dell’esperto forestale Ringland che fu particolarmente colpito dall’esempio italiano.


Ma l’intervento del “New Deal” non si limitò ai settori bancario e agricolo; il settore industriale era stato affrontato nel mondo in modo differenziato nel mondo[17], ma gli Stati Uniti procedettero ben oltre la tradizionale (1890) legislazione antitrust. Si trattò di una completa inversione di rotta, che fu accusata di essere ispirata al fascismo ed al bolscevitismo: con il National Industrial Recovery Act del giugno 1933 fu avviata la pianificazione economico-finanziaria governativa nel settore industriale. Concentrandosi sul mercato interno vene promosso un processo di cartellizzazione di proporzioni epiche e sotto la supervisione della National Recovery Administration (NRA), sospendendo le leggi antitrust.
Insomma, dal capitalismo competitivo ed orientato al mercato del laissez-faire ottocentesco si passava ad una economia amministrata. La “Aquila Blu” (simbolo della NRA), diretta da Hugh Johnson, combatteva la “dottrina criminale della competizione selvaggia e dell’individualismo sfrenato”. La sua azione fu diretta in pochi anni a creare “codici per la concorrenza leale” in merito a salari minimi, orari di lavoro massimi, livelli dei prezzi garantiti. Oltre 550 Codici che influenzarono direttamente le condizioni di lavoro di ventidue milioni di lavoratori, più altri sedici in base ad accordi separati. L’azione della NRA fu vista da alcuni avversari come un “adattamento in stile americano allo stato corporativo fascista”, e da altri ancora di più come “essenzialmente fascista”[18].
C’è da dire che l’azione della NRA una qualche forma di autoritarismo la mise in campo, per orientare alla “cooperazione spontanea”, guidata dallo Stato, i datori di lavoro. Come ebbe a dire lo stesso Roosevelt, “se i datori di lavoro di ogni settore si uniscono con lealtà a queste moderne corporazioni, senza eccezioni, e accettano di agire insieme e subito, nessuno si farà male”. L’idea era che invece della concorrenza, che aveva determinato il disordine degli anni venti e quindi il crollo dei trenta, “i problemi economici andassero risolti con la trattativa e il comune accordo”.
Una parte del programma fu l’apposizione dello stemma della NRA su imballaggi e vetrine, con forti pressioni per quelle che non aderivano, e un’azione di propaganda con raduni di massa, sfilate, grandi discorsi. Nel 1933 fu organizzata, ad esempio, una sfilata imponente con 250.000 partecipanti e oltre un milione e mezzo di spettatori.




C’è in tutto questo una certa attrazione esplicita verso l’esempio del corporativismo fascista, anche perché nel 1933 le democrazie occidentali riconoscono il regime italiano, anche in chiave anticomunista. Come dice l’autore “il corporativismo era attraente perché lasciava intatta la proprietà privata e altri principi fondamentali del capitalismo, offrendo nello stesso tempo un’alternativa al laissez-faire” (p.92). Veniva, insomma, garantita stabilità e sicurezza rispondendo alle esigenze più proprie delle imprese, anzi garantendone la sopravvivenza e redditività meglio di come alla fine aveva fatto il welfare state.

Tuttavia, questo clima, anche se orientato a proteggere i profitti insieme ai lavoratori, creò molto scontento nel mondo dell’imprenditoria, che si sentiva costretta da un approccio autoritario. Per alcuni, alla fine, si trattava di una ‘dottrina socialista’. È in questa sotterranea rivolta che trova radice l’energia che fu messa in campo successivamente nel rovesciare lo stesso New Deal. Per come la mette Patel: “la politica conservatrice americana, che avrebbe raggiunto il suo apice nell’era di Reagan, affonda dunque le sue radici in queste forme di malcontento nei confronti del nascente ordine del New Deal” (p.97).
A scontentare il mondo del capitale furono, naturalmente, anche le nuove leggi fiscali promosse nel 1935. Le cosiddette riforme “spremi ricco”, attraverso le quali furono elevate le tasse per i grandi redditi, introdotte nuove imposte di successione, creata una pesante tassazione per le imprese. Questa offensiva contribuì grandemente a porre l’eredità storica che sarà utilizzata nel medio periodo per fare affermare la controrivoluzione reaganiana e il neo-liberalismo. Infine ebbe un ruolo il Wagner Act (1935) che estendeva notevolmente la protezione dei lavoratori, facendo perdere alle élite imprenditoriali buona parte del controllo che fino ad allora avevano avuto saldo.

