Dice il mio amico
Fabrizio Marchi in relazione al tema dell’immigrazione, in un editoriale su “L'interferenza” che commenta il Manifesto
per la Sovranità Costituzionale, che ‘la verità rende liberi’, o,
‘è rivoluzionaria’, e che quindi essa va affermata “anche a costo di rompersi
la testa”. E che questa ‘verità’ è che le politiche imperialiste, colonialiste
e neocolonialiste determinano il
fenomeno dell’emigrazione, che, a sua volta, funge da ‘esercito industriale di
riserva’ ed esercita pressione sulle condizioni di vita dei lavoratori tutti. Ne conclude che mentre, per un quindicennio, si sviluppano politiche anti-colonialiste (che indica), nessuna regolazione dell'immigrazione è possibile. In realtà neppure dopo, in quanto se il continente africano si sviluppa, lasciato libero dal secolare saccheggio occidentale, i flussi diventeranno fisiologici.
Leggo una profonda vena religiosa in questa posizione,
una vena che rispetto in sommo grado, naturalmente. Ma il punto è che non credo
che ‘rompersi la testa’ sia progressivo, che sia utile, che determini l’emancipazione
dei subalterni. E non credo neppure che quella descritta da Fabrizio sia la ‘verità’.
D’altra parte io non credo neppure che il punto sia “recuperare
un rapporto con le massi popolari”. Intendiamoci, questo rapporto va
recuperato, e per questo serve, tra l’altro, anche avere una testa sana. Ma il
punto non è questo: è determinare le
condizioni perché le masse popolari siano in grado di emanciparsi.
Foto di Gabriele Pasutto |
Allora quale è la ‘verità’? L’immigrazione, come l’emigrazione, è un effetto di
un meccanismo autorafforzante che si alimenta per logica immanente, e non per
costrizione esterna. E’ la centralità, nel modo di produzione capitalista
imperniato sull’accumulazione flessibile[1],
di rapporti ineguali di dominazione governati internamente dalla logica ferrea
della concorrenza[2] che attraversano
interamente tutto il sistema internazionale, che aspira costantemente verso il ‘centro’
dalle ‘periferie’ forza-lavoro[3]
debole e ricattabile. Sono i rapporti di forza che catturano indifferentemente portatori
di forza-lavoro locali e immigrati, e che costantemente ne espellono, ad essere
la causa del fenomeno. Esso non è in sé portatore di alcuna differenza rispetto
alla competizione tra forza-lavoro, e quindi tra lavoratori, nazionale.
In effetti il neo-colonialismo è una etichetta
semplificata che mettiamo verso questo processo di generazione e sfruttamento
della debolezza dove si vede meglio: nei paesi meno capaci di opporre allo
sfruttamento capitalista la logica dell’interesse pubblico, per debolezza relativa
delle loro forme statuali e per ‘cattura’ particolarmente pronunciata delle élite
“compradore”[4]. Ma è una semplificazione:
le contraddizioni dell’espropriazione/appropriazione e della polarizzazione
metropoli/satellite “penetrano, come una catena, il mondo sottosviluppato nella
sua totalità, creando una struttura di sottosviluppo ‘interna’”[5]. Il
sottosviluppo, africano come quello del sud Italia, ma anche quello delle
periferie di Milano, non è questione geograficamente ‘esterna’, non si tratta
di essere sfruttati da fuori, e non è
questione principalmente di ‘fughe di capitali’ o di ‘uomini’ (anche se
entrambe hanno molto a che fare), ma è “interno/esterno”, è una “struttura”
che, questa, va integralmente distrutta e sostituita con una dimensione
socialista di sviluppo[6].
E’ chiaro che l’agenda di Fabrizio Marchi non per
questo va abbandonata, bisogna fare tutto. E cercare di ostacolare, riducendo
le interdipendenze estrattive[7],
la sottrazione di:
·
Risorse finanziarie (attraverso
in particolare la meccanica del debito, e i suoi agenti che sono in prima
battuta i grandi attori privati del credito e in seconda, ma decisiva, gli
organismi posti a guardia della liquidità internazionale);
·
Risorse reali (ovvero
materie prime e prodotti intermedi i cui prezzi sono determinati nel quadro dei
rapporti di forza complessivi e risultano strutturalmente dominati dai processi
di produzione industriali cui servono);
·
Risorse umane (cioè
persone fisiche viventi in età di produrre lavoro che come sottolinea anche Stiglitz, producono con la
loro uscita lo “svuotamento” della capacità locale).
