Questo libro del 1967, è stato scritto da un
economista dalla lunga ed interessante storia, dottoratosi a Chicago con Milton
Friedman e progressivamente spostato da posizioni liberal a radicali, e da
queste a posizioni socialiste rivoluzionarie negli anni sessanta e settanta.
Andre Frank, detto Gunder, si trasferisce in Cile all’inizio degli anni sessanta
ed appoggia sin dall’inizio l’azione politica di Allende, con il quale resterà
fino al golpe del ’73, quindi va in esilio e lavora nel quadro delle teorie sul
“Sistema Mondo”, fornendone alla fine una radicale versione che lo porta alla
rottura quasi totale con il suo ambiente. Sulla scorta di alcune posizioni di
Baran, Frank, insieme ad altri, sviluppa negli anni del libro una posizione
detta “teoria della dipendenza”,
secondo la quale non è la carenza, o mancanza, di capitalismo a determinare il
sottosviluppo del continente, ma proprio la sua presenza; è questa che
determina dipendenza dalle ‘metropoli’ in una gerarchia di centri di sviluppo e
connessioni che rendono il sottosviluppo altra faccia necessaria dello sviluppo
(rispettivamente delle ‘colonie’ e delle ‘metropoli’).
Questa tesi si contrappone frontalmente alla teoria
descritta compiutamente da Walt Witman Rostow[1] che
leggeva invece i processi di sviluppo lungo un percorso evoluzionistico e onnicomprensivo,
positivista, orientato alla “modernizzazione”. In conseguenza i paesi
economicamente deboli erano concepiti come ‘arretrati’ e per loro era prescritto
esclusivamente di superare alcuni vincoli contingenti per incamminarsi lungo la
stessa strada di quelli forti[2].
Si tratta di una posizione che ha notevoli impatti istituzionali e nelle relazioni internazionali, ad esempio il 20 gennaio 1949, Harry Truman, nel suo
discorso di insediamento, dice[3]:
“ci dobbiamo imbarcare in un programma
coraggioso per rendere disponibili i benefici del nostro avanzamento
scientifico e del nostro progresso industriale per favorire il miglioramento e
la crescita delle aree sottosviluppate. Più della metà di tutta la popolazione
mondiale vive in condizioni prossime alla miseria. Il loro vitto è inadeguato.
Sono vittime di malattie. La loro vita economica è primitiva e stagnante. La
loro povertà costituisce un handicap e una minaccia sia per loro che per le aree
più prospere. Per la prima volta nella storia, l’umanità possiede la conoscenza
e la capacità di alleviare le sofferenze di queste persone”.
L’accelerazione della ‘decolonizzazione’, promossa
dagli Usa anche allo scopo di sostituire con altri e più efficaci mezzi i
vecchi egemoni europei (Gran Bretagna e Francia in primis), determina l’avvio
di una nuova retorica dello ‘sviluppo’ e della pratica del “terzo” mondo[4].
La persistenza di questa impostazione dello ‘sviluppo’
è praticamente onnicomprensiva: si va dalle teorie economiche dello sviluppo[5]
alle ricostruzioni storiche[6],
ovviamente alle prescrizioni politiche. Un testo recente che ricostruisce questo
dibattito, anche se da un punto di vista liberale radicale (Hayekiano) è quello
di William Easterly[7], per il quale le teorie dello sviluppo sono viziate da
posizioni colonialiste che vedono il comune difetto di quello che chiama il
modello della ‘tabula rasa’[8].
La “teoria della
dipendenza” è anche ampiamente citata nel testo di Francis Fukuyama, “La fine della storia”, come quella
dottrina che ha ‘tenuto in vita’ il marxismo negli anni sessanta e settanta,
fornendo una “coerenza intellettuale alle rivendicazioni del sud povero del
mondo nei confronti del nord ricco e industrializzato”[9]. Radicando
la teoria già nello scritto di Lenin (ovviamente avrebbe potuto citare anche
Rosa Luxemburg), “L’imperialismo fase
suprema del capitalismo”, 1914, e nella ripresa che parte dall’opera dell’economista
argentino Raul Prebisch[10] (altri
esponenti rilevanti sono Celso Furtado, Hans Singer, Theotonio Dos Santos), che
individua uno ‘sviluppo dipendente’ del sud capace di determinare un legame
funzionale tra la povertà del sud e la ricchezza del nord. Nel testo Fukuyama
cerca di confutarla riportando il controesempio dello sviluppo, durante un
lungo arco di tempo che va dagli anni cinquanta ai novanta, dei paesi asiatici
(secondo il suo elenco Corea del Sud, Taiwan, Hong kong, Singapore, Malayasa e
Thailandia, cui dopo va aggiunta la Cina) che sarebbe dovuto al libero mercato.
Una tesi molto influente, contrastata ad esempio dall’economista coreano Ha-Joon
Chang, professore di ‘Economia dello
Sviluppo’ a Cambridge, che nei suoi fortunati libri[11] connette
lo sviluppo dei paesi convergenti proprio alla protezione, selettiva, dalla
insostenibile concorrenza e dall’influenza del capitale estero e alla
pianificazione[12] (alla “disconnessione”, ovviamente
selettiva, secondo il linguaggio di Frank e Amin).
