Il libro di
Antonio Tosi racchiude un’ampia rassegna delle politiche abitative nell’era
neoliberale, durante la quale si è registrata una costante tendenza ad
estendere le misure sociali verso l’alto, riducendole; per cui le politiche abitative
sociali di fatto si presentano ormai sempre più come “poco sociali”.
Le politiche per la casa dovrebbero fornire risposta
alle aree di bassa domanda, nella quale sono presenti redditi insufficienti o alle
aree di espulsione sociale, marginalizzazione. Naturalmente le condizioni
possono sommarsi, la legge francese del 1998 individua “persone le cui
difficoltà hanno solo un’origine finanziaria e quelle le cui difficoltà
provengono da un cumulo di difficoltà finanziarie e di inserimento sociale”
(p.13). Bisogna, insomma, cercare di costruire politiche a misura delle diverse
situazioni: quando ci sono condizioni di povertà abitativa “non strutturale” si
tende ad indicare come soluzione politiche indirette, per ridurre i costi di
mercato abitativi o per integrare il reddito, lasciando che sia poi il mercato
a trovare la soluzione definitiva. Solo quando la povertà abitativa è
multifattoriale, o “strutturale”, allora si tende a rispondere con la diretta
offerta di case sociali. Certo, la Legge Besson afferma comunque che “il
diritto alla casa costituisce un dovere di solidarietà per l’insieme della
nazione”, dato che “lo Stato è garante della solidarietà nazionale”.
Dunque l’impegno sarebbe di dare una casa per tutti,
mai realizzato completamente, in nessuna parte d’Europa. Ovviamente ciò è
inevitabile nel momento in cui la casa è una delle principali merci che il
mercato crea e distribuisce, e per le quali, dunque, la scarsità relativa determina
il valore. Qui poggia la contraddizione di fondare la macchina valorizzante
della città sui differenziali di valore fondiario ed immobiliare[1],
mentre alcune politiche pubbliche dovrebbero eliminarne gli effetti ultimi. Con
pochissime eccezioni[2],
tutte le politiche sociali, malgrado la vocazione a rimuovere i fallimenti del
mercato, di fatto ne sono quindi rimaste subalterne. Le esigenze del mercato
immobiliare si sono rivelate invincibili.
Né questo accade solo in Europa, o solo nel nostro
dopoguerra, abbiamo visto[3]
che le politiche abitative del “New Deal”, pur nella loro vasta estensione,
abbiano quasi intenzionalmente abbassato la qualità dell’offerta per non andare
in competizione con le risposte che il mercato immobiliare apprestava.
Alla fine le politiche sociali della casa tendono
sempre a privilegiare situazioni “intermedie”, ceti medio-bassi e lavoratori,
mentre le popolazioni socialmente marginali e molto povere sono oggetto di
interventi assistenziali, o di sistemazioni di bassa qualità, spesso con titoli
di godimento che limitano la sicurezza abitativa. I meccanismi di esclusione
vanno dalla difficoltà ad elaborare la domanda, alla presenza di requisiti
reddituali che, pur modesti, tuttavia prevedono l’affidamento nella corresponsione
di un affitto (e dunque la tendenza dell’erogatore a stringere i requisiti per
paura di alzare il tasso di morosità). Ma anche alla concentrazione ed
esclusione che comporta la necessità di trasferimento dal quartiere di storico
insediamento, a nuovi quartieri specializzati, spesso realizzati secondo logica
‘modernista’ monofunzionale, nei quali viene a mancare quella rete informale di
sostegno e lavoro, ma anche la disponibilità di spazi informali e ‘trattabili’,
modificabili e incorporati in dense strutture sociali.
Secondo Tosi,
“l’esclusione abitativa
dei poveri è una esclusione programmatica. Può essere l’esito dell’incoerenza
tra le condizioni dei poveri e la struttura consolidata delle politiche, ma
certamente non può essere intesa come inconveniente o effetto perverso delle
politiche: è iscritta nel loro programma. Come si è visto, non sono stati i
poveri i destinatari della maggior parte delle politiche abitative sociali. E storicamente,
nella maggior parte dei paesi, il social housing non ha avuto come popolazioni
di riferimento i poveri o i più bisognosi di case, quanto i lavoratori – i salariati
qualificati, i redditi stabili, le key workers families. I molto poveri hanno
goduto di queste misure solo in piccola misura (Blanc 1991), o sono stati
alloggiati grazie a iniziative private, commerciali e charities (Malpass, 2007)”
(p.22).