Quindi c’è la nuova sicurezza sociale, per la quale l’amministrazione scelse un modello di tipo assicurativo, che fu implementato lentamente, ma stabilmente e permanentemente. Un modello capace di autofinanziarsi e molto vicino al modello tedesco (bismarkiano).

Del resto tutto questo attivismo ottenne effetti limitati; anche la creazione nel 1933 della National Labor Board, un’agenzia per gestire le vertenze tra lavoratori ed aziende, non riuscì a risolvere alcune ambiguità di fondo. La NRA in pratica non sosteneva le minoranze e le donne, i dipendenti pubblici e i lavoratori marginali; in particolare i politici del sud, indispensabili per la tenuta della coalizione politica, riuscirono ad assicurarsi che la spinta a proteggere il lavoro non trabordasse verso i settori degli afroamericani.
Anche se solo per i lavoratori maschi, bianchi, e dell’industria, l’azione delle agenzie federali ottenne un qualche miglioramento delle condizioni di lavoro, scontentando i datori di lavoro, e dei relativi diritti. Tutto questo non avvenne affatto in condizioni pacificate, un celebre sciopero dei marittimi sulla West Coast nel 1934 portò a centinaia di feriti e diversi morti.

Il “New Deal”, inoltre, oltre a non revocare le leggi limitanti l’immigrazione promosse dall’amministrazione Hoover, la portò in effetti ai minimi dal XIX secolo, in particolare furono promulgate misure di tipo razziale, come il “Filipino Rempatriation Act” e venne chiuso il confine sud. La conseguenza fu notevole: l’applicazione di questo regime migratorio restrittivo ebbe importanti conseguenze all’interno del paese. La manodopera agricola statunitense ‘si sbiancò’ notevolmente, in particolare negli stati del sud-ovest. Alcuni americani trovarono lavoro anche se in genere erano mal pagati” (p.228). Si instaurò quello che Patel chiama “un nesso palese tra l’irrigidimento del confine meridionale degli Stati Uniti e il programma di politica interna dei New Dealers; l’isolamento attraverso il restrizionismo e l’intervento dello stato in casa propria di completavano a vicenda”. Queste politiche furono portate avanti essenzialmente dal Congresso e si affermarono per ragioni molteplici, nelle quali aveva luogo il protezionismo economico e la necessità di fare qualcosa contro la disoccupazione e la crisi, ma anche semplice xenofobia e, in alcuni casi, razzismo. A contrastare questa impostazione nativista si spesero antropologi come Franz Boas, Margaret Mead, Ruth Benedict[19]. Inoltre immigrati illustri di questo periodo, come l’ex cancelliere tedesco Bruning, Albert Einstein e Thomas Mann.

Alla fine nel maggio 1935 la Corte suprema dichiarò incompetente la NRA sulla determinazione delle regole commerciali statali (in un caso di polli non ispezionati), in questo modo terminò l’azione della più controversa agenzia del “New Deal”, anche se la sua azione fu sempre prevalentemente orientata a dare esempi più che a controllare completamente l’attività industriale e commerciale del paese. Un’attività che, se condotta fino alle sue estreme conseguenze, avrebbe distrutto, come il Presidente sapeva bene, il consenso sulle politiche dell’amministrazione senza, peraltro, essere davvero possibile[20]. Qui si presenta, in altre parole, quel dilemma davanti al quale molti anni dopo Mitterrand dirà che “o si è leninisti o non si riesce a fare davvero qualcosa [con il capitalismo]”.

La creazione diretta di posti di lavoro fu demandata di fatto alla Public Works Administration (PWA), che promosse con vari strumenti direttamente lavori pubblici ad una scala mai vista prima. Il 6% del Pil fu speso in pochissimi anni, superando il totale degli investimenti privati, in lavori pubblici federali e locali. Oltre 3,3 miliardi di dollari furono spesi in appalti privati.
L’idea che era sottesa a questa ed altre politiche fluttuava, per così dire, tra un tradizionale e sempre riemergente conservatorismo fiscale, che frenava le punte più ardite, e la necessità di stimolare l’economia attraverso gli investimenti, secondo l’idea, non da tutti condivisa[21], che il problema fondamentale fosse di sottoconsumo.