Ma, anche se non per le deboli ragioni addotte dal
politologo Fukuyama e confutate dal ben più autorevole specialista Ha-Joon Chang[13], la
“teoria dello sviluppo” subisce un arretramento
concomitante con la vicenda centrale del Cile e con la successiva dissoluzione
del paradigma marxista.
Per avere una visione d’insieme di questo decisivo percorso
storico di affermazione e declino del ‘terzomondismo’[14],
nel quale la ‘teoria della dipendenza’ rappresenta la versione radicale
non-keynesiana, bisogna tenere presente che Gunder Frank si sforza di superare
le debolezze del desarrolismo (ovvero della strategia tecnica e politica della ‘industrializzazione
sostitutiva’ di Prebisch) che portavano nella loro applicazione pratica alla
necessità di riconoscere la funzione storica della borghesia, ed il suo carattere
incompleto, e a prescrivere quindi l’alleanza interclassista per la
modernizzazione. La tesi opposta, come vedremo, è che il surplus investibile
esiste nella ‘periferia’, ma viene drenato verso il centro ed in questo processo le borghesie nazionali si costituiscono e
riproducono come classe. Di qui la necessità del distacco e dell’autonomia
delle classi lavoratrici, ovvero della rivoluzione. La sperimentazione teorica
e pratica di questa ipotesi è spezzata dalle dittature militari (in Brasile,
Argentina, Bolivia, Uruguay, Nicaragua e Cile) in ognuna delle quali il ruolo
degli Usa è rilevante e decisivo.
Il caso centrale nella vicenda di Gunder Frank è
quello del Cile di Allende, ovvero di un tentativo di determinare uno sviluppo
autonomo e diretto dalle forze popolari attraverso una via democratica. Questa esperienza
socialista, alla quale il mondo guardava con interesse o timore, fu spezzata
dal boicottaggio interno delle borghesie e dalle organizzazioni internazionali,
e dalla interruzione degli investimenti esteri (che creavano una dipendenza non
facile da sostituire), oltre che la sospensione dei crediti. In queste condizioni
avviene il colpo di stato di Pinochet il 11 settembre 1973[15],
sul quale Frank scriverà: “la teoria e la
politica della dipendenza era veramente morta. Il generale Pinochet l’aveva
decapitata con la sua spada l’11 settembre 1973”.
E’ sulla base di questo fallimento pratico-teorico
(ovvero della dimostrazione di una impossibilità pratica), che successivamente
Andre Gunder Frank si avvicinerà alla “Scuola
del sistema-mondo” (con Wallerstein, Arrighi e Amin), dalla quale a partire
dal 2000 si allontanerà, estendendo ulteriormente una radicale critica
all’eurocentrismo e al suo evoluzionismo, e quindi ad ogni versione della ‘teoria degli stadi’ che transita dalla
cultura illuminista (Ferguson, Smith) anche in Marx, e soprattutto nella vulgata
marxista organizzata da Kautsky.
Seguiremo questo percorso teorico, e dinamica
politica, attraverso la lettura di tre testi, questo, “Capitalismo e sottosviluppo in America
Latina”, del 1967; il successivo “America Latina: sottosviluppo o rivoluzione”;
e il libro del 2004, che racchiude alcune ultime riflessioni, “Per una
storia orizzontale della globalizzazione”.
La questione centrale dei primi due, e la posta della
discussione, è se per superare il sottosviluppo si debba promuovere una
politica liberale ed interclassista, o se si debba disconnettere il sistema
locale dal capitalismo, e quindi seguire l’esempio cubano. O, in termini più
specifici, se il Sudamerica (Cile e Brasile nel libro) abbiano una economia
‘duale’, in parte arretrata perché feudale e sconnessa ed in parte avanzata
perché capitalista e connessa, ovvero abbiano una economia interamente
capitalista e per questo polarizzata
tra aree di sviluppo e di sottosviluppo nella catena di estrazione e
concentrazione del surplus.
Scrive, ad esempio, Frank:
“Al
contrario, tutto il Brasile, per quanto possa presentare caratteristiche
apparentemente feudali, deve la sua formazione e la sua natura attuali
all'espansione e allo sviluppo di un unico sistema mercantile-capitalistico che
abbraccia il mondo nella sua totalità (eccettuati oggi i paesi socialisti).
[...] E ciò che è più importante, dobbiamo cercare di capire la struttura reale
del capitalismo, non semplicemente alcuni aspetti e sintomi. Né si deve
confondere il sistema capitalistico solo con le sue manifestazioni nei settori
più sviluppati - o moderni, o razionali, o concorrenziali - delle metropoli
euro-americane o del Sao Paulo. Il capitalismo è sorto e si è sviluppato come
un unico sistema: il capitalismo 'brasiliano', o 'paulista', o 'americano' non
sono che settori di quest'unico sistema che abbraccia tutto il mondo. Questo
sistema capitalistico in ogni tempo e luogo - come lo obbliga la sua natura- ha
prodotto sia lo sviluppo che il sottosviluppo. Questo è il prodotto del
sistema, ed è altrettanto 'capitalistico' di quello. Il sottosviluppo del
Brasile è altrettanto congenito al sistema quanto lo sviluppo degli Stati
Uniti, il sottosviluppo del Nordest brasiliano non è meno legato al capitalismo
dello sviluppo del Sao Paulo. Lo sviluppo ed il sottosviluppo sono causa ed
effetto l'uno dell'altro nello sviluppo complessivo del capitalismo. Chiamare
'capitalistico' lo sviluppo, e attribuire il sottosviluppo al 'feudalesimo', è
un'interpretazione gravemente sbagliata, che porta a gravissimi errori
politici. Se il sottosviluppo e i mali attuali dell'agricoltura sono dovuti al
capitalismo, ben difficilmente possono essere eliminati 'estendendo'
ulteriormente il capitalismo. In questo caso è il capitalismo, non il
feudalesimo, che deve essere abolito.” (ivi., p.277).
