Ci stiamo avvicinando alle ennesime elezioni europee,
nelle quali nel solito clima da ultima spiaggia si elegge un Parlamento che
istituisce di fatto una doppia sovranità, lo strano organismo istituzionale che
si è stratificato in oltre cinquanta anni lascia separati tra di loro i popoli europei, che si confrontano e spesso
scontrano attraverso i loro governi, ma crea un quasi-democratico luogo di
espressione della volontà dei cittadini europei in quanto individui. La principale funzione di questo dispositivo
di fatto è aiutare a dissolvere la sovranità popolare, dividendola, e
tradendola attraverso meccanismi oscuri[1] e
limitazioni inaccettabili[2].
Questa soluzione non funziona, o meglio, funziona
molto bene ma è incompatibile con uno standard democratico che deve consentire
ai cittadini di presumere le leggi siano generate da se medesimi tramite l’autorizzazione
ad esercitare potere legittimo. Tramite i meccanismi europei gli esecutivi si
sono di fatto ‘schermati’ dalle proprie stesse opinioni pubbliche e messi al
sicuro dalle procedure di revoca democraticamente istituite (l’eccezione è il 4
marzo), trattando i cittadini come “bambini sotto tutela”. L’autoprogrammazione
degli esecutivi, tra gli obiettivi non detti più forti, depotenziando strutturalmente
gli obblighi di giustificazione e razionalizzazione depositati dalla storia
delle lotte sociali nelle sfere pubbliche nazionali, li rende facili prese di
forze esterne “del mercato”. Dunque la desiderata autonomia (dalla democrazia
popolare) diventa facilmente etero-programmazione da parte delle forze dell’economia,
in particolare finanziaria.
La tomba del tuffatore, Paestum |
In questa situazione le forze politiche si allineano
su una frontiera simbolica tra chi pretende di realizzare finalmente gli Stati Uniti d’Europa, trasferendo ad
essi la sostanza del potere sovrano, e chi vorrebbe che questo progetto si interrompa,
rientrando nei confini degli Stati Nazionali[3].
Mentre questo dibattito stenta ad accedere alla sfera
pubblica, ed essere condotto in modo razionale, nella generale indifferenza, le
amministrazioni regionali più forti avanzano verso lo svuotamento della
sostanza nazionale, chiedendo di disporre di poteri e risorse differenziate,
mentre il livello amministrativo più vicino ai cittadini, i Comuni, sembra
abbandonato a se stesso nella stretta dell’austerità.
Dobbiamo trovare un nuovo equilibrio complessivo, e
soprattutto dobbiamo mobilitare su di esso il genio della democrazia.
Noi europei siamo d’altra parte giunti a questo
appuntamento sentendo, chi per un motivo chi per l’altro, il “nemico alle porte”.
Fino ad ora siamo andati avanti come sonnambuli,
mentre una strana costruzione pluridecennale procedeva per moto proprio; una
costruzione inizialmente voluta dalla grande potenza egemonica uscita dalla
guerra ed in buona misura armata contro l’altra e cresciuta nel sentimento
popolare di ripulsa verso il nazionalismo aggressivo prevalso al termine degli
anni trenta. Molti di noi non si sono neppure accorti davvero che il passaggio
di millennio ha ridefinito la missione delle élite europee da progetto
difensivo a offensivo; lo ha convertito nel sogno di una superpotenza imperiale
in un mondo sperato come ‘tripolare’ (dove, però, al secondo polo è ascesa la
Cina in luogo dell’Urss). Quasi tutti però ci siamo accorti, nelle nostre
stesse vite, che si è progettata, come arma per la competizione dei capitali, un’area
a ridotta statualità politica nella quale potesse trovare finalmente luogo il
sogno hayekiano del mercato libero sotto occhiuti guardiani[4].
Il problema è che mentre alcuni erano ben svegli, e
portavano avanti la “carrozza Europa” verso la sua destinazione, altri
dormivano placidamente e sognavano di ‘luoghi dei popoli’, capaci di esprimere
la propria vocazione all’identità nella differenza, parlavano di ‘società unita
e coesa’, in cui fraternità, uguaglianza e libertà; un paradiso dove il
progetto illuminista, potesse trovare finalmente spazio.
Ora però siamo
fermi, e sentiamo il freddo e
la paura delle molte contraddizioni che vengono a chiedere ragione. L’ambiguo
progetto imperiale degli Stati Uniti d’Europa è sfidato dalla riarticolazione
dei poteri mondiali, mentre (come accadde anche nella crisi a cavallo tra il
XIX ed il XX secolo) la globalizzazione imperiale ad un solo egemone si sta
frantumando come una lastra di cristallo e
le società si stanno difendendo[5].
Mentre il nemico è alle porte il calabrone europeo si
accorge improvvisamente di non saper volare.
In una situazione del genere si possono fare diverse
cose: si può attendere l’inevitabile atterraggio, portando avanti sempre più
ansiosamente i propri piccoli progetti (come si fa nella politica italiana),
sperando che non vada così male come negli anni trenta.
