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giovedì 11 aprile 2019

10 aprile 1919, Emiliano Zapata



Cento anni fa, a otto anni dall’inizio della prima rivoluzione del novecento (a parte i moti del 1905 in Russia), un immane bagno di sangue, durato dal 1911 al 1930 e costato quasi un milione di morti, il comandante Emiliano Zapata fu ucciso in un agguato dal colonnello Guajardo.
La rivoluzione messicana produce grandi avanzamenti, la Costituzione del 1917, ad esempio, con il principio di inalienabilità dei terreni comuni (le terre degli ejjdos), poi abrogata solo nel 1994, ma è largamente incompiuta e assume anche i caratteri di "rivoluzione passiva", almeno per gran parte del popolo messicano. 


Emiliano Zapata è una delle più grandi figure (insieme a Pancho Villa) della lotta condotta dai campesinos e dai piccoli agricoltori, contro le forze che via via gli si oppongono: in una prima fase  Porfirio Diaz, nella quale i due leader popolari su alleano con gli intellettuali borghesi liberali del 'Plan de San Luis Potosì' (1910) che esprimeranno il primo Presidente, Madero. In una seconda, guidata da Zapata e Pascual Orozco, lo scontro è tra forze popolari e liberali. 
Nato da una famiglia poverissima di contadini nel 1879 e morto a quaranta anni, Zapata è orgoglioso della sua origine nahuati (antica lingua locale di origine Maya), e viene avvicinato da giovane al pensiero anarchico (di Kropotkin) dai suoi maestri di scuola Burgos e Montano e dalla rivista clandestina “Regeration”. In una prima fase cercò di svolgere politica legalitaria, diventando anche sindaco di Anenecuilco e appoggiando i politici riformisti locali, quando la reazione dei latifondisti ne mostra l’impossibilità, procede a distribuire la terra ai contadini e avvia la lotta armata.
Intellettuale del popolo, e contemporaneamente inflessibile combattente, Zapata sotto la bandiera nera con la scritta “Tierra y libertad!” fronteggia le forze di Porfirio Diaz al sud sino alla vittoria nel maggio 1911. Poi si accorda con Madero, ma dura poco (da maggio a novembre) e riprende la lotta alla parola d’ordine “Uomini del sud! È meglio morire in piedi che vivere in ginocchio!
Seguono otto anni di lotta, prima contro Madero, poi contro Huerta e infine contro Carranza, che è pure l’autore della Costituzione del 1917.
La sua tattica prevede una guerriglia molto mobile condotta da formazioni di due-trecento uomini che i Federales non riescono a contrastare efficacemente.

La storia passa per un’altra vittoria, quella contro il reazionario Huerta, nel 1913, con il decisivo apporto a Nord di Pancho Villa; purtroppo questo non conclude la guerra civile perché Carranza, che rappresenta gli interessi della borghesia agraria, prosegue la lotta. L’anno dopo, a dicembre, Villa e Zapata sembrano avere vinto ed entrano a Città del Messico, ma le divisioni tra le forze rivoluzionarie prevalgono e questi torna nel Morelos, dove tenta la sperimentazione di una forma di democrazia diretta di tipo anarchico. Siamo nel 1915.

Segue la controffensiva di Carranza, che porta dalla sua parte gli operai e il capo rivoluzionario Obregon. Villa è sconfitto a Nord.

E’ in questo momento che il colonnello Guajardo, fingendo di volersi unire alla causa di Zapata, lo attira in un agguato e lo uccide alla hacienda di Chinameca. 10 aprile 1919.



La restituzione della terra ai contadini, l’espropriazione dei latifondi, e la nazionalizzazione delle principali risorse ed una nazione decentralizzata di pueblos federati, il richiamo all’eredità Maya, sono i capisaldi del pensiero e dell’azione di Zapata che lo pongono in condizioni irriducibilmente incompatibili con i poteri del suo tempo (e del nostro). El caudillo del sur morirà senza mai giungere a compromesso con quel che pensa e difende.



Nelle sue aspre contraddizioni la rivoluzione messicana fu per l’intera regione e per decenni un esempio. Per gli americani un pessimo esempio, da cui difendersi e da schiacciare direttamente (occupazione di Vera Cruz) o per interposta persona (Madero e Carrasco). Per gli altri paesi latino americani è l’esempio di riscatto, come in seguito sarà Cuba. Liberò enormi energie e cambiò tutti i rapporti sociali anche molecolarmente, ottenne la riduzione di due terzi del tasso di mortalità infantile, della metà l’analfabetismo, e pose le basi per la crescita economica che prese avvio dal 1940. La riforma agraria così combattuta produrre milioni di piccole aziende agricole, moltiplicò per sette le strade, irrigazione, e, dal 1940 in poi anche industrializzazione.