Come legge Riccardo Evangelista[16], “la
ragione metodologica forse di maggior interesse nel pensiero di Frank, [è] rintracciabile
nella costante e forse mai superata tensione tra l’universale (il modo di
produzione capitalistico) e il particolare (il contesto in cui questo va
concretamente ad agire). Si può inoltre individuare proprio in questa relazione
tanto necessaria quanto conflittuale la contraddizione dialettica che rende il
sottosviluppo non una condizione originaria da cui partire, ma una situazione
sviluppata e quindi intimamente legata al sistema complessivo di cui è parte.
Volgarizzando, si potrebbe dire che non si nasce sottosviluppati, lo si diventa”.
Sia le istituzioni ed i rapporti economici e quindi politici, ma anche sociali
e persino culturali, che si osservano nel mondo ‘sottosviluppato’, sia quelle
che appaiono ‘più moderne’ delle metropoli nazionali (e della metropoli mondiale,
a maggior ragione), sono il prodotto le une delle altre nella loro reciproca
dialettica e nel loro sviluppo storico concreto. La tensione dialettica tra le
due parti necessarie di una relazione determina la contraddizione che istituisce
un conflitto intrinseco ed ineliminabile.
La relazione tra ‘metropoli’ e ‘satellite’, che, come
vedremo si presenta scalata in tutta l’estensione del sistema economico
mondiale, ed è letta con gli strumenti messi a disposizione da Paul Baran[17],
in particolare attraverso la nozione di surplus (e la distinzione tra surplus potenziale ed effettivo). Questa nozione che affonda nei classici (i fisiocratici,
Quesnay, e poi Smith, Ricardo), fa riferimento semplicemente al prodotto
sociale che rimane dopo che sono
stati reintegrate le dotazioni produttive necessarie alla generazione (lavoro e
riproduzione incluse[18]).
Ma per Baran solo il surplus effettivo
è osservabile in una data società concreta, il secondo è “la differenza tra il
prodotto che si potrebbe ottenere in un dato ambiente naturale e tecnologico
con le risorse produttive impiegabili, e ciò che si potrebbe considerare come
consumo indispensabile”[19]. Tra
sviluppo e sottosviluppo, individuabile come differenza maggiore o minore tra
surplus effettivo e potenziale, c’è quindi una relazione
dialettica in quanto i paesi che si sviluppano lo fanno nella misura in cui
drenano il potenziale di quelli che, per questo, restano ‘sottosviluppati’.
Nel dettaglio ci sono all’opera quattro meccanismi per
Baran:
1-
L’azione della borghesia parassitaria (‘compradora’) che
si organizza intorno al settore primario nei paesi periferici (anche se questa
analisi va aggiornata nell’epoca successiva, quando il dominio passa dalla
trasformazione delle materie prime al controllo di tecnologia ed informazione[20]),
e ad intermediari delle esportazioni, grossisti, mediatori finanziari, che
intercettano il flusso del surplus canalizzato verso la gerarchia dei centri ‘metropolitani’
e ne utilizzano parte molto rilevante per acquistare beni di lusso importati[21];
2-
Le industrie monopolistiche interne, che sono in relazione di dipendenza dal capitale
estero, e fungono, tramite il pagamento dei ‘servizi’ del debito e delle
parcelle di mediazione, da estrattore di ingenti capitali locali;
3-
L’iniziativa delle imprese multinazionali, che sono responsabili del rimpatrio della maggior
parte dei profitti e che, grazie alla maggiore dotazione di capitale e l’alleanza
politica con le borghesie ‘compradore’, si impossessano delle attività più
remunerative, intercettando all’origine la possibilità di formazione del
risparmio;
4-
Le stesse royalties
pagate da queste ultime, che sono fonte di corruzione politica e di consumi di
lusso.
In base ad un approccio rigorosamente dialettico,
Frank sostiene che nel caso concreto dell’America Latina la borghesia ‘compradora’,
il capitale monopolistico e gli investimenti esteri, e le classi dirigenti
asservite e parassitarie sono parte interdipendente
di una totalità. E sono nel loro
insieme espressione del modo di produzione allargato (necessariamente) alla
scala mondiale attraverso il quale si dà l’accumulazione del capitale.
Accumulazione nella sua essenza e di necessità
ineguale.
Senza tenere nel dovuto conto questa struttura integrata,
come ricorda anche Amin[22]
in un contesto prevalentemente africano, cercare di modernizzare una sola
componente (ad esempio l’agricoltura, immaginata erroneamente come rivolta alla
sussistenza), va incontro necessariamente al fallimento, risolvendosi solo in
aumento della disoccupazione e del potere delle élite (sia interne che
esterne).
