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domenica 10 marzo 2019

Circa: Fabrizio Marchi, “Patria e Costituzione, luci ed ombre”. La questione dell’immigrazione.



Dice il mio amico Fabrizio Marchi in relazione al tema dell’immigrazione, in un editoriale su “L'interferenza che commenta il Manifesto per la Sovranità Costituzionale, che ‘la verità rende liberi’, o, ‘è rivoluzionaria’, e che quindi essa va affermata “anche a costo di rompersi la testa”. E che questa ‘verità’ è che le politiche imperialiste, colonialiste e neocolonialiste determinano il fenomeno dell’emigrazione, che, a sua volta, funge da ‘esercito industriale di riserva’ ed esercita pressione sulle condizioni di vita dei lavoratori tutti. Ne conclude che mentre, per un quindicennio, si sviluppano politiche anti-colonialiste (che indica), nessuna regolazione dell'immigrazione è possibile. In realtà neppure dopo, in quanto se il continente africano si sviluppa, lasciato libero dal secolare saccheggio occidentale, i flussi diventeranno fisiologici.

Leggo una profonda vena religiosa in questa posizione, una vena che rispetto in sommo grado, naturalmente. Ma il punto è che non credo che ‘rompersi la testa’ sia progressivo, che sia utile, che determini l’emancipazione dei subalterni. E non credo neppure che quella descritta da Fabrizio sia la ‘verità’.
D’altra parte io non credo neppure che il punto sia “recuperare un rapporto con le massi popolari”. Intendiamoci, questo rapporto va recuperato, e per questo serve, tra l’altro, anche avere una testa sana. Ma il punto non è questo: è determinare le condizioni perché le masse popolari siano in grado di emanciparsi.

Foto di Gabriele Pasutto


Allora quale è la ‘verità’? L’immigrazione, come l’emigrazione, è un effetto di un meccanismo autorafforzante che si alimenta per logica immanente, e non per costrizione esterna. E’ la centralità, nel modo di produzione capitalista imperniato sull’accumulazione flessibile[1], di rapporti ineguali di dominazione governati internamente dalla logica ferrea della concorrenza[2] che attraversano interamente tutto il sistema internazionale, che aspira costantemente verso il ‘centro’ dalle ‘periferie’ forza-lavoro[3] debole e ricattabile. Sono i rapporti di forza che catturano indifferentemente portatori di forza-lavoro locali e immigrati, e che costantemente ne espellono, ad essere la causa del fenomeno. Esso non è in sé portatore di alcuna differenza rispetto alla competizione tra forza-lavoro, e quindi tra lavoratori, nazionale.
In effetti il neo-colonialismo è una etichetta semplificata che mettiamo verso questo processo di generazione e sfruttamento della debolezza dove si vede meglio: nei paesi meno capaci di opporre allo sfruttamento capitalista la logica dell’interesse pubblico, per debolezza relativa delle loro forme statuali e per ‘cattura’ particolarmente pronunciata delle élite “compradore”[4]. Ma è una semplificazione: le contraddizioni dell’espropriazione/appropriazione e della polarizzazione metropoli/satellite “penetrano, come una catena, il mondo sottosviluppato nella sua totalità, creando una struttura di sottosviluppo ‘interna’”[5]. Il sottosviluppo, africano come quello del sud Italia, ma anche quello delle periferie di Milano, non è questione geograficamente ‘esterna’, non si tratta di essere sfruttati da fuori, e non è questione principalmente di ‘fughe di capitali’ o di ‘uomini’ (anche se entrambe hanno molto a che fare), ma è “interno/esterno”, è una “struttura” che, questa, va integralmente distrutta e sostituita con una dimensione socialista di sviluppo[6].

E’ chiaro che l’agenda di Fabrizio Marchi non per questo va abbandonata, bisogna fare tutto. E cercare di ostacolare, riducendo le interdipendenze estrattive[7], la sottrazione di:
·       Risorse finanziarie (attraverso in particolare la meccanica del debito, e i suoi agenti che sono in prima battuta i grandi attori privati del credito e in seconda, ma decisiva, gli organismi posti a guardia della liquidità internazionale);
·       Risorse reali (ovvero materie prime e prodotti intermedi i cui prezzi sono determinati nel quadro dei rapporti di forza complessivi e risultano strutturalmente dominati dai processi di produzione industriali cui servono);
·       Risorse umane (cioè persone fisiche viventi in età di produrre lavoro che come sottolinea anche Stiglitz, producono con la loro uscita lo “svuotamento” della capacità locale).


