Avevamo letto di Milton Friedman, più famoso esponente
della “Scuola di Chicago”, il libro del 1980 “Liberi
di scegliere”, e, da “Metodo, consumo e moneta”, il
fondamentale articolo del 1953 “La
metodologia dell’economia positiva”, per portare avanti la presa di
contatto con uno dei pensieri di elaborazione della svolta neo-liberale si può
prestare attenzione al libro del 1962 “Capitalismo e libertà”.
Come nel libro successivo c’è qualcosa di singolare e
caratteristico nel modo di presentare le cose di Friedman, procede con un
serrato argomentare rapido, sommario e dogmatico. Enumera una gran serie di fatti e di
applicazioni, di carattere per lo più pratico, ovvero di policy, inframmezzandole
con dichiarazioni astratte di principio che non dispiega ma enuncia. Ne deriva
un periodare pieno di intrinseca autorità, proprio di un uomo che evidentemente
si sente forte e sicuro di sé, e nei punti chiave sostituisce all’argomento,
alla pretesa di verità affidata al consenso intersoggettivo, la fonte della
propria autorità individuale; ne seguono espressioni come ‘io penso’, ‘sono
convinto che’ che svolgono un ruolo strategico. Un periodare quasi del tutto
indifferente alle obiezioni, anzi, un procedere che le nasconde
sistematicamente.
Quel che Milton Friedman sta presentando in questo
libro pensato per la grande distribuzione, per alzare una bandiera e
raccogliere sotto di essa[1], è
una sorta di nuovo vangelo.
Chiaramente ci sono lunghe tradizioni, una sorta di
pensiero proto-anarchico o libertariano[2], incentrato
su una visione della “libertà” intransigente e semplificata. Dirà subito che
questa, la libertà, “è un fiore raro e
delicato”, che non misura il valore dalle persone che lo condividono[3], e
successivamente è “lo scopo ultimo”[4], e
soprattutto “la libertà politica significa assenza di coercizione sull’uomo da
parte dei suoi simili”, in conseguenza di questa definizione ristretta[5]
continua “la minaccia più grande e più pericolosa alla libertà viene posta dal
potere di costringere, a prescindere che esso si trovi nella mani di un monarca,
di un dittatore, di un’oligarchia o di una momentanea maggioranza” (p.51).
Si tratta, a tutta evidenza di una definizione troppo
ristretta e non operativa. Una definizione, dalle implicazioni anarchiche
radicali, sulla cui base non è edificabile alcuna società, tanto meno complessa.
Ma nessuna ulteriore discussione è posta, o argomentazione proposta, a difesa
di questa traballante trincea, ad onta di una discussione millenaria sul tema.
Di seguito affermerà ancora più drasticamente che “qualsiasi forma di coercizione è
inaccettabile”, perché l’unico mezzo giusto è la libera discussione e la
cooperazione volontaria. Sulla base di questa pseudo-teoria non si capirebbe
come “l’inaccettabile”, vada insieme alla definizione come “impossibile da
realizzare” del sistema anarchico che logicamente ne seguirebbe[6], e
di un campo d’azione del governo definito come “tutelare la nostra libertà dai
nemici esterno che dai nostri concittadini: mantenere la legalità e l’ordine, far
rispettare i contratti privati, favorire la concorrenza nel mercato” (p.34).
Quali sono i due evidenti bersagli di queste intemerate?