In una vasta polemica, che coinvolge anche altri
autori progressisti, marxisti e non (ad esempio Laclau[23]),
Gunder Frank, sulla base di questa coerente posizione teorica, dichiara essere
il presunto feudalesimo dei paesi ‘sottosviluppati’ un vero e proprio mito che
occulta un sistema di dominio che, al contrario, si nutre proprio di
connessione e non è meno ‘moderno’ al centro di quanto lo sia nella ‘periferia’.
Invece, come scrive all’avvio del libro, le contraddizioni
dell’espropriazione/appropriazione e della polarizzazione metropoli/satellite “penetrano, come una catena, il mondo
sottosviluppato nella sua totalità, creando una struttura di sottosviluppo ‘interna’”.
Per questo motivo sono criticate dall’autore sia le posizioni ‘nazionaliste’,
sia e soprattutto l’alleanza interclassista che in tale occasione si rende
necessaria. Di qui, non a caso, la polemica con Laclau[24]. Il
sottosviluppo non è questione ‘esterna’, non si tratta di essere sfruttati da
fuori, e non è questione principalmente di ‘fughe di capitali’, ma è “interno/esterno”,
è una “struttura” che, questa, va integralmente distrutta e sostituita con una
dimensione socialista di sviluppo.
La vera questione che si pone, criticando gli approcci
‘dualisti’, e la teoria degli ‘stadi di sviluppo’ che vi è implicata, è quindi politica. Si tratta di opporre
ad una posizione riformista, giudicata inefficace, una prospettiva
rivoluzionaria che in quegli anni guardava alla ‘gloriosa esperienza cubana’.
Nella prima parte del volume, dedicata al Cile, il
sottosviluppo è inquadrato, con ampie ricostruzioni storiche, come necessaria
conseguenza di quattro secoli di sviluppo capitalistico e delle contraddizioni
interne allo stesso; la necessaria conseguenza, cioè, di una economia aperta ed
interconnessa, rivolta all’esportazione (p.29). In conseguenza, è la tesi della
disconnessione alla quale Frank ed Amin lavoreranno a lungo, “se è la
condizione di satellite che genera arretratezza, allora un legame più debole e
meno efficace tra metropoli e satellite può provocare un sottosviluppo
strutturale meno profondo e/o permettere maggiori possibilità di sviluppo
locale” (p.36).
Nello sviluppo storico dal primo sistema mercantilistico,
sul quale si impostano dal XV secolo in poi le economie coloniali sudamericane,
al sistema industriale e finanziario degli anni in cui scrive, la medesima
struttura si estende dai “centri macrometropolitani” giù, fino agli ultimi
lavoratori agricoli più ‘isolati’. La funzione strategica è comunque detenuta dal
settore delle esportazioni che è di fatto strettamente collegato da interessi
stranieri e tramite il quale il surplus economico è “attirato verso l’alto”
(p.45). Quindi in Cile si avvia con l’esportazione dell’oro (che determina l’accumulazione
originaria sulla quale, come evidenzierà negli ultimi interventi, prende l’avvio
il capitalismo ed il dominio occidentale), e poi produzioni agricole di
esportazioni, grazie alla creazione di strutture agricole fondate su latifondi
ed orientate alle esportazioni (p. 73).
In questa ricostruzione si nota che nelle fasi di crisi
e contrazione della metropoli, i satelliti attraversano una fase di espansione,
mentre quando le congiunture sono favorevoli, le accresciute relazioni ed i
flussi di capitali determinano, al contrario, ristagno nei satelliti. Solo nel XIX
secolo il Cile tenta uno sviluppo autonomo, ma fallisce, rimanendo nella sostanza
un’economia di esportazione. Ogni forma di parziale sviluppo economico, data l’estrazione
continua di ricchezza che defluisce verso il centro metropolitano, avviene
inasprendo in modo più marcato l’estrazione verso le periferie interne.
Ora, per Gunder Frank, è proprio guardando al consenso
che ha quello che chiama l’ordinamento monopolistico detto ‘libero scambio’,
che si identificano gli alleati nelle ‘metropoli periferiche’ della ‘metropoli
capitalista’ di volta in volta dominante e si capisce perché, come scrive, “per
far passare il Cile dal sottosviluppo allo sviluppo è necessaria una
trasformazione strutturale molto più profonda della sola deviazione da uno
sviluppo capitalistico orientato verso l’esterno a uno orientato verso l’interno”
(p.101), ciò perché a tutti i livelli e le scale il sistema capitalistico si
sviluppa al prezzo del sottosviluppo, ne è mai un problema di isolamento, tanto
meno ‘culturale’, o di insufficiente integrazione.