Oppure si può cercare di riavviare la politica e giungere ad un momento della verità.
Per fare la seconda cosa bisogna designare come avversario il funzionalismo che ha
supervisionato alla costruzione fallita come progetto “negativo” e “furtivo”, e quindi l’ideologia mercatista (sia
nella versione neoliberale sia in quella ordoliberale) che lo informa. Compiuta
questa opera di decostruzione dell’avversario che è dentro di noi, e quindi di identificazione
come altro da noi, è nello spazio dei due ultimi sistemi di valore ed obiettivo
prima citati che bisogna interrogarsi, perché i sogni diventino realtà.
Dobbiamo chiederci, e scegliere:
-
vogliamo, noi
europei, stare insieme? E in caso positivo vogliamo immaginare il percorso di
una Federazione o di una Confederazione?
-
Quale spazio
vogliamo dare a ciò che abbiamo di differente e cosa a ciò che abbiamo di
comune?
-
Nell’articolazione
della sovranità, come vogliamo declinare il diritto di autodeterminazione, di
sapersi autori delle proprie leggi, con la ricerca del corretto livello al
quale garantirne l’effettività, diversa materia per materia?
Ma per aprire la discussione e smettere di essere
‘furtivi’, dato il punto cui siamo giunti, ci vuole coraggio.
Bisogna prima retrocedere
in qualche dimensione dell’attuale integrazione “negativa”, per guadagnare la
posizione di reciproco rispetto ed autonomia[6]
che consentirà anche di definire il “comune”. Sanare le ferite, sospendendo la
moneta comune o disattivandone gli effetti più dannosi[7],
restituendo la capacità di difendersi dai ricatti dei mercati finanziari e di
proteggere il proprio mercato interno, oltre che il lavoro[8],
congelando gli effetti del debito, estendendo pro tempore una garanzia comune.
Quindi, recuperata
una posizione paritaria, avviare una fase costituente.
È indispensabile che in modo palese e non furtivo si attivi finalmente in tutta
Europa una discussione collettiva non rituale. Per ottenerlo si devono costruire
organismi deliberativi sul modello, ad esempio, delle planungszellen (“Cellule
di pianificazione”) tedesche, o delle Teknologiradet (“Consiglio
tecnologico”) danese, della Commissione nazionale per il dibattito
pubblico francese, delle Citizen juries inglesi[9].
Organismi deliberativi da affiancare a luoghi di ordinata espressione di
conoscenza tecnica, come pareri esperti e consulte, ma anche a meccanismi a
sorteggio (recuperando la ricca e dimenticata esperienza greca, ma anche quella
rinascimentale italiana) che riducono la torsione elitaria implicita in ogni
selezione di “migliori”.
Il Progetto di Costituzione dovrebbe
nascere, nell’epoca della “direttezza”[10],
da una simile discussione nella quale il “potere sociale” ha la prima parola e
quello “politico” la seconda. Quindi sulla base di un “progetto”, o di
materiali progettuali creati nella fase di discussione collettiva (che è
fondamentale sia precedente alla costruzione tecnica finale)
che non può durare meno di 2-5 anni, e se,
con chi, si decide di procedere si
dovrebbe infine convocare una “Assemblea costituente”,
attraverso elezioni generali (con qualche, limitata pesatura del voto per
riconoscere il “plus” che una conformazione nazionale porta al mero numero di
cittadini che vi sono inclusi).
Si dirà che è stato
già tentato ed ha fallito, poi è stato aggirato con il Trattato di Lisbona. Lì
i cittadini europei hanno cominciato a capire. Ma proprio per questo è
necessario finalmente sapere se i
popoli europei vogliono davvero, e in che
termini e condizioni, unirsi.
Ora ci sono
le condizioni, proprio perché per molti i nemici sono alle porte;
come è sempre avvenuto la convocazione di una “Assemblea” che ha come compito
la creazione di una Costituzione per poter esistere deve essere pressata da un
senso di urgenza in modo da mettere da parte gli egoismi a breve termine[11].
Ogni
assemblea costituente, del resto, lavora contro il potere che
l’ha convocata, dovendolo portare a fine. E questo oggi significa
lavorare contro il calabrone che non vola.
Un altro vincolo alla struttura
della situazione che dovrebbe essere introdotto, per portare a buon fine la
cosa, è che il finale “Progetto di
costituzione”, se si produce, sia
sottoposto a ratifica, in un tempo definito, direttamente in consultazioni
referendarie (senza quorum) nelle diverse nazioni, sul modello americano. In
questo modo i costituenti avrebbero davanti il rischio di fallimento, se la
torsione elitaria (in certa misura connaturata allo strumento) li dovesse
portare in direzione non consona al plausibile consenso popolare.