Uno è chiarito in pratica nella prima frase del testo, si tratta de “La nuova frontiera” di John Fitzgerald
Kennedy, che si insedia il 20 gennaio 1961 con un discorso la cui frase chiave
viene ripresa all’avvio dell’introduzione da Friedman. Dove Kennedy dice “non chiedetevi cosa il vostro paese possa
fare per voi, chiedetevi cosa voi potete fare per il vostro paese”, Milton
Friedman obietta che “l’individuo libero non ammette che la nazione abbia un
qualsiasi scopo che non sia la convergenza degli obiettivi che ciascuno dei
suoi concittadini cerca autonomamente di realizzare”. Quella del Presidente che
sarà assassinato a Dallas l’anno dopo l’uscita di questo libro, e che solleverà
grandi speranze come aspre ostilità, è letta come una visione paternalistica,
in quanto lascerebbe ad intendere che il governo sia il tutore e la
controformula sarebbe “organicista” ed implicherebbe che il cittadino sia servo
del governo o ne sia il fedele. Il governo è solo un mezzo, solo uno strumento,
non un dispensatore di favori o di doni.
Nell’ampia parte che illustra ricette politiche, dunque,
ci saranno obiezione verso le linee politiche concretamente portate avanti dall’amministrazione
democratica: programmi contro povertà e disoccupazione, programmi per l’istruzione
pubblica, programmi contro la segregazione razziale.
L’altro bersaglio, senza il quale la vis polemica del
testo resterebbe poco chiara, e che è ovvio per un contemporaneo, ma va oggi
esplicitata è l’Urss. Nel 1953 era morto Stalin e dopo una fase confusa e
violenta era stato nominato Primo Segretario Chruscev, nel 1956 questi aveva
pubblicamente denunciato i crimini del suo predecessore e nel 1958 era stato
eletto Premier. Siamo nella prima fase di de-stalinizzazione e ovunque nel libro
viene richiamato l’esempio ‘socialista’ come esempio di distruzione della
libertà ed oppressione.
All’azione del governo democratico, e sostenuto dalla
maggioranza, non viene concesso nulla. Anche se non è esplicitato, come
lamenterà[7]
nella Prefazione all’edizione del
2002, che la libertà politica potrebbe andare in contraddizione con la libertà
economica, e soffocarla, e dunque, come avvenne in Cile nel 1973 debba essere
sacrificata[8].
Nel libro ci sono una serie di assunzioni che
legittimano la rispondenza all’interesse comune (che non chiama “generale”),
come migliore somma degli interessi individuali, ed al contempo rispetto del
criterio superiore della “libertà”. Tra queste vale ricordare:
-
la libertà genera la
varietà essenziale alla sperimentazione, e questa eleva tutta la società, per
cui anche “in meno abbienti di domani vivranno meglio della media di oggi”.
Insomma, la promessa che legittima la priorità alla libertà è della crescita.
-
il mercato, in
quanto in grado di ottenere “unanimità senza conformità”, ovvero cooperazione
volontaria senza costrizione, rafforza la coesione sociale, “essenziale per una
società stabile”[9].
-
tramite il libero
commercio “la cooperazione tra individui può abbracciare il mondo intero ed
essere del tutto libera” (p.126).
-
l’aumento della spesa
pubblica non necessariamente ha un effetto di stimolo dell’economia, ma questa
è una “questione empirica”, in quanto dipende dalle circostanze al contorno
(p.140).
-
il capitalismo è
la migliore opportunità per le minoranze razziali, in quanto chi discrimina
danneggia se stesso, ed è quindi irrazionale, perché limita le proprie scelte
(p.174).
-
l’essenza del
mercato in regime di concorrenza (non di monopolio), è la sua impersonalità,
dunque nel mercato si coopera (attraverso i prezzi) e non c’è rivalità
personale.
-
le ineguaglianze
sono risultato del caso e della fortuna (p.249).
-
sostituire
cooperazione spontanea con costrizione fa ridurre l’ammontare delle risorse
disponibili (p.250).
-
il capitalismo
produce meno ineguaglianze del socialismo e di fatto le ha ridotte (p.253).
-
il capitalismo
garantisce “notevole mobilità sociale”.
-
l’eguaglianza (dei
risultati) è in conflitto con la libertà e bisogna scegliere (p.290).
-
il divario tra il
funzionamento concreto e quello ideale del mercato non è nulla in confronto alla
disparità tra gli effetti reali degli interventi dello Stato e quelli previsti
dai loro fautori (p.292).