La stessa analisi viene condotta, con ricostruzione
storica parallela, per il Brasile. Anche qui il sottosviluppo è il risultato
dello sviluppo capitalistico, ed anche le isole di sviluppo interno (l’area di Sao
Paulo, ad esempio) lo sono. Ci sono, dunque, una metropoli mondiale,
rappresentata dagli Stati Uniti, e dei satelliti interni a questa (sia etnici
sia geografici), e dei satelliti internazionali, come la regione del Sao Paulo,
che, ad una diversa scala, sono metropoli per una gerarchia di metropoli
provinciali come Recife, Belo Horizonte, e a loro volta satelliti regionali,
locali, e via dicendo…
Questa concettualizzazione ha qualche somiglianza con
gli “studi regionali”, secondo la lezione di Francois Perroux (citato dal nostro,
sia pure di sfuggita), basata sullo squilibrio. Una dimensione dalla quale è
fortemente debitrice la prospettiva del grande libro del 1973 di Samir Amin, “Lo sviluppo ineguale”[25].
Anche nell’area portoghese che interessa il Brasile,
si attivano dinamiche del tutto simili, la colonizzazione avviene su una base
mercantilista che non ha nulla di feudale, inizialmente si produce e si esporta
oro e poi zucchero. Qualcosa cambia quando il Portogallo, l’egemone, diventa
una periferia della Gran Bretagna ed è costretta, dal “libero mercato”, ad
abbandonare l’industrializzazione, travolta dalle merci inglesi, per “specializzarsi”
nella produzione e vendita di vino. Questa riduzione a produttore di Porto è
letto da David Ricardo, ovvero dalla voce dell’industria di esportazione
britannica, come “legge dei costi comparati”[26]. Né
aiuta il modesto sviluppo industriale, del tutto subalterno al monopolio poi
definito dal Trattato con la Gran Bretagna.
Se, come ammetteva anche Perroux, quando una impresa
svolge una dominazione monopolistica su imprese subalterne ed uno spazio,
riesce a “imporre ai fornitori un prezzo di acquisto dei propri input inferiore
ai prezzi di mercato”; il prezzo, è, insomma, nella pratica sempre effetto di
un rapporto di forza e resta mal descritto secondo l’immagine del ‘libero accordo’.
Quando i rapporti di forza si attenuano, ad esempio
dopo il crollo del ’29, una minore capacità di imporre prezzi che estraggano la
massima quota di valore, determinano anche qui una fase di sviluppo autonomo
che, però, non dura molto e termina definitivamente con la Guerra di Corea e la
piena affermazione dell’egemone statunitense.
Ma quelli geografici, o “coloniali”, non sono gli
unici squilibri, ci sono anche gli squilibri di classe. Cosa che rende comunque,
anche nelle “metropoli”, la presenza di aree di estrazione del surplus interne.
Ovvero di “periferie” interne. Sono all’opera numerosi meccanismi di trasferimento
del ‘surplus’:
a)
L’investimento
privato nazionale ed estero che si concentra nella metropoli nazionale,
b)
L’investimento
pubblico che si concentra nella stessa,
c)
La struttura fiscale
regressiva,
d)
Ragioni di
scambio sbilanciate, che vanno a svantaggio dei satelliti[27]
e)
Trasferimenti di
capitali
f)
Trasferimenti di ‘capitali
umani’ dai satelliti, che hanno investito nella formazione, al centro
metropolitano che ne utilizza i servizi
g)
Tariffe e servizi
più o meno nascosti.
In questo quadro la strategia della ‘sostituzione delle esportazioni’, oltre
a danneggiare gli interessi della borghesia che ricicla il surplus trattenuto
in beni di lusso di importazione (che diventano più cari per effetto delle tariffe
protettive di rappresaglia), ha poco spazio per determinarsi, in quanto la
domanda interna è debole, la produzione di beni intermedi (macchine produttive
in primis) resta demandata alle importazioni e insieme ai capitali esteri
necessari, reitera la dipendenza.
È dunque il
capitalismo a dover essere abolito
(p.277).
Certo, una simile posizione ha il pregio della
coerenza, ma il difetto della rigidezza.
Nel 1978 Albert Hirschman, ad esempio, sostiene in un articolo[28]
che la via di fuga immaginata in quegli anni, nella rivoluzione socialista di
tipo cubano, sia espressione di una sorta di funzionalismo e difetti di
eccessiva fretta. Ovvero della ricerca di un ‘deux ex machina’ esterno:
“Numerosi teorici della
dipendenza […] tendono ad accontentarsi della dimostrazione che i rapporti di dipendenza
sono profondamente radicati nella struttura del sistema internazionale, e non
provano praticamente mai ad indagare se tale sistema possa per avventura
contenere i «germi della propria distruzione», o comunque andar soggetto a
mutamenti. Se invocano la rivoluzione, è, di nuovo, a mo’ di deus ex machina, e
non già perché abbiano individuato una qualche forza emergente capace di
concretare l’evento desiderato”.
La critica di Hirschman colpisce un punto, del resto in
linea con la stessa autocritica dello stesso Gunder Frank, come vedremo nei
suoi interventi all’inizio di questo secolo. L’asimmetria nei rapporti tra
paesi di diversa capacità e potere, è, sotto certi profili, normale. Una
specializzazione subalterna, su segmenti di minore valore aggiunto e nei quali
è maggiore la concorrenza, la tendenza a ridurre l’ampiezza delle attività solo
a poche e queste in condizioni di essere sottopagate da acquirenti che si
trovano di fatto in posizione vicina al monopsonio[29],
la debolezza nella posizione di acquisto, che induce a sovrapagare servizi e
beni per i quali vigono monopoli di vendita (ovvero, nel loro insieme, cattive “ragioni
di scambio”), determinano condizioni strutturali di sottosviluppo che sono
esattamente le stesse condizioni che causano lo sviluppo dei “centri” (o delle “metropoli”,
secondo il linguaggio di Frank).