Vengono normalmente offerte quindi soluzioni temporanee,
di scarsissima qualità, “più o meno distanti dal modello della casa ordinaria”.
Talvolta nascoste sotto etichette come “accoglienza”, “emergenza”: dormitori,
rifugi notturni, centri, residenze sociali, campi nomadi, …
In sostanza il problema viene relegato nel sociale, anziché nell’abitativo. Popolazioni che sono
segnate implicitamente come indesiderabili ed inutili, sono allontanate, messe
in quarantena, sorvegliate e private dei mezzi di sussistenza autonomi e della
funzione dell’abitare.
Se questa è una politica tradizionale, di lunga
durata, la crisi del welfare state, imposta dalle politiche neoliberali, ha
aumentato ulteriormente lo squilibrio tra domanda ed offerta. Ma anche i
criteri di assegnazione dell’edilizia sociale sono mutati; la scarsissima
offerta finisce per specializzare la risposta verso la logica dell’emergenza. In
conseguenza, cade la speranza dell’assegnazione di una casa decente, in un
decente quartiere semicentrale, alle classi ‘lavoratrici’ o ‘popolari’, per
restringersi solo a popolazioni estremamente povere, spesso straniere
multiproblematiche. Cresce anche il numero dei mal longès, di chi non ha più alternative. Talvolta homeless con
profilo problematici ed una storia che li penalizza, escludendoli da ogni possibile
risposta.
Ma nel frattempo sono emerse altre forme di offerta
sociale, spesso in competizione, che coinvolgono il settore privato. Quindi si è
avuto un ruolo crescente del mercato nelle politiche sociali della casa, il
declino contemporaneo degli investimenti pubblici nel social housing, il
passaggio da misure di sostegno all’offerta a sussidi alla domanda. Contemporaneamente
si è avuta una netta contrazione della protezione abitativa e la ricomparsa di forme
molto severe di povertà abitativa, ma soprattutto l’espressione di una nuova
logica sociale e nuovi principi di efficacia.
Si fanno spazio sostegni fiscali all’accesso alla casa
di proprietà, incentivi ai proprietari di alloggi sfitti per metterli sul
mercato, sostegno di vario genere alla costruzione di case da affitto per il
segmento medio/basso, sussidi agli inquilini, e poi classiche misure di
emergenza ed accoglienza temporanea, servizi per l’accompagnamento abitativo e
intermediazione. Invece la classica produzione diretta di social housing ha
visto una continua riduzione.
Sono presenti alcune sperimentazioni di politiche
abitative “molto sociali”, che tentano di legare l’housing con sostegno all’inserimento
sociale, ma che soggiacciono alla critica di essere per lo più temporanee, di
scarsa qualità e spesso di indurre una separazione dal normale sistema abitativo
(p.58).
La nuova marginalità urbana, largamente cresciuta in questi
anni, è relativa ai cosiddetti “underclass”, o i ‘disaffiliati’ (Castel), i ‘superflui’,
costretti a lavorare nelle periferie, entro forme di economia ombra, confinati in
lavori non qualificati e condizioni abitative altamente degradate, di lunga
durata, che si tende a percepire come irrevocabile, fonte di decomposizione del
tessuto sociale.
Il nocciolo duro di questa marginalità sono gli
homeless, gli abitanti delle baraccopoli, squatter, residenti informali, ospiti
endemici di residenze sociali, strutture di accoglienza, … in un qualche rapporto,
non lineare, con l’esclusione sociale. I casi più gravi, secondo i dati Istat, sono
aumentati da meno di 50.000 a poco più a cavallo tra i primi anni duemila ed il
2014 (dati più recenti, presumibilmente, vedrebbero un netto aumento), ma anche
una crescita di “alloggi impropri”, da 23.000 a 70.000, ed un netto aumento
degli sfratti, oltre l’80% per morosità. Ma i 70.000 sfratti all’anno avvengono
ormai nella più completa assenza sia di offerta di edilizia sociale, sia di
soluzioni di emergenza. I comuni non possono fare in pratica più nulla.