-
le società
capitaliste sono meno materialiste di quelle collettiviste (p.296).
Davvero un elenco notevole, chiaramente alcune
affermazioni sono pura polemica politica, alcune sono dirette verso l’immagine
che l’autore si è fatto del socialismo sovietico, che in quegli anni avvia il
suo definitivo discredito. Altre nominano come “capitalismo” proprio l’assetto
welfaristico e l’esperienza del “New Deal”[10]
che combatte aspramente, ed in questo senso segano il ramo sul quale sono sedute.
Quando, comunque, si deve avere intervento del governo
(oltre ai compiti di polizia) per cause economiche, ovvero per risolvere casi
di monopoli naturali e di esternalità, ci sono tre alternative:
-
si può ricorrere
ad un monopolio privato,
-
si può cercare di
instituire un monopolio pubblico,
-
si può puntare
solo sulla regolazione.
Chiaramente, date le sue premesse, per Friedman il “male
minore”[11] è
il primo, con pochissime eccezioni. Occorre sempre evitare l’intervento
paternalistico del governo e liberalizzare quante più attività è possibile.
Nel capitolo sul controllo della moneta, Friedman,
dopo aver ribadito la sua tesi secondo la quale la Grande Depressione, lungi dall’essere
stata provocata dal mercato sregolato degli anni venti e dalle tensioni non
risolte che abbiamo descritto nel post sul “New
Deal”, sarebbe stata determinata, “come gli altri periodi di grande
disoccupazione”, dalle “cattive scelte delle autorità e non da un’ipotetica instabilità
connaturata all’economia privata”[12]. Ma
è molto indicativo, per saggiare la qualità dell’argomentazione, il modo in cui
l’autore porta il discorso:
“negli ultimi decenni i concetti di ‘piena
occupazione’ e di ‘crescita economica’ sono stati le principali motivazioni ad
ampliare l’intervento pubblico nelle questioni economiche. Si sostiene che un’economia
basata sulla libera impresa sia intrinsecamente instabile e che, lasciata a se
stessa, sia destinata a causare cicli ricorrenti di espansione e recessione.
Pertanto il governo deve intromettersi
al fine di far procedere l’economia senza inutili scossoni. Queste argomentazioni
sono risultate particolarmente efficaci durante e subito dopo la Grande
Depressione degli anni trenta, quando hanno rappresentato uno dei principali
elementi per giustificare l’instaurazione del New Deal negli Stati Uniti e di
analoghi ampliamenti dell’intervento pubblico in altri paesi. Negli ultimi anni
lo slogan più popolare è stato l’appello alla ‘crescita economica’ : il
governo, così si sostiene, deve far sì che l’economia si espanda in modo da
produrre le risorse necessarie per la prosecuzione della Guerra Fredda e
dimostrate alle nazioni del mondo che ancora non hanno scelto di schierarsi che
una democrazia può crescere più rapidamente di uno Stato comunista.
Queste tesi sono completamente insensate: il
fatto è che la Grande Depressione, come la maggior parte degli altri
periodi di grande disoccupazione, venne causata dalle cattive scelte fatte
dalle autorità e non da un’ipotetica instabilità connaturata all’economia
privata. […] quella che sarebbe stata una modesta contrazione dell’economia
divenne un’autentica catastrofe”. (p.82)
Una tesi storiografica, peraltro ormai minoritaria,
che esalta alcuni specifici errori di timing nelle politiche di contrasto della
crisi, tra l’altro condotte per ragioni simili a quelle della sua parte
politica, viene insomma da Friedman strumentalizzata per sostenere in modo
netto ed apodittico, con grande violenza verbale, che il capitalismo non
sarebbe mai soggetto ad oscillazioni.
Una tesi storicamente molto ardita, data la costanza, con qualsiasi teoria
economica soggiacente, almeno dalla fine del settecento, di periodi di crisi
alternati a periodi di boom, con una regolarità più volte e da molti misurata.