Ma questa corretta analisi non riesce ad indicare una
direzione di lavoro, che non sia solo il completo, quanto improbabile, ‘rovesciamento’
d’un sol colpo del sistema complessivo mondiale. La strada di distaccarsi,
senza costruire un impossibile compromesso con le borghesie ‘compradore’
nazionali, ma sconfiggendole insieme alle loro controparti ‘imperiali’, è
fallito a Santiago del Cile quando la Moneda è stata bombardata.
C’è dunque un rapporto di dominio e dipendenza che
resiste, a volte a qualsiasi prezzo, ad essere interrotto. E che affonda le sue
radici non esternamente al sistema condotto al sottosviluppo da questo, ma in
un sistema totale fortemente intrecciato con i capitali locali e le borghesie
che di questi vivono e si riproducono. Ma ci sono anche forze, e non solo
popolari, che avrebbero più da guadagnare da migliori ‘ragioni di scambio’, di
quanto avrebbero da perdere (anche se qualche bene di lusso per un periodo
costasse di più). Possono essere individuate delle ‘controtendenze’.
Appunto “possono”.
Qui giocava le proprie carte un vecchio avversario,
Ernesto Laclau[30].
[1]
- Walt Witman Rostow, “Gli stadi dello sviluppo economico”,
1960. Consigliere Economico durante le amministrazioni democratiche di Kennedy
e Lhonson, durante gli anni cinquanta scrive una serie di articoli in
preparazione del suo “Manifesto non comunista” del 1960. L’intero orizzonte
della proposta è da individuare nella contrapposizione all’economia pianificata
sovietica ed al ‘socialismo reale’, e volta a dimostrare che il pieno
dispiegarsi delle forze di mercato era sufficiente e necessario per raggiungere
una crescita stabile e duratura. La teoria di Rostow, riprendendo temi ben
presenti nella radice del pensiero liberale, individua cinque fasi di sviluppo
economico lungo un percorso necessario e quindi lineare, anche se non pacifico
e non privo di tensioni, di mutamento sociale il cui obiettivo è il medesimo
livello di sviluppo e tipo di società dell’occidente “sviluppato”. L asocietà è
vista come un meccanismo (anziché come organismo o processo) nel quale ogni
cambiamento è frutto del precedente e condizione del successivo. Gli stadi
sono: la società “tradizionale”, statica, senza surplus, chiusa e non
innovativa; la società “newtoniana”, nella quale l’aumento della velocità nei
trasporti, riforme agricole in grado di stimolare la produttività, una
finanziarizzazione che funga da lubrificante per scambi economici altrimenti
lenti e limitati, spingono la società verso il progresso tecnologico; la fase
del “take-off”, nel quale il capitalismo, fattosi finalmente ‘sistema’,
determina fenomeni di rafforzamento reciproco; il quarto stadio è della “maturità”,
in cui si consolidano i risultati; e della “società dei consumi”, in cui su
allargano a tutti i benefici. Per citare un costante bersaglio polemico di Frank,
è un “Prometeo liberato” (Landers,
1969), una volta rotto il guscio della tradizione viene aperta la strada verso
la modernità capitalistica con una velocità inversamente proporzionale alle
resistenze dei gruppi legati al passato. Si veda, Andrea Evangelista, “Lo
sviluppo del sottisviluppo nel pensiero di Andre Gunder Frank”.
[2] -
Del resto è una teoria con profonde radici nell’illuminismo ed espressa ai massimi
livelli costantemente.
[3] - Harry S. Truman, “Discorso inaugurale”, in “A Decade of American Policy”, US
Government Printing Office, Washington, 1950
[4] “Terzo”
perché non appartenente al “primo” mondo libero e sviluppato e neppure al “secondo”
mondo, socialista. Dunque il “terzo” mondo è l’oggetto di una lotta ideologica ed
egemonica che interessa l’intero periodo della ‘guerra fredda’ e che va tenuto
presente come sfondo storico di ogni discorso.
[5]
- Es. Harrod-Domar (1939-57), secondo i quali l’intervento dello Stato è necessario
per promuovere e direzionare gli investimenti per risolvere il problema di
bassi tassi di risparmio e produttività (Y=C+S). Oppure Solow, per il quale l’unico
elemento in grado di modificare qualitativamente tale composizione è di tipo esogeno,
come per esempio l’utilizzo di nuove tecniche produttive, indotto da un
cambiamento dei prezzi relativi dei fattori produttivi. Infine Lewis (1954) che
vede le economie arretrate caratterizzate dalla presenza contemporanea di due
settori in contrapposizione: uno agricolo, retto da metodi tradizionali, e uno
industriale tecnologicamente avanzato. e. Lo sviluppo può iniziare allora solo
con un aumento di domanda nel settore industriale, stimolata ad esempio dallo
stato anche con risorse estere, che attira gli agricoltori nelle città e allo
stesso tempo non intacca la produzione agricola dal momento che esiste una
disoccupazione nascosta. L’aumento numerico dei lavoratori da impiegare nell’industria
provoca una diminuzione nei livelli salariali e quindi un aumento dei profitti
che possono essere reinvestimenti nella produzione industriale, in modo da far
continuare il ciclo di trasferimento dal settore tradizionale a quello moderno
fino alla condizione di equilibrio, alimentando in questo modo la crescita.