Se quel che però si coltiva, e si rende visibile in
modo evidente, attraverso il fenomeno della immigrazione (e della emigrazione)
è lo “sviluppo del sottosviluppo”,
per usare il bel concetto di Andre Gunder Frank, allora bisogna capire che
questo ci riguarda molto più profondamente della mera questione, pur
importante, di “politica estera”. Queste
politiche partono direttamente nelle nostre fabbriche, sono mosse dalla debolezza
del nostro capitalismo e dal suo inserimento in catene del valore che
pretendono di estrarre sempre più surplus, o plus-valore, dalla forza-lavoro
impiegata. Non è immaginabile lasciar andare il meccanismo di sostituzione
costante ed accelerato di deboli con più deboli (da sottoporre a saggi di sfruttamento
crescenti, aggravati dalla legge vigente), nell’attesa che la politica estera ribilanci i rapporti mondiali. Quel
che si otterrebbe è solo che, mentre fantasticamente in quindici anni le
politiche imperialiste brutali vengono allentate (in un paese solo, mentre gli
altri continuano in quanto è proprio del sistema capitalistico generare
periferie subalterne), il nostro sistema produttivo, per competere,
continuerebbe ad attrarre ed aspirare disperati e di collocarli in modo
subalterno entro le nostre catene del valore. Qualunque politica estera ne
verrebbe travolta.
Inoltre continuerebbe ad espellere persone, portatrici
di forza-lavoro deprezzata in quanto non competitiva, che, potendo votare,
reagirebbero in modo del tutto razionale chiedendo protezione alla destra.
La testa ce la romperemmo, e, cosa più grave, saremmo oggettivamente complici dell’approfondirsi costante e continuo
dello sfruttamento.
Cosa fare allora? Il concetto centrale è che l’accoglienza, per essere davvero
tale, deve essere sempre condotta in
reali condizioni di possibilità e senza tradursi direttamente in una pressione
allo sfruttamento degli immigrati e/o dei cittadini più deboli per opera del
mercato lasciato a se stesso[8].
Il punto dal quale far partire il rovesciamento del
sistema di sfruttamento ineguale che da ogni luogo centrale si allarga ai
luoghi che definisce come periferici, è che bisogna usare la logica dell’interesse pubblico, di ciò
che ci dobbiamo l’un l’altro come uguali, per disinnescare gli effetti
distruttivi della logica della
competizione. Il capitale pubblico non deve essere mobilitato solo per compensare i paesi esteri dell’estrazione
ineguale di risorse, e del degrado delle loro ‘ragioni di scambio’[9],
ma deve essere mobilitato per garantire reddito indiretto, livello di dignità,
e condizioni di capacitazione, eguali per tutti coloro che sono comunque messi
in contatto reciproco dal mercato. In
altre parole le condizioni del welfare devono essere garantite
indiscriminatamente a tutti, su un piano di assoluta parità corrispondente alla
pari dignità umana.
Ma questo comporta una conseguenza la cui logica non è
superficialmente sovrapposta ad una scelta di civiltà astratta, e che
soprattutto non è un compromesso, ma è
internamente necessaria per il modo di funzionamento dei processi di
accumulazione flessibile: le condizioni dell’effettiva capacità di integrazione
economica, sociale e culturale, sono la
precondizione per accogliere nuovi cittadini, senza distinguere tra questi
e ‘meteci’ di classe b, come alcune destre propongono, non solo in Italia. Altrimenti
chi verrà sarà solo deumanizzato e trasformato in ‘forza-lavoro’ astratta, la
cui immissione determinerà non per caso ma per metodo, la sostituzione con
altra ‘forza-lavoro’ già presente (autoctona e immigrata di generazione
precedente[10]).
Detto in altro modo, il problema delle migrazioni va
compreso come un caso particolare, per quanto severo, di una generale crisi di
scopo della nostra intera civiltà. Dobbiamo comprendere che non può essere la
concorrenza di tutti contro tutti ad essere il principio e la pratica che
genera l’ordine sociale e decide chi è, come chi non è (cittadino, inserito, oggetto di dignità).