Se quel che però si coltiva, e si rende visibile in modo evidente, attraverso il fenomeno della immigrazione (e della emigrazione) è lo “sviluppo del sottosviluppo”, per usare il bel concetto di Andre Gunder Frank, allora bisogna capire che questo ci riguarda molto più profondamente della mera questione, pur importante, di “politica estera”. Queste politiche partono direttamente nelle nostre fabbriche, sono mosse dalla debolezza del nostro capitalismo e dal suo inserimento in catene del valore che pretendono di estrarre sempre più surplus, o plus-valore, dalla forza-lavoro impiegata. Non è immaginabile lasciar andare il meccanismo di sostituzione costante ed accelerato di deboli con più deboli (da sottoporre a saggi di sfruttamento crescenti, aggravati dalla legge vigente), nell’attesa che la politica estera ribilanci i rapporti mondiali. Quel che si otterrebbe è solo che, mentre fantasticamente in quindici anni le politiche imperialiste brutali vengono allentate (in un paese solo, mentre gli altri continuano in quanto è proprio del sistema capitalistico generare periferie subalterne), il nostro sistema produttivo, per competere, continuerebbe ad attrarre ed aspirare disperati e di collocarli in modo subalterno entro le nostre catene del valore. Qualunque politica estera ne verrebbe travolta.
Inoltre continuerebbe ad espellere persone, portatrici di forza-lavoro deprezzata in quanto non competitiva, che, potendo votare, reagirebbero in modo del tutto razionale chiedendo protezione alla destra.

La testa ce la romperemmo, e, cosa più grave, saremmo oggettivamente complici dell’approfondirsi costante e continuo dello sfruttamento.



Cosa fare allora? Il concetto centrale è che l’accoglienza, per essere davvero tale, deve essere sempre condotta in reali condizioni di possibilità e senza tradursi direttamente in una pressione allo sfruttamento degli immigrati e/o dei cittadini più deboli per opera del mercato lasciato a se stesso[8].

Il punto dal quale far partire il rovesciamento del sistema di sfruttamento ineguale che da ogni luogo centrale si allarga ai luoghi che definisce come periferici, è che bisogna usare la logica dell’interesse pubblico, di ciò che ci dobbiamo l’un l’altro come uguali, per disinnescare gli effetti distruttivi della logica della competizione. Il capitale pubblico non deve essere mobilitato solo per compensare i paesi esteri dell’estrazione ineguale di risorse, e del degrado delle loro ‘ragioni di scambio[9], ma deve essere mobilitato per garantire reddito indiretto, livello di dignità, e condizioni di capacitazione, eguali per tutti coloro che sono comunque messi in contatto reciproco dal mercato. In altre parole le condizioni del welfare devono essere garantite indiscriminatamente a tutti, su un piano di assoluta parità corrispondente alla pari dignità umana.
Ma questo comporta una conseguenza la cui logica non è superficialmente sovrapposta ad una scelta di civiltà astratta, e che soprattutto non è un compromesso, ma è internamente necessaria per il modo di funzionamento dei processi di accumulazione flessibile: le condizioni dell’effettiva capacità di integrazione economica, sociale e culturale, sono la precondizione per accogliere nuovi cittadini, senza distinguere tra questi e ‘meteci’ di classe b, come alcune destre propongono, non solo in Italia. Altrimenti chi verrà sarà solo deumanizzato e trasformato in ‘forza-lavoro’ astratta, la cui immissione determinerà non per caso ma per metodo, la sostituzione con altra ‘forza-lavoro’ già presente (autoctona e immigrata di generazione precedente[10]).

Detto in altro modo, il problema delle migrazioni va compreso come un caso particolare, per quanto severo, di una generale crisi di scopo della nostra intera civiltà. Dobbiamo comprendere che non può essere la concorrenza di tutti contro tutti ad essere il principio e la pratica che genera l’ordine sociale e decide chi è, come chi non è (cittadino, inserito, oggetto di dignità).