[6]
- Come quella, molto influente, di Landers.
[7]
- William Easterly, “La
tirannia degli esperti”, 2013.
[8]
- Modello che fa risalire non al discorso di Truman, ma alla posizione assunta
da Wilson nel 1919, alla Lega delle
Nazioni. La teoria della tabula rasa presume che le differenze individuali
tra i diversi paesi siano meno rilevanti del sentiero di sviluppo comune che la
pianificazione, guidata dagli esperti, può imboccare. Svolgono un ruolo
rilevante in questa storia i tentativi di sviluppo tecnocratico, fortemente
eterodiretto, di Chiang Kai-Shek e dei suoi consiglieri economici Fong e Franklin
Ho, che presupponevano lo sviluppo pesante e la pianificazione triennale. E
svolgono un ruolo rilevante le fondazioni americane, come l’IPR e la Rockfeller
Foundation, sin dagli anni venti.
[9]
- Francis Fukuyama, “La fine della storia”,
1992, p.118
[10] -
Si veda Raul Prebisch, “Crecimiento,
desequilibrio y disparidades: interpretación del proceso de desarrollo económico” (1950), in italiano
“La
crisi dello sviluppo argentino”. E’ con Hans Singer il creatore della
tesi della ‘sostituzione delle importazioni’, per la ragione che il deterioramento
continuo delle ragioni di scambio delle economie
primarie, normalmente periferiche, è conseguenza del fatto che la domanda di
prodotti manufatti cresce molto più rapidamente di quella delle materie
prime.
[11]
- Partendo la primo: “Cattivi
samaritani. Il mito del libero mercato e l’economia mondiale”, 2007.
[12] - I principi del cosiddetto “libero mercato”, come la bassa inflazione,
l’intervento minimo dello Stato, la libertà d’impresa privata, il libero
scambio e l’apertura ai capitali stranieri, sono infatti fortemente voluti da
quella che l’autore (che la conosce da dentro) chiama “una potente macchina
propagandistica, un meccanismo finanziario-intellettuale sostenuto da denaro e
potere”. Questa “potente macchina” cerca di far passare l’idea che tutta la
crescita degli ultimi anni (la Corea ha moltiplicato per 14 il reddito
pro-capite in cinquanta anni, viaggiando alla velocità media quattro volte
superiore a quella Inglese storica) sia dipesa dall’applicazione di questi
principi. Ma ciò che è successo, invece, è che l’economia è stata
strettamente regolata; le imprese nuove furono protette con dazi,
finanziamenti, informazioni, spionaggio, furto di proprietà intellettuale (cioè
rifiuto di perseguirlo), aiuti dalle banche che erano tutte pubbliche, azione
diretta di imprese pubbliche, controllo assoluto della valuta (fino alla pena
di morte).
Allora come
si spiega che questa predicazione del libero mercato sia così totale? La spiegazione di Chang è semplice, e non è
nuova: Friederich List, nel 1841, disse che la Gran
Bretagna, cresciuta attraverso politiche industriali aggressive, protezioni
selettive, furto di tecnologie e brevetti, ed altro che vedremo, una volta
raggiunta la supremazia “ha [semplicemente] dato un calcio alla scala”, in modo
che nessuno la potesse raggiungere. Il libero commercio (imposto in vari modi)
in posizione di vantaggio costringe infatti gli altri paesi a specializzarsi nei
settori in cui non competono, quelli a basso valore aggiunto; lasciando alla
furba potenza dominante tutti i mercati più redditizi.
Il
meccanismo economico è semplice ed efficace. In condizioni di libera
circolazione, e senza protezione la maggiore produttività di chi ha un maggiore
grado di sviluppo è insostenibile per chi non lo ha. Dunque l’entrare in
contatto senza protezioni lo mette fuori mercato e lo costringe ad applicare i
propri fattori produttivi ai settori meno esposti. Ma si tratta di settori che,
per il fatto di essere stati abbandonati o non scelti, sono sempre quelli meno
redditivi. Lo squilibrio quindi si consolida.
L’autore
chiama chi suggerisce queste strategie <cattivi samaritani>, perché si
approfittano di chi è in difficoltà invece di aiutarli. Gli esempi,
anche tratti dalla storia del liberalismo britannico a senso unico sono
numerosi e convincenti.
[13]
- Peraltro attaccate anche da un altro grande economista come Dani Rodrik.
[14]
- Chiamiamo con questo nome collettivo le teorizzazioni della ‘periferia’ (Prebisch
e Singer), della ‘dipendenza’ (Dos Santos), dello ‘scambio ineguale’
(Emmanuel), dello ‘sviluppo del sottosviluppo’ (Frank), della accumulazione
mondiale (Amin).
[15]
- Sul quale si veda “11
settembre 1973, Allende e le sue conseguenze”.
[16]
- Paper, cit.
[17]
- In particolare “The political economy of growth”,
1957, e con Paul Sweezy, “La teoria dello sviluppo capitalistico”,
1942, e insieme “Il capitale monopolistico”, 1962.