La vera questione posta dalle migrazioni è quindi l’emancipazione
ed il riscatto dai meccanismi stritolanti del mercato che non può passare, in
ogni paese di destinazione, se non per un potenziamento, radicale, dell’offerta
di servizi pubblici, di welfare, di case dignitose, e per la creazione di un
territorio nel quale sia presente e disponibile il lavoro. Per questo
l’indiscriminata accoglienza, se resta sostanzialmente affidata alle sole
capacità di socializzazione del mercato, in particolare nelle condizioni
odierne di grande e diffusa sofferenza, si tramuta immediatamente in un fattore di aggravamento, in particolare nelle
nostre tante periferie e nelle aree di abbandono. Il mercato attrarrà infatti flussi
secondo il proprio principio, che è la massimizzazione del rendimento e quindi
dello sfruttamento, garantendo tra l’altro la costante compressione della quota
di ricchezza sociale che resta al lavoro (e determina domanda aggregata), a
vantaggio di quella che viene appropriata dalla capacità di comando del
capitale (e nelle condizioni della finanziarizzazione tende a trasferirsi).
La conseguenza è che questo processo di
fluidificazione della ‘forza-lavoro’ determina maggiore interconnessione,
dipendenza dall’estero, fragilità strutturale del sistema, e quindi anche, pure
per questa via, maggiore emigrazione.
È questo che significa “sviluppo del sottosviluppo”, e non avviene in Africa, mentre noi
siamo quelli che sfruttano, avviene ovunque. Ovunque c’è chi sfrutta e chi è
sfruttato.
Questa struttura polarizzante, che si ribalta su scala
internazionale come divisione del lavoro ordinata da sistemi gerarchici di
egemonia, è, tra l’altro, la forma specifica del sottosviluppo che costringe il
sistema Italia, come parte di una catena, nell’attuale crisi. Invertirlo avrebbe
anche effetti macroeconomici positivi, inducendo il sistema produttivo a
investire sulle persone, quando la ‘forza-lavoro’ fosse progressivamente e
relativamente più costosa nella sua traduzione in lavoro-vivo la ‘piattaforma
tecnologica’ si dovrebbe adeguare e diventare più efficiente, trattenendo una
quota maggiore di surplus e alimentando, in un circuito autorafforzante
positivo, il mercato interno e la relativa domanda.
Viceversa quindi il diritto allo sviluppo integrale, secondo la propria
determinazione, è un processo autorafforzante, di riparazione di una società
malata e squilibrata, e, alla scala internazionale deve riguardare ogni nazione.
Dunque l’obiettivo che deve porsi la cooperazione internazionale è di evitare
qualsiasi reciproco sfruttamento e l’imposizione di modelli economici o sociali
esterni, garantendo ad ognuno il diritto di determinarsi e di graduare la
propria connessione ed equilibrio sociale.
Ma non si può fare
una cosa mentre non si fa l’altra,
il rafforzamento delle capacità dei lavoratori, fornendo beni e garantendo
potere, la cessazione della sostituzione guidata dal mercato, e l’interruzione
delle politiche di saccheggio, vanno fatte insieme o non potranno avere alcun
effetto.
Ci saremo “rotti la testa”, e poco male, ma lo avremo fatto inutilmente.
[1] - Si veda per il concetto di “accumulazione
flessibile” David Harvey. Si tratta del modello di accumulazione che prende
piede, trasformandosi continuamente, quando crollano le condizioni
internazionali, tecnologiche e socio-politiche del modello keynesiano. Alla crisi
di accumulazione, determinata da tanti e diversi fattori ma nella quale la capacità
della ‘forza-lavoro’, nelle condizioni della fabbrica fordista, di imporsi come
soggettività politica, e quindi di pretendere rispetto ed estrarre maggior
valore, sottraendosi alla logica di comando verticale, è centrale. La crisi di
redditività induce prima una fuga degli investimenti nella finanza, quindi crea
le condizioni della ri-subordinazione dei lavoratori e della interscambiabilità,
su base globale, della loro forza-lavoro. Dunque in questa de-soggettivazione
della forza-lavoro viene ricreato un ‘esercito industriale di riserva’ per via
di allargamento a popolazioni non inserite (donne, minoranze), inserimento di
centinaia di milioni di nuovi individui incapaci di esprimere soggettività
politica nel mondo ‘in convergenza’, e immigrazione. Le condizioni di questa
nuova forma di accumulazione, che, però, ha scavato sotto le proprie fondamenta
sia sul piano economico sia politico, sono anche tecnologiche e commerciali e rendono
possibile scambiare la ‘forza-lavoro’ in modo del tutto nuovo, rendendola
indefinitamente flessibile, rapidamente sostituibile, esposta al ricatto del
capitale.