Nella parte del libro che tratta dell’alternativa tra
Gold Standard e libera fluttuazione delle monete, quella più tecnica, si cerca
comunque una qualche via “tra Scilla e Cariddi”. E nella navigazione si fa
guidare dalla stella polare del timore del liberale per la concentrazione del
potere (pubblico). Dunque si fa guidare dal prevalente timore di poter abusare
della libertà che fornisce una “moneta fiduciaria”, ed anche un sistema
bancario a riserva frazionaria. La conclusione è che si deve preferire essere
guidati da regole e non dall’autorità. Quindi da una Banca Centrale del tutto
indipendente, la cui unica missione sia mantenere la massa monetaria (e per
questa via la stabilità dei prezzi).
Lasciare liberi gli scambi valutari è l’altra
necessaria condizione. Infatti il controllo sugli scambi determinano automaticamente
una società ad economia pianificata (non a caso si tratta di una delle misure
iniziali del “New Deal” rooseveltiano), il motivo è che il provvedimento
conduce necessariamente al contingentamento delle importazioni ed all’imposizione
di controlli sulla produzione interna (tentati nel “New Deal”).
Se si vuole avere equilibrio nei pagamenti internazionali,
per sanare uno squilibrio causato da differenziali di efficienza, sono
disponibili solo quattro meccanismi possibili:
1-
si possono
diminuire le riserve di valuta estera (o aumentare le valute estere della
propria moneta),
2-
si possono obbligare
i prezzi interni a diminuire (ed è il meccanismo di adattamento nel “genuino
gold standard”), infatti una caduta dei prezzi e dei redditi del paese è provocata
dalla riduzione della massa monetaria, e questa ribilancia il commercio estero,
3-
gli stessi effetti
della disoccupazione interna e deflazione, o della inflazione nelle
controparti, può essere ottenuta da una variazione dei tassi di cambio, cioè
attraverso svalutazione e rivalutazione dei cambi delle monete,
4-
è possibile anche
avvalersi di interventi o controlli diretti degli scambi da parte delle
autorità, ad esempio aumentando le tariffe doganali (più delle controparti).
Per Friedman, che non a caso al momento dato sarà
contrario al progetto dell’Euro, che neutralizza i meccanismi 1, 3, 4 e lascia
l’unica scelta della dolorosa deflazione competitiva, la soluzione più conforme
al libero mercato sono tassi fluttuanti. Ma bisogna chiarire bene che “fluttuanti”,
significa proprio lasciati liberi di fluttuare senza alcun intervento correttivo,
ovvero “senza interferenze”.
Se fluttuassero senza alcun intervento di manipolazione,
ritiene Friedman, anche le eventuali differenze nei livelli salariali sarebbero
compensate dai valori delle monete ed il mercato si aggiusterebbe da solo.
Segue la costruzione di un argomento contro la spesa
pubblica per combattere la disoccupazione ciclica: in sostanza ritiene che il “volano
di stabilizzazione” keynesiano non sia equilibrato, e tenda a prendere la mano
ai suoi utilizzatori. Seguendo una logica che contemporaneamente si stava
mettendo a punto nella Scuola di Charlottesville, nell’Università della Virginia,
gli stimoli tendono a non essere più abbandonati quando la crisi rientra, e
peraltro ottengono per lo più i loro risultati, a causa di un normale ritardo
nel rilasciare l’azione, solo quando non servono più. Avrebbero, quindi, in sostanza
effetti distorsivi.
Più in generale l’intera filosofia del welfare state è
attaccata, insieme alla consistenza del “moltiplicatore”. L’argomento qui è di
ultima istanza: non potendone negare l’esistenza si rifugia nell’individuare
alcuni casi limite nei quali potrebbe non esserci per concludere che “è
questione empirica” (p. 140). Ne ammette l’utilità solo nelle condizioni di “trappola
della liquidità” (che sono, detto per inciso, quelle in cui noi ora ci
troviamo). Se non c’è una massa adeguata di capitale giacente sottoutilizzato,
allora la spesa pubblica, sostiene, rischia di spiazzare analoga spesa privata
e ciò dimostrerebbe che può aversi
qualsiasi risultato.