Sembrano, e sono, avanzamenti importanti.

Ma ci si spiega la ripresa, per ben due volte, della rivolta di Zapata e di Villa se si fa caso ad una circostanza: i benefici economici furono perseguiti a vantaggio di pochi, anche se non pochissimi, ed a perdurante danno di altri.
Il confronto con le rivoluzioni successive, che non si fermarono al compromesso con le forze della borghesia agraria ed industriale, quella Russa e poi Cinese, nel medio periodo sembra parlare a favore di queste ultime (la seconda non è ancora terminata, pur trasformandosi sempre).



Per capire meglio seguiamo la ricostruzione che Andre Gunder Frank compie in “America latina: sottosviluppo e rivoluzione”, del 1969. Quando gli spagnoli compiono la loro conquista del Messico trovano un impero Atzeco che aveva centocinquanta anni e nello Yucatan le sopravvivenze della cultura Maya, al nord tribù seminomadi. Il centro del Messico era molto popoloso e aveva una complessa struttura sociale che fu distrutta, la popolazione fu asservita e ridotta alla metà. Il nord era meno interessante e fu colonizzato solo molto lentamente. Questa è la frattura tripartita di lunga durata nella storia messicana.
Contrariamente ai vicini anglosassoni la cultura cattolica degli invasori spagnoli indusse però ad una società meno ferocemente razzista, nella quale tra bianchi e indios, e soprattutto tra bianchi e creoli le barriere erano meno definite (cfr. Alan Taylor “Rivoluzioni americane”, p.24), ma proprio questa circostanza, con la cooptazione di parte delle classi popolari, ostacola le ribellioni nell’ottocento. 

Miguel Hidalgo y Costilla

Ad esempio nel 1810 quella del prete Miguel Hidalgo y Costilla, che pure, alla testa di 80.000 uomini fu sul punto di prendere Città del Messico ma dopo appena un anno è tradito e viene fucilato il 30 luglio 1811. I creoli, cosiddette “caste coloniali”, variamente cooptati nella gestione dell’impero spagnolo, furono la barriera che si dovette abbattere per l’indipendenza. Dopo il tentativo, nel 1850, del primo presidente indio Benito Juarez, interrotto dai francesi di Napoleone III, la rivoluzione messicana rinasce come alleanza tra la borghesia e i contadini. Madera e Zapata con Villa (sud e nord).

C’è però diversità di obiettivi: la borghesia di Madero vuole indipendenza e liberalizzazione economica, i contadini vogliono emancipazione e terra.

Solo alla metà degli anni venti, dopo la morte di Zapata, e con Villa in ritirata, il presidente Calles avvia un programma di lavori pubblici, irrigazione e leggi che consentivano l’esproprio per pubblico interesse di terre da distribuire ai villaggi. E’ la piattaforma sulla quale le formazioni di “Tierra y libertad”, private della guida, sono ricondotte all’accordo. Nel 1923 anche Villa sarà ucciso da fazenderos con il sostegno dell'esercito in un agguato a Parral.

Ma la misura viene limitata quasi subito da interpretazioni restrittive, che, anche nelle più vigorose riforme di Cardenas (1934-40) lasciano sempre l’agricoltura contadina priva delle risorse economiche e di capitale sufficienti per avviare uno sviluppo autosostenuto. Le aziende contadine hanno meno di tre ettari (la media è 17), di qualità inferiore, con meno terra irrigata e molto meno acqua, meno di un sesto dei capitali e soprattutto quasi esclusivamente di provenienza pubblica, oltre un milione restano del tutto senza terra. Insomma, come ricorda Frank “la struttura politica ed economica emersa dalla rivoluzione non permette, e non era questo il suo vero destino, alla larga massa dei contadini di partecipare ai suoi frutti sul piano economico” (p.312).  
Alla fine per mancanza di capitale di esercizio molti ejidatarios restano costretti ad affittare la terra ad affittuari privati che hanno capitali, i quali riprendono come lavoratori salariati gli stessi (insomma, lavorano come salariati sulla loro terra). Gli altri emigrano, per lo più negli Stati Uniti.
Inoltre i pochi investimenti restano per lo più diretti al Nord, meno popoloso, con il risultato che la produttività per addetto tra le due aree, Nord e Sud, è differente di quasi dieci volte. Ma questa produttività resta concentrata nelle colture da esportazione vero i vicini Stati Uniti: cotone, legumi, zucchero, caffè, bestiame.