Ormai, secondo dati regionali, in Lombardia solo il 5%
delle domande di assegnazione ha avuto successo nel 2004, con oltre 20.000
famiglie in attesa solo a Milano e poco meno di 1.000 alloggi disponibili. A Roma
va anche peggio: 40.000 famiglie e 200 assegnazioni all’anno.
Naturalmente non è possibile neppure immaginare di costruire
un welfare abitativo all’altezza della richiesta, o almeno decente, senza
mettere in campo robusti investimenti pubblici, e quindi anche senza che si
determini una forte domanda politica. Ma intanto si dovrebbe lavorare su una
efficace politica dell’affitto (anche utilizzando l’offerta privata), e su
politiche che offrano “grappoli di interventi” (p.105).
Casi più specifici e particolari trattati da Tosi sono
gli homeless, cui si aggiungono gli immigrati (spesso a loro volta homeless),
per i quali, a maggior ragione, sono necessari approcci multi-dimensionali e
multi-settoriali. Per quanto attiene a questa ultima categoria, i nuclei di cittadini
stranieri che vivono in Italia in case di proprietà sono stimati tra il 14 ed
il 23% (mentre gli italiani sono oltre il 70%), e quindi in affitto vivono
oltre il 70%, mentre solo il 18% degli italiani. Dunque i problemi abitativi
degli stranieri sono relativi in particolare alle difficoltà a rivolgersi al
mercato dell’affitto in un paese in cui l’offerta di affitto è relativamente
scarsa e quella a canoni contenuti estremamente scarsa.
Ci sono quindi maggiori incidenze di affitti
irregolari, affollamento abitativo, scarsa qualità. Nel complesso gli immigrati
abitano case più piccole, più affollate e degradate, e pagano affitti più alti.
Inoltre il 40% degli immigrati è a rischio di povertà e paga per la sistemazione
quote anormalmente alte del proprio reddito (anche oltre il 40%).
Quindi si ritrova la condizione di permanenza di
homelessness o di irregolarità, in caso di immigrati, che spesso si sommano e
sono entrambi in crescita. Chiaramente lo status legale riveste particolare
importanza nel determinare fenomeni di esclusione e di severo disagio
abitativo. Si arriva fino ad una condizione di destitution, ovvero di mancanza di mezzi per soddisfare anche i
bisogni di base come conseguenza di una politica di esclusione legale che
impedisce anche di accedere alle poche forme di assistenza esistenti e rende
anche impossibile migliorare la situazione.
Un insieme di problemi da affrontare a partire dalla
inversione della logica neoliberale: impegno in prima persona della funzione
pubblica, garanzia di terzietà; primato dell’offerta diretta di alloggi, di
qualità e caratteristiche adeguate, anche e soprattutto attraverso la
riqualificazione del parco edilizio esistente oggi scarsamente utilizzato e/o
degradato; destinazione di ingenti risorse pubbliche e di attenzione politica
continua, stabile, e centrale.
Porre la “questione
della casa”, oggi, significa necessariamente individuarla insieme alla “questione
ambientale” come rifunzionalizzazione e innalzamento della densità e dell’efficienza,
anche energetica ed ambientale ma anche sociale. Oltrepassare la risposta burocratica
propria della ‘città fordista’ (i ‘quartieri operai’)[4],
ma senza rivolgersi alle politiche neoliberali che hanno largamente fallito. Come
avevamo già scritto[5], bisognerebbe sperimentare
nuove soluzioni mettendo in comune le dimensioni dell’abitare e l’informazione
che si genera in essa, sfruttando le potenzialità nuove della ‘piattaforma
tecnologica’[6] in corso di consolidamento
e della transizione energetica[7],
mettendo in comune i propri fabbisogni energetici e il proprio tempo e
potenzialità di lavoro in comune. La capacità, spesso ignota, di svolgere
servizi gli uni verso gli altri, sulla base, ad esempio, di una unità di conto
e di scambio che potrebbe essere registrata sulla piattaforma stessa[8].