Seguono proposizioni contro la pubblica istruzione, in
favore di scuole private, norme contro la discriminazione che sono
sostanzialmente inutili perché il capitalismo lo fa da sé (p.175), la legislazione
sul diritto al lavoro (p.181), numerosi sofismi per neutralizzare la
possibilità stessa di individuare imprese monopolistiche, se private (p.190). Ammissione
dell’esistenza e della rischiosità, al converso, dei monopoli pubblici e di
quelli sindacali. In particolare questi ultimi, modificando il punto di equilibrio
dei salari, ridurrebbero l’occupazione (p.193).
Ma c’è anche di più, Milton Friedman sostiene che
ognuno deve essere libero anche di sbagliare, e dunque lo Stato non deve
immischiarsi a controllare, rilasciando licenze, se un medico sia competente,
se un ingegnere sappia calcolare uno stadio. In sostanza si tratta di residui
medioevali del sistema delle corporazioni, “se non c’è la certificazione sono
fatti nostri” (p.227).
Chiaramente non vanno bene neppure le case popolari (si
deve eventualmente intervenire fornendo denaro e non case), la legislazione sul
salario minimo (che provoca disoccupati), il sostegno ai prezzi agricoli, le
pensioni di vecchiaia, il soccorso ai poveri (da sostituire con la beneficienza
privata ed al massimo con una imposta negativa sul reddito).
Infine, spende una finale argomentazione contro il sistema
progressivo di tassazione e per la flat tax (p.261).
Nelle conclusioni, oltre un riepilogo generale delle policy
proposte, Friedman ricorda l’esempio sovietico e quello del “New Deal”, del
quale denuncia l’inefficacia con la sola eccezione, ma insufficiente delle
autostrade, delle dighe, dei satelliti, del sistema scolastico e degli
interventi sanitari.
Un bilancio, insomma, deludente.
Alla fine con il capitalismo va tutto bene per
definizione, e de qualcosa ancora va storto, allora bisogna solo avere pazienza,
“le libere istituzioni affrontano la via più certa, seppure talvolta più lenta,
del potere coercitivo dello Stato”.
Peccato che la via più certa ci abbia riportato nella
Grande Depressione, e ci tenga fermi in essa da dieci anni (dove ciò non è
accaduto, ovvero in parte del mondo anglosassone, è solo per un protagonismo
senza precedenti della odiata mano pubblica). Se, insomma, come proponeva nel
suo saggio
metodologico del 1953, tutte le previsioni della scienza economica tanto
accuratamente costruita dal nostro sono state sistematicamente e senza eccezione
contraddette, e secondo i suoi termini “non ha avuto successo”.
Da alcuni decenni la ricchezza mediana si abbassa, il
mercato lasciato a se stesso (o meglio, puntellato da istituzioni guardiano
molto occhiute) sta distruggendo la coesione sociale, la cooperazione continua
a diminuire in favore della generalizzazione della concorrenza quando non del
conflitto, il capitalismo continua a produrre minoranze oppresse, le
ineguaglianze sono esplose, la mobilità sociale è scomparsa, la società non è
mai stata così materialista.
Il capitalismo, insomma, ha fallito la prova di
Friedman, e a conti fatti la sua libertà è per troppi pochi perché sia
interessante.
Bisognerà cercare
altre vie.
[1] - Ma che, nello spirito dei tempi, ebbe poco impatto
immediato, ottenendo i suoi frutti solo dopo, quando la sconfitta del Vietnam,
e la situazione degli anni settanta, ridusse il fascino dell’azione pubblica.