La vera questione posta dalle migrazioni è quindi l’emancipazione ed il riscatto dai meccanismi stritolanti del mercato che non può passare, in ogni paese di destinazione, se non per un potenziamento, radicale, dell’offerta di servizi pubblici, di welfare, di case dignitose, e per la creazione di un territorio nel quale sia presente e disponibile il lavoro. Per questo l’indiscriminata accoglienza, se resta sostanzialmente affidata alle sole capacità di socializzazione del mercato, in particolare nelle condizioni odierne di grande e diffusa sofferenza, si tramuta immediatamente in un fattore di aggravamento, in particolare nelle nostre tante periferie e nelle aree di abbandono. Il mercato attrarrà infatti flussi secondo il proprio principio, che è la massimizzazione del rendimento e quindi dello sfruttamento, garantendo tra l’altro la costante compressione della quota di ricchezza sociale che resta al lavoro (e determina domanda aggregata), a vantaggio di quella che viene appropriata dalla capacità di comando del capitale (e nelle condizioni della finanziarizzazione tende a trasferirsi).
La conseguenza è che questo processo di fluidificazione della ‘forza-lavoro’ determina maggiore interconnessione, dipendenza dall’estero, fragilità strutturale del sistema, e quindi anche, pure per questa via, maggiore emigrazione.
È questo che significa “sviluppo del sottosviluppo”, e non avviene in Africa, mentre noi siamo quelli che sfruttano, avviene ovunque. Ovunque c’è chi sfrutta e chi è sfruttato.



Questa struttura polarizzante, che si ribalta su scala internazionale come divisione del lavoro ordinata da sistemi gerarchici di egemonia, è, tra l’altro, la forma specifica del sottosviluppo che costringe il sistema Italia, come parte di una catena, nell’attuale crisi. Invertirlo avrebbe anche effetti macroeconomici positivi, inducendo il sistema produttivo a investire sulle persone, quando la ‘forza-lavoro’ fosse progressivamente e relativamente più costosa nella sua traduzione in lavoro-vivo la ‘piattaforma tecnologica’ si dovrebbe adeguare e diventare più efficiente, trattenendo una quota maggiore di surplus e alimentando, in un circuito autorafforzante positivo, il mercato interno e la relativa domanda.



Viceversa quindi il diritto allo sviluppo integrale, secondo la propria determinazione, è un processo autorafforzante, di riparazione di una società malata e squilibrata, e, alla scala internazionale deve riguardare ogni nazione. Dunque l’obiettivo che deve porsi la cooperazione internazionale è di evitare qualsiasi reciproco sfruttamento e l’imposizione di modelli economici o sociali esterni, garantendo ad ognuno il diritto di determinarsi e di graduare la propria connessione ed equilibrio sociale.

Ma non si può fare una cosa mentre non si fa l’altra, il rafforzamento delle capacità dei lavoratori, fornendo beni e garantendo potere, la cessazione della sostituzione guidata dal mercato, e l’interruzione delle politiche di saccheggio, vanno fatte insieme o non potranno avere alcun effetto.

Ci saremo “rotti la testa”, e poco male, ma lo avremo fatto inutilmente.