[2] - Si veda sulla centralità della
concorrenza, Pierre Dardot, Christian Laval “La
nuova ragione del mondo”. L’essenza della fase neoliberale del
capitalismo, che muove dalla costatazione del fallimento sia del liberalismo manchesteriano
classico, imperniato sul ‘libero mercato’, sia dell’orrore per le soluzioni
pianificate autoritarie (tutte), è di mettere al centro la
concorrenza e di sviluppare
tramite questa la forma di mercato più completa e più coerente possibile.
Gli individui, quindi, non esercitano i propri poteri come produttori (e
quindi, ad esempio, attraverso partiti e sindacati, come classe), ma come
consumatori, non tramite il conflitto e la ricerca di vantaggi e privilegi
comuni, ma tramite il consenso. Infatti tutti i consumatori hanno eguale
interesse alla salvaguardia del meccanismo della concorrenza, che contiene i
prezzi e allarga le scelte. Questa idea profondamente radicata nel discorso
ordoliberale, e della quale ci sono riverberi continui, storicamente, nel
discorso egemonico delle nostre élite (ad esempio di Carli, o di Einaudi),
costituisce un contratto tra consumatore e Stato e individua
nella sovranità del consumatore la forma dell’interesse generale.
[3] - Per il concetto di ‘forza-lavoro’
non è equivalente a quello di ‘lavoro’. Per comprenderlo occorre distinguere
intanto tra ‘lavoro concreto’ (quel che faccio quando produco, ad esempio, una
sedia di legno), e ‘lavoro astratto’ che è definito dalla riduzione ad una
metrica comune che rende scambiabile il loro prodotto e remunerabile, in quanto
valorizzato nella sfera dello scambio, l’unità di tempo estratta dal flusso
vitale, ovvero un ‘tot’ di ‘forza’ capace di produrre. Ciò che rende possibile
estrarre, un’astrazione concreta, dal flusso vitale del ‘lavoratore’ (creandolo
come tale) una ‘forza-lavoro’ che produce valore di scambio è la ‘piattaforma
tecnologica’, ovvero un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e
vantaggio determinati da gruppi di tecnologie convergenti e reciprocamente
rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favoriti da queste e di know how
privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella
sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e
privati. Una “Piattaforma Tecnologica” è, inoltre sempre connessa con un assetto geopolitico che
la rende vincente (ed in ultima analisi possibile). Se la ‘forza-lavoro’
è determinata dal lavoro dell’insieme del mercato e dalle caratteristiche
proprie della ‘piattaforma tecnologica’ vigente (e differenziata da paese a
paese) il suo miracolo è di rendere commensurabile ciò di cui si dà scambio,
superando le perplessità antiche (Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, p.193). Ma ciò che è commensurabile, in
quanto astratto, può essere soppesato e messo in concorrenza
[4] - Si chiama “borghesia compradora”
quella borghesia parassitaria che si organizza e trae il suo ruolo dal flusso
di surplus che è estratto da centri (o ‘metropoli’, con il linguaggio di Gunder
Frank) dominanti da periferie diversificate. Si tratta di ceti connessi con le
industrie di esportazione, manager, azionisti, operatori di logistica,
produttori di informazione e/o di decisioni, operatori finanziari. La borghesia
‘compradora’, il capitale monopolistico, e tutti i loro agenti e meccanismi
sono parte nel loro insieme, come totalità, del modo di produzione
necessariamente allargato alla scala mondiale che determina l’accumulazione (‘flessibile’)
del capitale.
[5] - Andre Gunder Frank, “Capitalismo
e sottosviluppo”, 1967.
[6] - Il capitalismo determina
necessariamente una polarizzazione, una accumulazione, e quindi una
costellazione gerarchica di ‘metropoli’ e di ‘satelliti’. Sono i ‘satelliti’,
dei quali a loro volta ci sono gerarchie e specializzazioni, a servire come
strumento ‘per l’estrazione di capitale’ (o, in altra parola, di ‘surplus
economico’) da altri ‘satelliti’ di rango ancora inferiore, e quindi
dipendenti, e che sono tali in quanto ‘incanalano’ parte del surplus estratto
verso la metropoli mondiale. In questo modo i ‘satelliti’ non possono mai
svilupparsi autonomamente, in quanto tutto il surplus è incanalato, salvo la
parte che funge da riproduzione del sistema sociale ‘compradoro’. C’è una tesi
correlata ed importante: contrariamente all’ipotesi liberale del ‘free trade’ i
satelliti si sviluppano solo quando per le più diverse ragioni i legami con le
metropoli si allentano.