[2] - Che Friedman ad un certo punto evocherà pure,
dichiarando la simpatia per idee anarchiche ma anche la loro non necessità.
[3] - La frase esatta è: “ma chi crede alla libertà non
misura il valore di un’idea contando le teste delle persone che la condividono”
(p.43), un evidente approccio anti-maggioritario anche questo con lunghe
tradizioni nella radice madisoniana della democrazia americana, si veda, ad
esempio il ben libro di Alan Taylor “Rivoluzioni
americane”.
[4] - “Da buoni liberali riteniamo che, quando dobbiamo giudicare
l’ordinamento e le strutture di una società, la libertà dell’individuo o
eventualmente della sua famiglia, rappresenti lo scopo ultimo” (p.47).
[5] - Per un’ampia critica si veda Axel Honneth, “Il
diritto della libertà”
[6] - Dirà, infatti: “per quanto attraente possa
apparire, dal punto di vista filosofico, l’anarchia, si tratta di un sistema
impossibile da realizzare in un mondo popolato da individui imperfetti” (p.64).
[7] - Scriverà: “Oggi ritengo che un grave difetto di
questo libro consista nell’inadeguatezza della disanima del ruolo della libertà
politica, che in determinate circostanze può favorire le libertà economiche
mentre in altri casi al contrario può soffocarle”, a tutta evidenza si tratta
di sapere chi vince le elezioni. Se lo fanno le sinistre, tanto più se
socialiste, le soffocano, se lo fanno le destre va bene (la cosa come noto si è
risolta facendo diventare destra economica la sinistra politica).
[8] - Come noto il 11 settembre 1973 in Cile fu attuato
dal generale Pinochet un colpo di stato contro il presidente socialista
democraticamente eletto Salvador Allende. Il colpo di stato fu organizzato
dalle élite economiche locali, che si sentivano danneggiate dalle politiche
popolari portate avanti dal Presidente, con il decisivo appoggio del
Dipartimento di Stato americano e della Cia, oltre che di alcune multinazionali
presenti nel paese e preoccupate per il programma di nazionalizzazione. Sin dagli
anni cinquanta gli Stati Uniti avevano finanziato programmi di addestramento di
economisti cileni con borse di studio presso l’università di Friedman. I
cosiddetti “Chicago boys”, che venivano dall’Università Cattolica di Santiago, quindi
presero la guida economica del paese, promovendo un drastico programma di implementazione
della “libertà economica”, ovvero nelle condizioni favorevoli di totale assenza
della “libertà politica”, di privatizzazioni, liberalizzarono pesca, raccolta
del legname con drammatici effetti sulle popolazioni locali, in particolari
indio, privatizzarono la previdenza sociale, agevolarono gli investimenti
stranieri, spinsero sulle esportazioni e negoziarono prestiti con il FMI. Fino
al 1982 sembrò andare bene e poi crollò, insieme al debito latinoamericano, in
una delle ricorrenti crisi di fiducia della finanza internazionale.
[9] - Infatti, come parte della antropologia negativa del
liberalesimo, che “concepisce l’uomo come un essere imperfetto e ritiene che il
problema dell’organizzazione sociale si concreti nella questione negativa di
come impedire che individui ‘cattivi’ possano arrecar danno” (p.47), si postula
che “qualsiasi eventuale ampliamento del ventaglio di problemi per i quali è
necessario un accordo esplicito non può che sottoporre a ulteriori tensioni le delicate fibre che tengono insieme la società”
(p.62). Qui viene giocato il sempiterno esempio delle guerre di religione.
[11] - Per il carattere indicativo di una tradizione di
pensiero di questa locuzione, si veda Jean-Claude Michéa, “L’impero
del male minore”.
[12] - Questa affermazione che include uno dei più potenti
dogmi dell’economia marginalista, che si postula sempre tendente all’equilibrio,
è relativa al suo libri sulla “Grande Contrazione, il 1929-33”
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