Alcuni effetti non voluti furono che la concentrazione di fatto sull’industria delle costruzioni e sulla grande industria all’inizio il New Deal finì per rafforzare il modello tradizionale del capofamiglia maschio (bianco), discriminando involontariamente donne e afroamericani.
Anche il CCC, ad esempio, con il suo programma di campi di lavoro all’aperto, orientati espressamente a valori conservatori (lavoro fisico, formazione, stile di vita disciplinato, lontani dai centri abitati) fu diretto solo a giovani cittadini maschi e bianchi. Si trattò di un programma rivolto a tenere occupati ed a aumentare l’autostima, al contempo educando e fornendo professionalizzazione, che fu di fatto organizzato per ragioni pratiche coinvolgendo i militari, e che aveva una grande somiglianza con gli analoghi campi fascisti e nazisti (gli arbestsdienst).[22]



Un altro elemento che accomuna il “New Deal” americano con lo spirito del tempo è la pianificazione. Tra fattori determinarono, negli anni trenta, il grande fascino e successo delle pratiche di pianificazione dell’economia: la necessità di coordinare azioni pubbliche condotte ad una scala che non aveva precedenti, il fascino esercitato dalle applicazioni in corso ed in primo luogo da quelle sovietiche, la paura del grande crollo attribuito al fallimento del laissez-faire. In Unione Sovietica il primo piano quinquennale (1928-32) eliminò la disoccupazione, raddoppiò la produzione di ghisa ed acciaio, la più grande acciaieria del mondo a Magnitogorsk fu costruita in quegli anni dal nulla, insieme ad un’intera città.




Secondo il modo nel quale fu vista all’epoca la cosa, in un solo decennio un paese arretrato e contadino era stato trasformato in una grande potenza industriale grazie alla pianificazione.

Peraltro anche nei paesi controllati dalle dittature fasciste, Italia e Germania, la pianificazione aveva spazio, ma in modo meno coerente, per la presenza delle imprese private che non furono mai completamente poste sotto controllo.
Invece tra i paesi democratici quello nel quale la pianificazione ebbe maggiore spazio fu la Svezia, governata dai socialdemocratici dal 1932.

Dunque “il controllo diretto dello stato e la pianificazione continuarono ad essere irregolari per tutti gli anni trenta”.

Negli Stati Uniti fu creata un’agenzia di pianificazione indipendente, il National Planning Board (NPB), che affiancò le AAA e NRA nella pianificazione settoriale. Il loro progetto di pianificazione centralizzata, però, non fu accettato in un primo momento da Roosevelt, che ragionava molto più a breve termine e voleva una relazione stretta tra azioni e conseguenze (anche politiche). Del resto la resistenza del Congresso era insormontabile, e prevaleva l’idea che la pianificazione fosse in violazione dei diritti individuali e dunque indebita ingerenza dello stato.

Le forme di pianificazione che si affermarono erano quindi piuttosto settoriali e portate avanti da una congerie di agenzie diversificate. Un esempio di pianificazione parziale, o settoriale, fu quella portata avanti dalla famosa Tennessee Valley Authority, il cui scopo era di pianificare la navigazione, bonificare le terre e controllare le frequenti inondazioni, produrre elettricità e fertilizzanti e quindi promuovere lo sviluppo agricolo. Anche questo era un programma avviato negli anni venti, ma sottofinanziato e quindi in pratica fermo. Il rilancio del progetto fu promosso dalla coalizione politica tra democratici locali e repubblicani progressisti, e aveva l’obiettivo di mostrare a tutti che il capitalismo poteva essere contenuto e canalizzato per il bene comune.



L’insieme dell’intervento produsse effetti notevoli, e divenne uno dei simboli principali del “New Deal”, insieme alle sue dighe multifunzionali.

Malgrado questi successi, e l’innovativa comunicazione di Roosevelt, con il suo uso dei nuovi strumenti di comunicazione di massa[23], il 40% degli americani fu sempre contraria al “New Deal” e nel 1935 la disoccupazione era ancora molto alta. Ma la sensazione di acuto pericolo era stata superata.

Un altro elemento caratteristico del New Deal fu la politica della casa, per risolvere il problema dei senzatetto e soprattutto delle baracche nelle periferie delle grandi città. Qui, però, la tendenza del sistema a procedere per compromessi locali e di venire a patti con le forze dell’impresa creò un cattivo compromesso tra diffusione e qualità degli immobili (tenuta volutamente bassa per non fare concorrenza alle case private, e quindi all’industria delle costruzioni) il quale sul medio periodo compromisero l’autorità dello stato e furono adoperate come argomento dalla propaganda neoliberale[24].



La politica del New Deal cominciò ad indebolirsi per la perdita dei voti del sud, ma poi intervenne la guerra. La spesa militare, travolgendo ogni ostacolo, trasformò definitivamente il paese facendo anche venire meno il predominio del nord-est che continuava dai tempi degli anni quaranta del secolo precedente e che aveva provocato la guerra civile nel 1861. Fu la spesa militare a porre le basi stabili della prosperità del dopoguerra, e chiamò, secondo molti, il paese alla leadership globale.