Un investimento di capitale pubblico diffuso capace di
diffondere nell’intera città ed il territorio piccoli nuclei di alloggi sociali
di diversa taglia e specializzazione, non emergenziali, ricavati dalla rifunzionalizzazione
del già costruito, ma strettamente connessi in rete, serviti da ‘comunità
energetiche cooperative’, ed attivanti pratiche sociali volontarie e forme di
messa in comune[9].
Come avevo già scritto, la questione della casa è anche una
questione sociale, è la questione
dell’inclusione sociale e del lavoro. Il capitale pubblico deve essere
impiegato quindi per riscattare e rifunzionalizzare edilizia esistente, in modo
diffuso, evitando concentrazioni e polarizzazioni (ma favorendo, al contrario,
l’integrazione e la messa in contatto di classi e ceti), operando sui valori
immobiliari e la dinamica delle rendite attraverso i fitti (calmierandola), e
rendendo occasione per integrare nella società le persone, attivandole e
sostenendole. Anche la tecnologia può essere occasione in tal senso,
intervenendo attraverso la creazione di piattaforme pubbliche (inizialmente
connesse con il progetto di inclusione e di attivazione dell’abitare, ma
successivamente aperte a tutti per potenziarne gli effetti). Queste piattaforme
dovrebbero essere ‘comunitarie’ ed essere la base sulla quale si condivide,
nella ‘rete delle case sociali’ e in quella generale, l’accesso all’energia, la
condivisione dei consumi, l’acquisto in comune e la messa a disposizione
reciproca di servizi su una rete di scambio.
Politiche multifattoriali
di inclusione potrebbero anche significare questo.
Ma, naturalmente, senza
spendervi capitale politico e risorse pubbliche nulla è possibile.
[1]
- Si veda, ad esempio, David Harvey, “L’esperienza
urbana”, e “Qualche
nota sulla rendita urbana e il consumo di suolo”.
[2] -
Le politiche scandinave nella fase socialdemocratica, e non più adesso, e la
Gran Bretagna nei soli anni cinquanta e sessanta.
[3] -
Kiran Patel “Il New Deal”,
la politica della casa fu avviata per risolvere
il problema dei senzatetto e soprattutto delle baracche nelle periferie delle
grandi città, però la tendenza del sistema a procedere per compromessi locali e
di venire a patti con le forze dell’impresa creò un cattivo compromesso tra
diffusione e qualità degli immobili (tenuta volutamente bassa per non fare
concorrenza alle case private, e quindi all’industria delle costruzioni) il
quale sul medio periodo compromisero l’autorità dello stato e furono adoperate
come argomento dalla propaganda neoliberale.
[4] - La questione della casa incrocia molte altre
questioni, essendo il risultato di una polarizzazione sociale ed economica che
è il prodotto della trasformazione della nostra società sotto la potente spinta
di una ‘piattaforma tecnologica’ altamente orientata al controllo. Rispondere
con un programma di edilizia popolare, sul vecchio modello dei quartieri
omogenei che facilmente si traducono in aree di marginalizzazione e nuove
periferie, è incompatibile con l’esigenza di avere una città più efficiente e
di proteggere l’ambiente naturale. Siamo usciti da tempo dalla fase della
crescita urbana, ed al contempo la vulnerabilità del territorio è arrivata a
livelli non più sopportabili.
Il criterio al quale sottoporre la nuova politica urbana deve essere di
arrestare il consumo di suolo e nello stesso momento ostacolare i processi di
formazione della rendita, facilmente colonizzabili dal modo di produzione della
finanza predatoria.
[5]
- Si veda “Questione
urbane e la politica della casa”.
[7]
- Si veda “La
sfida della transizione energetica”
[8]
- Sul modello concettuale della ‘Cooperativa dei baby sitter”, di cui parla
talvolta Paul Krugman nei suoi libri, es “Quando
l’economia ha un cuore”.
[9]
- Su piattaforme pubbliche in grado di fungere da marketplace e da centri di
erogazione di ‘beni come servizio’, ma anche di ‘banche del tempo’ e di ‘centrali
di acquisto’.
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