[7] - Una possibile agenda per
riequilibrare questo effetto passa allora: per l’erogazione di fondi per lo
sviluppo e l’infrastrutturazione (che dovrebbe essere condotta con modalità del
tutto diverse dall’attuale, a fondo perduto o con interessi zero e restituzione
legata a parametri di crescita); per misure di stabilizzazione macroeconomica
in caso di crisi di liquidità (misure che dovrebbero essere automatiche e non
condizionate, per non ripetere il “meccanismo Troika”); il rigetto dell’attuale
impostazione rivolta a convertire le economie locali in direzione esclusiva
dell’esportazione (che corrisponde di fatto al loro inserimento subalterno
nelle catene logistiche ‘occidentali’, e nell’aumento radicale della
dipendenza); il riconoscimento e sostegno del diritto da parte delle autorità
locali di proteggere le proprie industrie e capacità produttive; l’eliminazione
di ogni clausola di regolazione delle controversie tra imprese multinazionali e
Stati che consentono a queste di non sottoporsi interamente alla regolazione
del luogo in cui operano; la definizione a livello internazionale di criteri di
“commercio equo”, proteggendo il diritto di tutti di limitare quello che non
sia tale (condizioni lavorative, diritti associativi e di sciopero, protezione
del consumatore e dell’ambiente).
[8] - In questo post il concetto è
espresso in forma più estesa “Uscendo
dall’ipocrisia dei rispettivi muri: che cosa significa accogliere”.
[9] - Si definiscono “ragioni di
scambio” il rapporto tra l'indice dei prezzi all'esportazione di un paese e
quello dei prezzi
all'importazione. Dal punto di vista dell'intero paese, rappresenta l'ammontare di esportazioni
richiesto per ottenere una unità di importazione. Dunque il prezzo tra due beni
(o di un bene e di un altro rispetto ad una unità di misura comune, ad esempio
il denaro internazionalmente accettato come il dollaro) è relativo ai rapporti
di forza che si determinano sul “mercato”, e che dipendono da molteplici
fattori non tutti economici. Ad esempio, se un paese ha un surplus di vino,
essendosi specializzato solo in tale produzione di esportazione, poniamo di
Porto, e l’unico grande mercato “libero”, nel quale può vendere il prodotto è
la Gran Bretagna, dovrà accettare il prezzo determinato dai grossisti
anglosassoni, detentori del monopolio di accesso al mercato, anche se è di poco
superiore al suo prezzo di produzione, l’alternativa è riempire i magazzini e
non avere la moneta per comprare, al prezzo anche qui determinato dai
commercianti esteri, in quando detentori di un monopsonio (sostenuto da
Trattati e, se del caso, cannoniere), e sul limite della loro capacità di
spesa. L’effetto è che un paese a sovranità molto limitata (avendola perso sui
campi di battaglia), progressivamente si impoverisce. Tutto questo scompare
nelle formule semplificate, potenza della matematica, e nelle alate parole di
David Ricardo. L’ipotesi, fondativa della disciplina economica internazionale,
che il ‘libero scambio’ sia sempre a vantaggio reciproco, è, per usare le
parole di Keen “una fallacia fondata su una
fantasia”. Questa teoria ignora direttamente la realtà, nota a chiunque,
che quando la concorrenza estera riduce la redditività di una data industria il
capitale in essa impiegato non può essere “trasformato” magicamente in una pari
quantità di capitale impiegato in un altro settore. Normalmente invece “va in
ruggine”. Insomma, questo piccolo apologo morale di Ricardo è come la maggior
parte della teoria economica convenzionale: “ordinata, plausibile e
sbagliata”. E’, come scrive Keane “il prodotto del pensiero da poltrona
di persone che non hanno mai messo piede nelle fabbriche che le loro teorie
economiche hanno trasformato in mucchi di ruggine”.
[10] - Non per caso, infatti,
normalmente gli immigrati già integrati, che sanno cosa hanno dovuto subire ed hanno
paura di scivolare nuovamente indietro, sono i primi ad opporsi ad altri
ingressi.
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