Il “New Deal” è dunque qualcosa di molto complesso e non manca di lati ambigui e contraddittori, fu tutt’altro che l’applicazione della razionale teoria messa a punto negli anni venti e trenta da qualche economista inglese, che fu casomai assorbito e razionalizzato negli anni successivi[25], si trattò di una somma di politiche settoriali e reattive, condotte a breve termine e per ‘prova ed errore’ sulla base di un formidabile intuito politico. Né si trattò di una invenzione, sia pure trovata lungo la strada, propria degli Stati Uniti, in quanto quasi tutti i suoi ingredienti erano presenti anche altrove.
A volerla dire in modo semplice si trattò di un sentimento condiviso di ciò che era urgente fare e di cosa non si voleva più. L’enorme sofferenza diffusa che colpì il mondo e che non si riusciva a risolvere, a causa del perverso intreccio di problemi che si erano lungamente accumulati nei decenni di crescita ‘manchesteriana’, chiedeva di rigettare l’approccio permissivo e prendere la responsabilità di proteggere le persone e le aziende dalle conseguenze di dinamiche sulle quali esse non avevano responsabilità alcuna.
È questa spinta morale che indirizzò l’emergere di forme carismatiche, nella disperazione e nello sconforto del momento, e la costruzione di uno Stato provvidenziale ad una scala che non si era mai vista prima (isolamento, intervento pubblico nazionale e ricerca della sicurezza). L’enorme complessità dei problemi, con il crollo del sistema monetario internazionale, e l’immane problema dei debiti e crediti letteralmente impagabili che si erano accumulati, portò ad una necessaria introversione al fine di proteggersi. Il nazionalismo economico sfociò nella separazione dei mercati più bisognosi di protezione dai circuiti internazionali che stavano, del resto, collassando, è il caso del sistema finanziario (che resterà “represso” fino a che la svolta neoliberale lo libererà di nuovo, riavviando la crescita degli squilibri sistemici e dell’accumulazione ineguale) e dei mercati agricoli.
Ma il “New Deal”, per rispondere al problema enorme della disoccupazione e del calo dei prezzi e salari, che diffondeva disperazione e malcontento in tutta la nazione, si sviluppò anche in un contesto di chiusura radicale ai flussi migratori (anche qui non solo in America). Ciò provocò imponenti flussi interni di aggiustamento e con il tempo determinò anche una notevole crescita della conflittualità nei luoghi di lavoro. Ma quest’ultima portò all’erosione del consenso verso le politiche in oggetto da parte dei circuiti imprenditoriali.
Altri elementi di scontento furono il dirigismo, in particolare della NRA, le riforme fiscali “spremi ricco” del 1935, il Wagner Act per la protezione del lavoro, il NLB, la NPB, e la politica della casa.

Nelle contraddizioni del “New Deal”, insomma, affondano le radici dello scontento che in seguito, esaurita la spinta, riuscirà a coaugularsi nelle politiche neoliberali (che si avviano ben prima di Reagan) e nella crisi degli anni settanta.

Così come nelle contraddizioni e nelle ambiguità delle politiche neoliberali è la radice di quel che ora verrà.