[1] - Si veda per il concetto di “accumulazione flessibile” David Harvey. Si tratta del modello di accumulazione che prende piede, trasformandosi continuamente, quando crollano le condizioni internazionali, tecnologiche e socio-politiche del modello keynesiano. Alla crisi di accumulazione, determinata da tanti e diversi fattori ma nella quale la capacità della ‘forza-lavoro’, nelle condizioni della fabbrica fordista, di imporsi come soggettività politica, e quindi di pretendere rispetto ed estrarre maggior valore, sottraendosi alla logica di comando verticale, è centrale. La crisi di redditività induce prima una fuga degli investimenti nella finanza, quindi crea le condizioni della ri-subordinazione dei lavoratori e della interscambiabilità, su base globale, della loro forza-lavoro. Dunque in questa de-soggettivazione della forza-lavoro viene ricreato un ‘esercito industriale di riserva’ per via di allargamento a popolazioni non inserite (donne, minoranze), inserimento di centinaia di milioni di nuovi individui incapaci di esprimere soggettività politica nel mondo ‘in convergenza’, e immigrazione. Le condizioni di questa nuova forma di accumulazione, che, però, ha scavato sotto le proprie fondamenta sia sul piano economico sia politico, sono anche tecnologiche e commerciali e rendono possibile scambiare la ‘forza-lavoro’ in modo del tutto nuovo, rendendola indefinitamente flessibile, rapidamente sostituibile, esposta al ricatto del capitale.
[2] - Si veda sulla centralità della concorrenza, Pierre Dardot, Christian Laval “La nuova ragione del mondo”. L’essenza della fase neoliberale del capitalismo, che muove dalla costatazione del fallimento sia del liberalismo manchesteriano classico, imperniato sul ‘libero mercato’, sia dell’orrore per le soluzioni pianificate autoritarie (tutte), è di mettere al centro la concorrenza e di sviluppare tramite questa la forma di mercato più completa e più coerente possibile. Gli individui, quindi, non esercitano i propri poteri come produttori (e quindi, ad esempio, attraverso partiti e sindacati, come classe), ma come consumatori, non tramite il conflitto e la ricerca di vantaggi e privilegi comuni, ma tramite il consenso. Infatti tutti i consumatori hanno eguale interesse alla salvaguardia del meccanismo della concorrenza, che contiene i prezzi e allarga le scelte. Questa idea profondamente radicata nel discorso ordoliberale, e della quale ci sono riverberi continui, storicamente, nel discorso egemonico delle nostre élite (ad esempio di Carli, o di Einaudi), costituisce un contratto tra consumatore e Stato e individua nella sovranità del consumatore la forma dell’interesse generale.
[3] - Per il concetto di ‘forza-lavoro’ non è equivalente a quello di ‘lavoro’. Per comprenderlo occorre distinguere intanto tra ‘lavoro concreto’ (quel che faccio quando produco, ad esempio, una sedia di legno), e ‘lavoro astratto’ che è definito dalla riduzione ad una metrica comune che rende scambiabile il loro prodotto e remunerabile, in quanto valorizzato nella sfera dello scambio, l’unità di tempo estratta dal flusso vitale, ovvero un ‘tot’ di ‘forza’ capace di produrre. Ciò che rende possibile estrarre, un’astrazione concreta, dal flusso vitale del ‘lavoratore’ (creandolo come tale) una ‘forza-lavoro’ che produce valore di scambio è la ‘piattaforma tecnologica’, ovvero un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio determinati da gruppi di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favoriti da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati. Una “Piattaforma Tecnologica” è, inoltre sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (ed in ultima analisi possibile). Se la ‘forza-lavoro’ è determinata dal lavoro dell’insieme del mercato e dalle caratteristiche proprie della ‘piattaforma tecnologica’ vigente (e differenziata da paese a paese) il suo miracolo è di rendere commensurabile ciò di cui si dà scambio, superando le perplessità antiche (Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, p.193). Ma ciò che è commensurabile, in quanto astratto, può essere soppesato e messo in concorrenza
[4] - Si chiama “borghesia compradora” quella borghesia parassitaria che si organizza e trae il suo ruolo dal flusso di surplus che è estratto da centri (o ‘metropoli’, con il linguaggio di Gunder Frank) dominanti da periferie diversificate. Si tratta di ceti connessi con le industrie di esportazione, manager, azionisti, operatori di logistica, produttori di informazione e/o di decisioni, operatori finanziari. La borghesia ‘compradora’, il capitale monopolistico, e tutti i loro agenti e meccanismi sono parte nel loro insieme, come totalità, del modo di produzione necessariamente allargato alla scala mondiale che determina l’accumulazione (‘flessibile’) del capitale.
[5] - Andre Gunder Frank, “Capitalismo e sottosviluppo”, 1967.