La piramide sociale messicana vede quindi dal basso all’alto, gli indigeni, i “senza terra” o disoccupati urbani, gli ejiendatarios, quindi gli operai veri e propri, la piccola classe media (professionisti, commercianti, clero, impiegati), quindi la grande borghesia (grandi proprietari terrieri, direttori degli apparati militari, finanziari, commerciali e industriali, ex aristocratici).

Quel che la rivoluzione, promossa dal basso da Zapata e Villa non riesce a superare è questa divisione interna di classe, la struttura metropoli-satellite che la caratterizza e lo sviluppo contraddittorio ed ineguale che ne deriva. Le metropoli, connesse in una gerarchia, si sviluppano alle spese del sottosviluppo che inducono in quelli che Frank chiama i loro “satelliti”, interni ed esterni. Lo sviluppo si nutre di colonialismo interno, di slums, di ejiendatarios, degli indios. Si tratta di una concatenazione di monopoli che determinano “sviluppo limitato” (dalla condizione di satellite che determinano).

Solo drenando surplus[1] le classi dominanti, tali perché in grado di interconnettersi con i centri “sviluppati” e di intermediarne i flussi nelle due direzioni, si riproducono come classe. La dinamica della rivoluzione messicana, la sua tragedia, ne è piena illustrazione. Queste, ben rappresentate dalla successione dei primi presidenti rivoluzionari, estraggono e trasferiscono i capitali prodotti dal lavoro.

La relazione tra centro e periferia, gli “effetti di dominazione” di Perroux, lo “sviluppo del sottosviluppo” di Frank[2], si scalano a tutti i livelli e designano un intero sistema totale di relazioni che dominano il sistema di scambio ‘ineguale’[3] mondiale continuamente in movimento. Un sistema totale che identifica il posto di ognuno in una gerarchia di centralità, geografiche e sociali.

Quel sistema contro il quale si ribellò Emiliano Zapata.




[1] - La teoria del surplus (nozione propria dell’economia classica, dai fisiocratici, da Quesnay, Smith e Ricardo) è stata formulata da Baran come quel prodotto sociale che rimane dopo che sono stati reintegrate le dotazioni produttive necessarie alla generazione (lavoro e riproduzione incluse). Ma per Baran solo il surplus effettivo è osservabile in una data società concreta, il secondo è “la differenza tra il prodotto che si potrebbe ottenere in un dato ambiente naturale e tecnologico con le risorse produttive impiegabili, e ciò che si potrebbe considerare come consumo indispensabile”. Tra sviluppo e sottosviluppo, individuabile come differenza maggiore o minore tra surplus effettivo e potenziale, c’è quindi una relazione dialettica in quanto i paesi che si sviluppano lo fanno nella misura in cui drenano il potenziale di quelli che, per questo, restano ‘sottosviluppati’.
Nel dettaglio ci sono all’opera quattro meccanismi per Baran:
1-     L’azione della borghesia parassitaria (‘compradora’) che si organizza intorno al settore primario nei paesi periferici (anche se questa analisi va aggiornata nell’epoca successiva, quando il dominio passa dalla trasformazione delle materie prime al controllo di tecnologia ed informazione[20]), e ad intermediari delle esportazioni, grossisti, mediatori finanziari, che intercettano il flusso del surplus canalizzato verso la gerarchia dei centri ‘metropolitani’ e ne utilizzano parte molto rilevante per acquistare beni di lusso importati[21];
2-     Le industrie monopolistiche interne, che sono in relazione di dipendenza dal capitale estero, e fungono, tramite il pagamento dei ‘servizi’ del debito e delle parcelle di mediazione, da estrattore di ingenti capitali locali;
3-     L’iniziativa delle imprese multinazionali, che sono responsabili del rimpatrio della maggior parte dei profitti e che, grazie alla maggiore dotazione di capitale e l’alleanza politica con le borghesie ‘compradore’, si impossessano delle attività più remunerative, intercettando all’origine la possibilità di formazione del risparmio;
4-     Le stesse royalties pagate da queste ultime, che sono fonte di corruzione politica e di consumi di lusso.
Si veda In particolare “The political economy of growt”, 1957, e con Paul Sweezy, “La teoria dello sviluppo capitalistico”, 1942, e insieme “Il capitale monopolistico”, 1962.
[2] - Per un inquadramento della “teoria della dipendenza”, si veda Andre Gunder Frank, “Capitalismo e sottosviluppo in America latina
[3] - Si veda Samir Amin, “Lo sviluppo ineguale

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