[18]
- Ovvero riproduzione allargata della forza lavoro inclusa, quindi sostegno
della vita e dell’esistenza del lavoratore e della sua famiglia.
[19]
- Baran, “Il surplus economico e la teoria marxista dello
sviluppo”, p.35
[20]
- Per questa analisi si veda sia Gunder Frank nelle analisi più recenti di cui
daremo conto in seguito, sia Amin nei testi degli anni novanta che abbiamo già
letto.
[21]
- Per entrambi i motivi (esportare il surplus, trattenendone un premio di intermediazione,
e importare beni di lusso) le borghesie ‘compradore’ sono normalmente orientate
al ‘libero commercio’, dal quale dipende la loro posizione sociale.
[22]
- Si veda il libro quasi contemporaneo “Lo
sviluppo ineguale”, del 1973, ed il libro del 1999 “Oltre
la mondializzazione”.
[23]
- Si veda Ernesto Laclau, “Feudalism
and capitalism in Latin Ametica”.
[24]
- Per una lettura del libro principale della maturità di Ernesto Laclau, ormai
completamente su posizioni post-marxiste, si veda “La
ragione populista”, del 2005.
[25] - Si veda, Samir Amin, “Lo
sviluppo ineguale”, 1973. Nell’analisi geografica gravitazionale di
Perroux il punto è che pur in un quadro teorico
neoclassico, è da individuare una nozione di spazio come campo di forze sia
centriptete che centrifughe, che determinano attrazione e repulsione degli
attori economici (qui imprese) verso alcuni luoghi anziché altri; si generano
in questo modo dei “poli di crescita” dai quali si origina lo sviluppo
economico in quanto sede di “attività motrici”. L’impresa motrice esercita una dominazione, sia sulle
imprese connesse, sia sullo spazio regionale coinvolto, in funzione della sua
capacità innovativa (letta in senso schumpeteriano), cioè, dice Perroux della
forza “di imporre ai fornitori un prezzo di acquisto dei propri input
inferiore ai prezzi di mercato”. Questa osservazione teorica è fatta
propria e utilizzata sistematicamente da Amin, per spiegare lo sviluppo
ineguale nel quale sono intrappolate le periferie del mondo.
[26]
O, con le gustose parole di Frank: “Ricardo nel 1817 ebbe la temerarietà di
interpretare come legge dei ‘costi comparati’” questa riduzione a colonia del
Portogallo.
[27] - Questa parte della teoria,
comune anche a normali teorie ‘borghesi’, è piuttosto ovvia, il prezzo tra due
beni (o di un bene e di un altro rispetto ad una unità di misura comune, ad
esempio il denaro internazionalmente accettato come il dollaro) è relativo ai
rapporti di forza che si determinano sul “mercato”, e che dipendono da
molteplici fattori non tutti economici. Ad esempio, se un paese ha un surplus
di vino, essendosi specializzato solo in tale produzione di esportazione,
poniamo di Porto, e l’unico grande mercato “libero”, nel quale può vendere il
prodotto è la Gran Bretagna, dovrà accettare il prezzo determinato dai
grossisti anglosassoni, detentori del monopolio di accesso al mercato, anche se
è di poco superiore al suo prezzo di produzione, l’alternativa è riempire i
magazzini e non avere la moneta per comprare, al prezzo anche qui determinato
dai commercianti esteri, in quando detentori di un monopsonio (sostenuto da Trattati
e, se del caso, cannoniere), e sul limite della loro capacità di spesa. L’effetto
è che un paese a sovranità molto limitata (avendola perso sui campi di
battaglia), progressivamente si impoverisce. Tutto questo scompare nelle
formule semplificate, potenza della matematica, e nelle alate parole di David Ricardo.
L’ipotesi, fondativa della disciplina economica internazionale, che il ‘libero
scambio’ sia sempre a vantaggio reciproco, è, per usare le
parole di Keen “una fallacia fondata su una fantasia”. Questa teoria ignora direttamente la realtà, nota a
chiunque, che quando la concorrenza estera riduce la redditività di una data
industria il capitale in essa impiegato non può essere “trasformato”
magicamente in una pari quantità di capitale impiegato in un altro settore.
Normalmente invece “va in ruggine”. Insomma, questo piccolo apologo morale di
Ricardo è come la maggior parte della teoria economica convenzionale: “ordinata,
plausibile e sbagliata”. E’, come scrive Keane “il prodotto del pensiero
da poltrona di persone che non hanno mai messo piede nelle fabbriche che le
loro teorie economiche hanno trasformato in mucchi di ruggine”.
[28]
- Albert Hirschman, “Oltre l’asimmetria: osservazioni critiche su me stesso da
giovane e su alcuni vecchi amici”, 1978, in in A. Hirschman, “Ascesa e
declino dell’economia dello sviluppo”, a cura di A. Ginzburg, Rosenberg&Sellier,
Torino, 1983, pp. 149-156
[29]
- Si chiama “monopsonio”, un monopolio di
acquisto. Ovvero una situazione di mercato
caratterizzata dall'accentramento della domanda da parte di un solo soggetto
economico e dall'impossibilità per altri acquirenti di entrare sul mercato.
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