[6] - Il capitalismo determina necessariamente una polarizzazione, una accumulazione, e quindi una costellazione gerarchica di ‘metropoli’ e di ‘satelliti’. Sono i ‘satelliti’, dei quali a loro volta ci sono gerarchie e specializzazioni, a servire come strumento ‘per l’estrazione di capitale’ (o, in altra parola, di ‘surplus economico’) da altri ‘satelliti’ di rango ancora inferiore, e quindi dipendenti, e che sono tali in quanto ‘incanalano’ parte del surplus estratto verso la metropoli mondiale. In questo modo i ‘satelliti’ non possono mai svilupparsi autonomamente, in quanto tutto il surplus è incanalato, salvo la parte che funge da riproduzione del sistema sociale ‘compradoro’. C’è una tesi correlata ed importante: contrariamente all’ipotesi liberale del ‘free trade’ i satelliti si sviluppano solo quando per le più diverse ragioni i legami con le metropoli si allentano.
[7] - Una possibile agenda per riequilibrare questo effetto passa allora: per l’erogazione di fondi per lo sviluppo e l’infrastrutturazione (che dovrebbe essere condotta con modalità del tutto diverse dall’attuale, a fondo perduto o con interessi zero e restituzione legata a parametri di crescita); per misure di stabilizzazione macroeconomica in caso di crisi di liquidità (misure che dovrebbero essere automatiche e non condizionate, per non ripetere il “meccanismo Troika”); il rigetto dell’attuale impostazione rivolta a convertire le economie locali in direzione esclusiva dell’esportazione (che corrisponde di fatto al loro inserimento subalterno nelle catene logistiche ‘occidentali’, e nell’aumento radicale della dipendenza); il riconoscimento e sostegno del diritto da parte delle autorità locali di proteggere le proprie industrie e capacità produttive; l’eliminazione di ogni clausola di regolazione delle controversie tra imprese multinazionali e Stati che consentono a queste di non sottoporsi interamente alla regolazione del luogo in cui operano; la definizione a livello internazionale di criteri di “commercio equo”, proteggendo il diritto di tutti di limitare quello che non sia tale (condizioni lavorative, diritti associativi e di sciopero, protezione del consumatore e dell’ambiente).
[8] - In questo post il concetto è espresso in forma più estesa “Uscendo dall’ipocrisia dei rispettivi muri: che cosa significa accogliere”.
[9] - Si definiscono “ragioni di scambio” il rapporto tra l'indice dei prezzi all'esportazione di un paese e quello dei prezzi all'importazione. Dal punto di vista dell'intero paese, rappresenta l'ammontare di esportazioni richiesto per ottenere una unità di importazione. Dunque il prezzo tra due beni (o di un bene e di un altro rispetto ad una unità di misura comune, ad esempio il denaro internazionalmente accettato come il dollaro) è relativo ai rapporti di forza che si determinano sul “mercato”, e che dipendono da molteplici fattori non tutti economici. Ad esempio, se un paese ha un surplus di vino, essendosi specializzato solo in tale produzione di esportazione, poniamo di Porto, e l’unico grande mercato “libero”, nel quale può vendere il prodotto è la Gran Bretagna, dovrà accettare il prezzo determinato dai grossisti anglosassoni, detentori del monopolio di accesso al mercato, anche se è di poco superiore al suo prezzo di produzione, l’alternativa è riempire i magazzini e non avere la moneta per comprare, al prezzo anche qui determinato dai commercianti esteri, in quando detentori di un monopsonio (sostenuto da Trattati e, se del caso, cannoniere), e sul limite della loro capacità di spesa. L’effetto è che un paese a sovranità molto limitata (avendola perso sui campi di battaglia), progressivamente si impoverisce. Tutto questo scompare nelle formule semplificate, potenza della matematica, e nelle alate parole di David Ricardo. L’ipotesi, fondativa della disciplina economica internazionale, che il ‘libero scambio’ sia sempre a vantaggio reciproco, è, per usare le parole di Keen “una fallacia fondata su una fantasia”. Questa teoria ignora direttamente la realtà, nota a chiunque, che quando la concorrenza estera riduce la redditività di una data industria il capitale in essa impiegato non può essere “trasformato” magicamente in una pari quantità di capitale impiegato in un altro settore. Normalmente invece “va in ruggine”. Insomma, questo piccolo apologo morale di Ricardo è come la maggior parte della teoria economica convenzionale: “ordinata, plausibile e sbagliata”. E’, come scrive Keane “il prodotto del pensiero da poltrona di persone che non hanno mai messo piede nelle fabbriche che le loro teorie economiche hanno trasformato in mucchi di ruggine”.
[10] - Non per caso, infatti, normalmente gli immigrati già integrati, che sanno cosa hanno dovuto subire ed hanno paura di scivolare nuovamente indietro, sono i primi ad opporsi ad altri ingressi.

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