[1] - Ovvero il tradizionale liberalismo “manchesteriano” al quale le élite politiche ed economiche si erano formate nei primi decenni del secolo. L’attacco al lasseiz-faire è un tratto comune dell’epoca, persino autori conservatori, come Wilhelm Ropke o Alexander von Rustov, che saranno centrali nella costruzione della versione ordoliberale del neoliberismo europeo, a partire dal Convegno Lippmann del agosto 1938, muoveranno dalla critica al liberalismo tradizionale, e quindi dall’accettazione di una maggiore presenza e protagonismo dello Stato. La differenza è che per persone come Walter Lippmann il liberalismo non è laissez-faire, perché il regime liberale presume la creazione di un ordine che non è creazione spontanea e naturale. Durante gli anni trenta solo alcune frazioni, rappresentate soprattutto da Von Mises e Robbins rifiutavano ancora l’interventismo, sia pure “liberale”, ed esprimevano una vera e propria fobia per lo stato, la maggioranza dei conservatori si stavano già orientando verso la reinvenzione del liberalismo che passerà dopo un paio di decenni, passata la stagione del New Deal, per “neo-liberale”.
[2] - L’autore sceglie questa parola, negando che ci fosse una specifica teoria economica, tanto meno keynesiana, almeno nella prima fase degli anni trenta, ma più la volontà di ‘fare qualcosa’ di fronte ad urgenze.
[3] - Quindi consolidatosi come “sistema militare-industriale” e connessa amministrazione.
[4] - Tuttavia le organizzazioni filantropiche americane, potentissime, le sostennero economicamente.
[5] - Sono gli anni del processo a Sacco e Vanzetti.
[6] - In ogni caso, come avviene anche in questa fase, di uscita da una fase di apparente laissez-faire (in realtà fortemente regolato, ma a salvaguardia solo di specifici interessi geopolitici e di classe), lo scontro tra le frazioni di élite che tenevano una posizione cosmopolita, ad esempio del “New York Times” che esaltava la “fratellanza di tutti gli esseri umani”, e quelle che invece promuovevano forme di restrizionismo infuriò a lungo ed aspramente.
[7] - Ci fu una breve stagione di espansione, provocata dalle difficoltà di approvvigionamento dell’Europa, per effetto delle distruzioni belliche, ma rapidamente saturata con effetti nel tempo devastanti sui prezzi che diremo. Questa è una delle dimensioni dove, in misura maggiore si misura l’effetto sia del mancato coordinamento internazionale, sia del lasseiz-faire interno.
[8] - Cosa che cesserà negli anni sessanta, quando, come ebbe a dire Malcom X, la violenza tornò a casa.
[9] - Fino a che il sistema aureo era in piedi l’emissione di nuova moneta richiedeva l’impegno di riserve auree, che, però, andavano usate per i debiti esteri e non ne restava per l’espansione monetaria interna, in condizioni di restrizione monetaria i prezzi calano, ed il clima deflazionario determina espansione dei debiti interni e disincentivo agli investimenti. Secondo un meccanismo diverso è quel che sta accadendo anche adesso.
[10] - Provocando il drammatico incrudimento delle politiche deflazionarie che saranno la causa immediata della vittoria di Hitler.
[11] - Meccanizzazione e fertilizzazione, in parte a causa di alcune scoperte tecnologiche e di nuovi processi produttivi che erano stati introdotti in quegli anni e che nella prima metà del secolo porteranno ad una enorme crescita della produttività agricola. La crescita della produttività ebbe effetti sui prezzi, ma anche sul lavoro agricolo, che ora richiedeva molto meno manodopera, e quindi espulse milioni di persone che andavano occupate.
[12] - Dichiarazioni di Hoover a dicembre 1930, riportate a pag. 46.
[13] - Una legge del ’32, che li richiedeva, fu bloccata dal veto presidenziale.
[14] - Si trattava di un piccolo gruppo di consiglieri: Rexford Tugwellm Raymond Moley, Adolf Berle della Columbia University, il giudice Samuel Roseman, e Felix Frankfurter di Harvard.
[15] - Trai quali il grano, il mais, la carne di maiale ed il latte.
[16] - Il “New Deal” è anche il banco di prova di alcune nuove tecnologie, come le schede perforate, che furono implementate ad una scala mai vista per costruire sistemi di accumulo e gestione dell’informazione e la base di una gestione tecnocratica che poi durante la guerra si tramuterà in una pianificazione generalizzata.
[17] - La Gran Bretagna sostenne alcuni settori e non altri, la Francia promosse una “cartellizzazione”, ma con qualche timidezza, la Germania mise in piedi una vera e propria economia di comando con pronunciata creazione di cartelli e monopoli, il Giappone cercò di andargli dietro.
[18] - Come si trovò a dire Montague, esperto di antitrust.
[19] - In particolare questi pubblicò nel 1934 “Modelli di cultura” nel quale, mettendo a confronto Zuni, Dobu e Kwakiutl, mostra come la cultura, una sorta di personalità comune, crei gli individui e non viceversa.
[20] - Gli uffici erano travolti da centinaia di migliaia di segnalazioni di violazioni, malgrado l’assunzione di un vero e proprio esercito di funzionari per le verifiche nessuno allo stato della tecnica dell’epoca poteva tenere dietro e perseguire ogni caso. Inoltre se lo avesse fatto avrebbe coalizzato contro l’Agenzia l’intero paese.
[21] - Ad esempio non dal Presidente.
[22] - A questo scopo furono anche espressamente studiati dagli esperti del new deal americano.
[23] - Una delle caratteristiche della gestione carismatica del consenso di Franklin D. Roosevelt fu l’uso della radio, nelle famose “chiacchierate dal caminetto”, per dare la sensazione di un rapporto diretto e personale, per quanto paternalistico.
[24] - Ad esempio questo è uno degli argomenti ricorrenti di Milton Friedman.
[25] - Al contempo deformato e neutralizzato nelle parti più radicali.

Nessun commento:

Posta un commento