E’ vero che la sostanza più profonda
del progetto europeo realmente esistente è la ricerca del potere imperiale, ma
questo non può mostrarsi nudo, e su questo conta il genio della democrazia: La
Rochefoucauld diceva che “l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio tributa alla
virtù”. Dovremmo approfittare del momento in cui il nemico è alle porte per
provare la verità di questa massima.
[1] - Quella che, ad esempio, viola
fragorosamente il principio di rappresentanza, nel momento in cui un cittadino
tedesco dispone di un potere rappresentativo otto volte meno intenso di un
cittadino Lussemburghese, o Maltese.
[2] - Come quella che preclude al
Parlamento l’iniziativa legislativa e lo rende inerte e subalterno agli organi
ibridi Confederali, come la Commissione Europea ed il Consiglio Europeo.
[3] - Per una versione alta di questo
dibattito si può osservare il lungo dialogo tra Habermas e Streeck. Ad esempio,
Jurgeh Habermas “La
democrazia in Europa”, “Nella
spirale tecnocratica”, “Perché
la sinistra anti-europea sbaglia”; Wolfgang Streeck, “L’Europa
come becchino della democrazia nazionale”, “Che
dire del capitalismo?”, “Perché
l’Euro divide l’Europa”, “L’ascesa
dello Stato di consolidamento europeo”.
[4]- Ovvero il sogno ordoliberale.
[5] - Il riferimento è all’analisi di
Karl Polanyi.
[6] - la sensazione di essere umiliati
ed offesi è gran parte del sentimento che porta il nemico alle porte.
[7] - Dunque bisogna disattivare molte
clausole del Trattato di Maastricht, attivando una sorta di norma di
“salvaguardia”, consentire monetazione parallela o ridefinire profondamente la
governance della BCE, portandola allo stato di “condominio” e non di “dominus”
(insomma, bisogna che gli inquilini riacquistino le proprie case che hanno
imprudentemente regalato).
[8] - Sospendere la piena integrazione
dei capitali, revocare senz’altro il Fiscal Compact, garantire il diritto di
difesa della propria integrità economica.
[11] - L’analisi condotta da Jon Elster, in un piccolo ed
indimenticabile libro “Argomentare e negoziare” mostra che il tempo stretto e la presenza del rischio
di un drammatico fallimento “livella le forze” (p.35) e spinge a superare
impasse che a volte si trascinano altrimenti per decenni. Questa circostanza è
stata fino ad ora usata a vantaggio dei primi due progetti (imperiale e mercatista),
è ora di mobilitarla in favore dei secondi due (popoli e società). In questo
caso, inoltre, l’Assemblea di fatto sarebbe mista (e potrebbe anche esserlo de
jure), in quanto risponderebbe sia ai cittadini direttamente (selezionando
quindi, alla maniera dell’assemblea francese del 1789, politici, agitatori e
anche demagoghi) sia alle Nazioni costituite (selezionando alla maniera
dell’assemblea americane del 1787, delegati di fatto o di diritto), quindi le
forme discorsive che prevarrebbero sarebbero sia argomentative (come disse
Sièyes: “non è questione di elezioni democratiche ma di proporre, ascoltare,
decidere insieme, cambiare opinione, così da formarsi una volontà comune in
comune”) sia negoziali (condotta, cioè, da professionisti che devono riferire,
come ambasciatori in qualche modo). Il riferimento ad un pre-testo costruito in
forma più smaccatamente argomentativo, ed in modo allargato, costituisce in
questo senso un punto di ancoraggio gravitazionale verso la prima forma, e
quindi incoraggia ad esiti meno incrementali. Pretese di validità e credibilità delle minacce hanno
entrambi corso in questa dinamica. Di fatto ci si muoverà,
come mostra Elster, in un terreno intermedio: quello degli “usi strategici
dell’argomentazione” e delle “pratiche argomentative nei
negoziati”. In questa area
le minacce sono presentate come avvertimenti, previsioni, stime per ragioni
imparziali o interpretative (di identità fattuali o normative); l’interesse
egoistico è invece vestito dei ricchi abiti dei principi imparziali; inoltre
l’uso strategico degli argomenti (apparentemente) non strategici si incontra ad
ogni piè sospinto. Ma tutte queste sostituzioni sono soggette a
vincoli (p.124), tra questi possono essere citati: quelli di non apparire
in pubblico come egoisti e sconnessi con il tessuto di identità e norme sociali
che fa da sfondo all’ambiente comune dei parlanti (identificato espressamente
nel pre-testo e nella dinamica pubblica di esposizione al “pubblico” attraverso
gli strumenti tecnici della “direttezza”). Questi vincoli inducono quindi ad
argomentare anche quando non si vorrebbe. Per Elster in particolare (p.128) si
argomenta per: la forza motivante dei principi; la necessità derivante
dall’essere in pubblico; la forza di convincimento che a volte si manifesta
(l’effetto su cui Habermas insiste sul piano normativo); il rispetto di una
norma sociale particolarmente forte.
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